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Basta utopie sul clima. Come essere verdi senza cadere nella trappola della decrescita infelice

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Come essere verdi senza precipitare nell’utopia della decrescita infelice?Come essere per l’ambiente senza cadere nella trappola di un -ismo? Come coltivare l’ecologia senza diventare illogici? Non abitiamo nel sogno di Icaro, non voliamo con le ali di cera, non pratichiamo la discussione fine a sé stessa, qui siamo nel campo dell’Homo Faber, dove c’è un problema reale si studia una soluzione efficace.

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Entro il 2050 la Terra sarà popolata da 10 miliardi di persone, tutte aspirano al benessere, a una vita dignitosa, alla disponibilità dei beni primari, cibo e energia prima di tutto.

C’è una teoria à la page che sostiene che questa crescita porti a una ineludibile politica della decrescita sul piano dei consumi, della produzione e perfino della demografia, attraverso uno stretto controllo delle nascite. Abbiamo delle semplici domande sul taccuino: chi decide come deve cambiare il modello di produzione e distribuzione della ricchezza sulla Terra? Chi rinuncia al proprio modello di sviluppo? Chi dice alla classe media occidentale – perché quello è il target – che deve rinunciare alla sua sempre più precaria agiatezza in nome di una politica neo-malthusiana che finirebbe per colpire gli ultimi e far scivolare molti altri nella povertà? Quale governo mondiale deciderà che cosa coltivare e mangiare? Chi metterà mai nero su bianco quali nazioni possono fare figli e chi no?

Distopia letteraria e realtà

Siamo di fronte a un’idea pericolosa perché conduce inevitabilmente alla ingegnerizzazione della vita stessa. Siamo nel campo della distopia letteraria che si sta facendo realtà, si comincia con la razione di cibo, si finisce con la selezione delle nascite e si realizza così l’incubo di una società come quella descritta da Aldous Huxley in “Brave New World”, un luogo con le emozioni sotto controllo, ridotto a produzione in serie,  forgiato dall’eugenetica, dove gli esseri umani sono un prodotto della fabbrica, rilasciati in vita, come il download di un software, secondo quote pianificate dai governi mondiali.

Come vedete, siamo dentro l’illusione della felicità che naturalmente produce il suo contrario, la frase di un protagonista del libro di Huxley: “La popolazione ottima è modellata come un iceberg; otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra”. Quelli sotto affogano. Non sarà l’utopia senza meta a salvare la Terra, ma le azioni concrete di chi può fare, la politica, le istituzioni, l’industria.

Prima di tutto, fare economia circolare è possibile; fin da ora è un tema – non il solo, ma quello più vicino e urgente – ricordato più volte nell’ultima presentazione a Roma del World Energy Outlook, quando Claudio Descalzi, AD di Eni, ha detto che bisogna “crescere organicamente e a basso costo, così da favorire la tecnologia e l’economia circolare”; quando la presidente Emma Marcegaglia ha ricordato come la governance di Eni sia “attenta alla transizione energetica”; quando Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia, ha ricordato che l’Africa nel giro di un paio d’anni “diventerà la regione più popolosa del mondo” e avrà bisogno di tutto, a cominciare dal cibo, e dunque userà più fertilizzanti; quando il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha ricordato che bisogna “consentire un pieno accesso all’energia a un miliardo circa di persone nel mondo che ne sono ancora prive, promuovere nuove politiche industriali capaci di soddisfare la crescente domanda globale di energia, salvaguardando al tempo stesso l’ambiente”.

Non c’è divergenza, bisogna fare. Il settore agroalimentare, la produzione del cibo necessario per la sopravvivenza della specie umana, è responsabile del 37 percento delle emissioni globali di gas serra, il 13 percento proviene dalla deforestazione tropicale, l’11 percento dalla produzione agricola e un ulteriore 13 percento dalla perdita e trasformazione degli alimenti. Dietro questi numeri sono celati molti errori commessi dall’uomo; si possono correggere, ma non possiamo eliminare quello che gli -ismi vedono come un problema: l’esistenza dell’uomo sulla Terra.

Dobbiamo usare meglio le nostre risorse, consumare meno il suolo, rispettare il mare e il suo ciclo naturale. L’essere umano non deve tornare indietro, ma imparare a usare le sue grandi invenzioni e scoperte, la plastica prima di tutto, opera del genio di un italiano, Giulio Natta, premio Nobel per la chimica. La chiave del suo uso è il suo… ri-uso, il suo inserimento nell’economia circolare.

I materiali riciclabili sono più sicuri di un altro materiale di cui non conosciamo il futuro comportamento quando viene abbandonato nell’ecosfera. La concentrazione della popolazione del pianeta nelle aree urbane è un fenomeno inesorabile: dove c’è lavoro, ci sono le grandi migrazioni interne e esterne. Pensate alla Cina, al fenomeno della “popolazione fluttuante”: nel 1978 la popolazione nelle aree urbane era pari a 170 milioni di persone, nel 1990 gli abitanti delle città erano 221 milioni; nel 2003 erano 523 milioni, oggi sono 810 milioni. Dal 1978 a oggi 640 milioni di persone sono migrate dalle aree rurali a quelle urbane. Che cosa è tutto questo? Una ciclopica rivoluzione che ha un impatto globale.

Il cinquanta percento della popolazione mondiale oggi vive in aree urbane, qui si concentra il 70 percento delle emissioni umane di CO2, l’emergenza – la sfida di ogni giorno – è quella delle metropoli, molte hanno subito un processo di deforestazione, sono prive di aree verdi.

Bisogna piantare alberi. Rappresentano uno degli strumenti più accessibili ed efficaci per il raggiungimento dei Sustainable Development Goals (SDGs), fanno bene all’aria, alla temperatura, alla vista, alla vita sociale. E qui entrano in gioco altri elementi, l’urbanistica e l’architettura. Il disegno dell’uomo. L’intelligenza al servizio del benessere di tutti.

Stefano Boeri, l’uomo che ha dato vita al “bosco verticale” a Milano, ha raccontato come “gli alberi sono in grado di assorbire gli agenti inquinanti come le polveri sottili e di stemperare, grazie alla loro ombreggiatura, l’effetto ‘isola di calore’ tipico dei centri urbani densi e congestionanti, raffrescando la temperatura dell’aria di 2-3 gradi centigradi e consentendo una riduzione significativa dei consumi di energia elettrica nel condizionamento dell’aria negli interni urbani”. Quando tutti avranno l’aria condizionata, la Terra sarà bollente. Che fare?

La soluzione deve essere politica

Piantare. Non sradicare. Far crescere. Non abbattere. La deforestazione in America Latina per la produzione di materie prime è un problema del Brasile, degli Stati sudamericani o dell’intera comunità internazionale? Quando il presidente Jair Bolsonaro dice all’Onu che “è sbagliato affermare che l’Amazzonia è patrimonio dell’umanità” ha torto o ragione? Dove comincia e dove finisce la sovranità su uno dei polmoni della Terra? Sono problemi politici che devono trovare una soluzione politica che, in questo caso, passa attraverso un lavoro virtuoso delle Nazioni Unite, con concretezza e non con risoluzioni che poi restano lettera morta.

Purtroppo la perdita di foreste naturali continua, quelle primarie insostituibili sono in pericolo. Vengono al pettine tutti i problemi irrisolti della governance globale, i suoi limiti, i temi reali coperti dagli strepiti di chi si fa alfiere di un -ismo senza soluzioni. Dove c’è il rovescio, c’è anche il dritto, dunque se abbiamo la spia dell’allarme accesa per zone vitali della Terra come la foresta amazzonica, dobbiamo ricordare che in Europa la politica di riforestazione è efficace, il suolo dell’Unione europea coperto da foreste è cresciuto, tra il 1990 e il 2010, di circa 11 milioni di ettari. Si può fare. Serve una grande coalizione per l’ambiente. Il comportamento singolo è quello di tutti, la grande impresa comincia con il piccolo esempio.


La guerra (silenziosa) per controllare il tesoro dell’Artico

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L’Artico è diventato “caldissimo” sotto tutti gli aspetti; lo scioglimento dei ghiacci sta innescando una competizione tra super potenze per il controllo delle risorse naturali del sottosuolo e per l’apertura di nuove rotte commerciali. Una guerra combattuta silenziosamente da Russia, USA, Norvegia, Danimarca e Canada. Un giro di affari da 90 miliardi di barili di petrolio e un tesoretto che, secondo le stime dell’Onu, vale il 30% delle riserve mondiali di gas.

La storia energetica dell’Artico inizia in Russia. Ad aprire la grande corsa agli idrocarburi fu la scoperta del campo Tazovskoye13 nel 1962; fu poi la volta proprio dell’Alaska, con il campo Prudhoe Bay venuto alla luce nel 1967. Circa 61 grandi giacimenti di petrolio e gas naturale sono stati scoperti a partire da quella data all’interno del circolo polare artico in Russia, Alaska, Canada e Norvegia. Quindici di questi grandi campi sono così dislocati: 11 in Canada e nei Territori del Nordest, 2 in Russia, e 2 nell’Alaska artica.

Ed è proprio la Russia di Putin il paese che più sta puntando sull’Artico, anche per acquisire un vantaggio geo-politico nello scacchiere internazionale ed allargare la sua sfera di influenza. Come la Cina rivendica il 90% del isole del Mar Cinese Meridionale costruendo basi militari su strutture artificiali create su barriere coralline appena affioranti, così la Russia rivendica il controllo delle risorse energetiche sotto l’Artico creando una serie di nuove basi militari che circondano il Circolo Polare Artico.

Le truppe di Mosca stanno portando a termine la costruzione di nuove basi militari permanenti per respingere chi minaccia i suoi interessi economici nella zona, a partire da Canada, Norvegia e Danimarca.

L’operazione fa parte di un piano più ampio che prevede tredici piste di atterraggio e dieci nuovi sistemi radar a lungo raggio. Tra le nuove basi in fase di costruzione c’è anche quella di Trefoil sulla grande isola conosciuta come Terra di Alessandra (Zemlja Aleksandry) nel Mare di Barents; le altre nuove installazioni si trovano sull’isola di Kotelny nell’arcipelago della Nuova Siberia, sull’isola di Sredny nell’arcipelago Di Nicola II o Severnaya Zemlya, a Rogachevo sull’isola di Novaya Zemlya, a Wrangel e Cape Schmidt sulla penisola della Chukotka, ai confini con l’Alaska.

All’inizio di dicembre 2015 il ministero della Difesa russo ha annunciato di aver schierato in due basi, nell’arcipelago di Novaya Zemlya (la stessa di Rogachevo, isola tra il Mare di Barents e quello di Kara oltre il Circolo Polare Artico) e nel porto di Tiksi in Siberia, due batterie del loro più moderni e potenti sistemi anti-aereo: l’S-400.

Si tratta dello stesso sistema d’arma schierato in Siria a protezione delle forze aeree russe dopo l’abbattimento di un Sukhou 24 da parte di 2 F-16 turchi. L’S-400 è un sistema composto da un mezzo semovente comando, due tipi di radar semoventi, che controllano fino ad un massimo 12 piattaforme di lancio semoventi, ognuna in grado di sparare quattro missili. In questo modo un sistema S-400 può seguire e distruggere fino 80 obiettivi in cielo entro un raggio di 400 chilometri.

Dal canto loro gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra di nervi con gli ambientalisti che contestano qualsiasi opzione di sfruttamento energetico dell’Artico e non possono rispondere “colpo su colpo” alle iniziative russe con un Presidente in scadenza di mandato.

L’ex presidente Obama aveva annunciato il varo di un decalogo di regole per la gestione dell’area artica, la principale delle quali riguarda l’impegno a verificare e garantire che tutte le attività commerciali che si dovessero svolgere nell’Artico rispettino i più alti standard di sicurezza e ambientali, in riferimento soprattutto agli obiettivi nazionali in tema di tutela ambientale e cambiamenti climatici. Per questo il Bureau of Ocean Energy Management, nel processo di pianificazione delle attività petrolifere offshore, collaborerà con il Canada affinché la regolamentazione globale per la gestione della zona artica, fissato dalle 2 nazioni, venga rispettata.

Da parte sua, Ottawa ha stimato che sepolti sotto il Mar di Beaufort, nell’Oceano Artico, potrebbe risiedere circa 1,36 miliardi di barili di petrolio. Ma anche sul versante canadese non mancano le difficoltà. Grandi società Oil & Gas come Imperial Oil, Exxon Mobil, BP e Chevron potrebbero vedersi costrette ad abbandonare i propri progetti di ricerca ed estrazione dal momento che non sono state in grado di convincere le autorità federali che possono proseguire nelle attività di perforazione – prima che le loro licenze scadono – senza scongiurare del tutto il rischio ambientale.

La situazione nell’Artico è in costante evoluzione, bisognerà aspettare le prossime mosse di Trump e vedere le contromosse di Putin. Il circolo polare artico è diventato l’ultima frontiera della Guerra Fredda, una Guerra Fredda che punta alle risorse economiche più che al controllo politico. Insomma, una guerra in linea con i tempi.

Intanto, il Presidente Trump ha rinnovato il suo interesse verso la Groenlandia offrendo alla Danimarca un pacchetto di investimenti dal valore di 12 milioni di dollari più la possibilità di istituire un consolato americano sull’isola. Ma i politici danesi non hanno ben accolto la proposta definendola “inacettabile”.

La crisi di sistema innescata dal Covid potrebbe far tornare il bacino europeo nel cono di attenzione energetico di molti player, ovvero essere destinatario di nuove commesse e, quindi, di nuove tensioni.

Le energie rinnovabili sono meno verdi di quello che sembrano

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Un mondo elettrico, finalmente libero da cartelli petroliferi e dal timore di un esaurimento delle risorse. Un mondo smart e pulito, che superi il modello ottocentesco fatto di estrazioni e combustione. Il raggiungimento di questa nuova Arcadia è veramente la posta in palio della transizione energetica o siamo di fronte ad una narrativa molto generosa a favore delle nuove fonti?

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In realtà, analizzando nel dettaglio l’intero ciclo di produzione, questo antagonismo tra opposte strutture appare come una grossa semplificazione. Infatti, dietro la cosiddetta rivoluzione verde ci sono modelli industriali ed energetici che non rappresentano una discontinuità con il passato. Anzi, in determinati casi appaiono ancora più invasivi. Si tratta ad esempio dei modelli di estrazione dei minerali necessari per i motori elettrici e le batterie.

I metalli del passato e quelli attuali

Fino agli anni ‘70 il mondo sfruttava solo una ventina di metalli. Con il boom dell’elettronica, e poi delle fonti rinnovabili, abbiamo cominciato ad usare quasi tutta la Tavola Periodica degli elementi e i suoi ottanta metalli. Si tratta di metalli che hanno proprietà magnetiche, di catalizzatori, di accumulo, e di conduttori. A livello di batterie si privilegiano gli ioni di litio, il più leggero dei metalli, che presenta anche una elevata densità energetica, consentendo di stoccare più energia. I primi cellulari usavano il piombo e pesavano circa un chilo solo di batterie e presentavano un’autonomia di appena trenta minuti. Il litio ha dieci volte la densità energetica del piombo e consente di avere telefonini dal peso di poco più di un etto, con una capacità di conversazione di 14 ore.

Il cobalto (kobolt era il folletto diabolico che faceva trovare un inutile metallo ai cercatori d’oro tedeschi) è anch’esso essenziale nelle batterie dei veicoli elettrici che contengono fino a 10-15 kg di minerale. E poi il manganese e il nichel per la produzione dei catodi, la grafite per gli anodi. Recentemente abbiamo cominciato a sfruttare i lantanidi, cioè i 15 elementi che vanno dal lantanio al lutezio (numero atomico tra il 57 e il 71), oltre allo scandio e all’ittrio.

Questi 17 elementi sono chiamati erroneamente “terre rare”, per la loro difficoltà di produzione (sono spesso concentrati in meno del 3 percento della roccia da cui sono estratti) e non per la loro ampia disponibilità nel sottosuolo. I più utili sono il neodimio (magnete usato nei motori elettrici), il disprosio (dal greco “difficile arrivarci”), il praseodimio, il gallio o il cerio. Il 60 percento delle terre rare sono usate come magneti (da cui generano il 90 percento del valore) o catalizzatori. Come il litio, che ha una elevata densità energetica, i lantanidi assicurano un’elevata suscettività magnetica in poco peso. Insomma, per fare ricette sempre più gourmet, abbiamo riempito la cucina non solo di rosmarino o salvia ma di zafferano rosso o caviale albino. Sapori forti con poche quantità. E ci stiamo sbizzarrendo nel come usarli.

L’estrazione, un lavoro brutale e certosino

Ma produrre questi minerali è un’operazione complessa, per stomaci forti. Infatti, estrarre metalli non è come produrre idrocarburi liquidi o gassosi da una roccia in pressione (perforare fino a 5 km di profondità con sottili cannucce – il diametro finale di un pozzo è poco più grande di un piattino per il pane al ristorante), ma richiede lo sbancamento di tonnellate di roccia da cui estrarre i materiali chiave. Il lavoro di estrazione è brutale e certosino allo stesso tempo. Infatti, i minerali non si trovano quasi mai in forma pura ma assemblati assieme ad altri.

Ad esempio, da un chilo di roccia si possono estrarre 66,5 milligrammi di cerio, 19 di gallio e 0,8 di lutezio. Ogni anno il mondo consuma 150 mila tonnellate di cobalto e 170 mila tonnellate di terre rare, che vengono estratti a loro volta da miliardi di tonnellate di altro materiale e purificati. Per questo le rocce vengono raffinate con acqua e solventi e reagenti, come l’acido solforico, per estrarre i prodotti puri. Ogni tonnellata di terre rare richiede 200 metri cubi di acqua. E i residui delle lavorazioni hanno un alto contenuto tossico o radioattivo.

Il litio, invece, è prodotto come carbonato dall’essiccazione di saline che si trovano in buona parte nel triangolo andino tra Bolivia, Cile e Argentina. Si perfora un pozzo per estrarre una salamoia di sale, che viene lasciata essiccare per 12-18 mesi. In alternativa, si produce alla vecchia maniera, cioè in miniera. Anche dal punto di vista geopolitico, non ci troviamo davanti ad un cambio radicale, ma solo geografico.

Pur avendo riserve disperse in diverse regioni, molti di questi metalli sono prodotti in pochi paesi (in pratica dove l’attività di estrazione viene ancora svolta con invasività e a minor costo). Per inteso, la Cina è di gran lunga il paese da cui stiamo aumentando la dipendenza, con una rilevanza del 70 percento delle produzioni di alcuni metalli chiave e il 90 percento delle loro lavorazioni. Ad esempio, le terre rare sono prodotte per 120 mila tonnellate in Cina (la città mineraria di Baotou sembra la scenografia di Blade Runner), mentre negli Stati Uniti la produzione è appena di 15 mila tonnellate. Il cobalto è invece prodotto per due terzi in miniere a cielo aperto (con un diffuso uso di lavoratori – bambini) in Congo DRC, per poi essere ancora lavorato quasi interamente in Cina. Il litio è prodotto per il 90 percento in Cile, Argentina, Australia e Cina.

Quanto sono verdi le energie “green”

Ma il volto più antico delle rinnovabili non si limita alla miniera. Infatti, nella fabbricazione degli impianti produttivi troviamo pesanti impronte di combustibili tradizionali. La costruzione dei sistemi di generazione come le pale eoliche o i pannelli solari richiede consumi di carbone, petrolio e gas (ad esempio, nella fusione dell’acciaio o del cemento dei piloni e dei rotori o del vetro e dei polimeri dei pannelli solari). Un parco eolico da 400 MW richiede la posa di 150 turbine, alte 100 metri, e composte da acciaio e cemento. Ogni pala eolica è composta da 260 tonnellate di acciaio, prodotte con la fusione di ferro e di 170 tonnellate di carbon coke. Considerando che nel mondo ci sono 2 milioni di MW di capacità elettrica a carbone, l’eventuale sostituzione di questo parco elettrico con wind farm determinerebbe lo spiazzamento del consumo di carbone nel power con il consumo di carbone nell’acciaio.

E anche le macchine di trasporto di questi impianti verso i siti di produzione non sono elettriche ma sono alimentate da prodotti petroliferi. Le installazioni del wind off-shore hanno una forte somiglianza con le piattaforme petrolifere e fanno largo uso di speciali imbarcazioni a tradizionale motore a combustione.

Un ulteriore fattore di alleanza implicita tra il mondo nuovo e le vecchie tradizioni deriva dal connubio tra fossili e rinnovabili in fase di produzione elettrica. Infatti, il back up durante le fasi di bonaccia o buio è in buona parte assicurata da fonti di produzione elettrica tradizionali che danno continuità di generazione per l’80-90 percento delle ore di consumo in cui le rinnovabili sono spente. Di fatto le rinnovabili, in assenza di una tecnologia efficace per lo stoccaggio, sono la fonte elettrica ideale per il mezzogiorno e per il tramonto, quando sale il vento. Ma non sono utili in tutte le altre ore in cui si realizzano i consumi, compreso di notte quando, presumibilmente, saranno ricaricate gran parte delle auto elettriche.

A questi fattori si aggiunge anche la dispersione e la moltiplicazione di tanti piccoli siti produttivi che deriva dalla bassa densità di potenza delle rinnovabili. Più materiali, più reti, e più elettronica non è la ricetta ideale per ottimizzare le economie di scala e ridurre gli impatti emissivi lungo la catena di produzione. Per questo le fonti rinnovabili sono realmente “green” solo nella fase di generazione elettrica. Ma sono piuttosto fossili e decisamente minerarie in tutte le attività a monte. Lungo l’intero ciclo di vita, possono emettere carbonio a volte in misura maggiore delle fonti che intendono spiazzare. Un gap che può essere colmato solo prevedendo un prolungato ciclo di vita di questi asset e il cumulo del beneficio ambientale durante il ciclo di generazione. Un vero calcolo netto del costo/risparmio, in termini di emissione di tutti i fattori descritti, non è disponibile.

Un sistema di fatto ibrido e condiviso

Certo è che l’idea che la transizione energetica sia una lotta tra il bene e il male, tra modernismo e oscurantismo, è quanto di più sbagliato si possa immaginare. Stiamo soltanto spostando le emissioni da una stanza all’altra, ampliando alcune esternalità a monte della catena di generazione e intensificando l’utilizzo della litosfera. Lo facciamo in Cina, in Cile e in Congo, e in futuro in Russia. Non pare neanche un grande progresso dal punto di vista geopolitico.

È quindi evidente che quello che viene descritto come un antagonismo è invece un sistema molto più ibrido e condiviso. La rivoluzione verde non ha i connotati del cambiamento radicale, ma rappresenta solo una forma diversa di dipendere da risorse estrattive, emissioni, combustioni e relazioni geopolitiche. Un miglioramento – laddove possibile – delle forme attuali di utilizzo ma anche il proseguire della dipendenza dalle industrie più classiche che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema economico e produttivo. E, paradossalmente, tutti gli scenari di drastiche riduzioni della produzione o dei consumi di fonti fossili avrebbero in primis una vittima indesiderata: la stessa crescita delle rinnovabili, che vedrebbe aumentare in maniera rilevante i propri costi di produzione.

Come nella favola di Esopo, lo scorpione ha bisogno della rana su cui è appoggiato per attraversare il fiume. Pena l’annegamento di entrambi. Oggi il verde è il colore favorito da tutti gli stilisti. Ma guardando bene, tra le pieghe dei tessuti, emergono ben visibili tante tonalità di nero.

Il motore a idrogeno Toyota potrebbe salvarci dalla dipendenza dalle batterie cinesi

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Ormai sappiamo tutti che il futuro dei trasporti (auto, treni, aerei, bus) deve andare verso la sostenibilità ambientale. L’industria automobilistica ha individuato nella trazione elettrica la soluzione ideale. La quote di mercato delle auto elettriche e ibride salgono costantemente da anni, con una forte accelerazione negli ultimi mesi. Ma c’è un problema, anzi due: come, dove e a che costo saranno smaltite le batterie? Possiamo permetterci il lusso di dipendere dalla Cina che controlla l’80% delle materie prime necessarie per costruire le batterie?

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Alla prima domanda dovranno rispondere le istituzioni e dovranno farlo a breve perchè il rischio è perdere nella fase di smaltimento tutto il vantaggio in termini di minor inquinamento garantito dai motori elettrici.

Alla seconda domanda la risposta è semplice: no, non ce lo possiamo permettere. La Cina non è una democrazia nel senso occidentale del termine e una sempre maggiore dipendenza tecnologica acuirebbe le frizioni già in corso su altri fronti (intelligenza artificiale e 5G) e la transizione tout court verso l’elettrico rischia di distruggere la filiera industriale dell’automotive (motori, cambi, trasmissioni e componenti legati ai motori termici) che tra Europa e Usa da lavoro a milioni di persone.

Per chi non lo sapesse, l’industria automobilistica è il più grande datore di lavoro del mondo e la maggior parte dei fornitori dell’indotto avranno difficoltà a convertire le loro produzioni verso la componentistica per le auto elettriche, dati gli alti investimenti e le economie di scala richiesti.

Pertanto, l’esperimento della Toyota di produrre un motore termico alimentato a idrogeno, oltre al valore ambientale di sviluppare una tecnologia pulita alternativa all’elettrico, potrebbe salvare filiera e indotto dell’automotive sulle due sponde dell’Atlantico.

Toyota e il motore a idrogeno

Siamo abituati a pensare che le auto a idrogeno siano elettriche a fuel cell. Il leggerissimo gas viene quindi immesso nelle celle a combustibile nelle quali, combinandosi con l’ossigeno dell’aria, genera elettricità che alimenta il motore di trazione, come nella Toyota Mirai, l’auto più avanzata di questo genere. Ma la Toyota vuole provare anche un’altra soluzione e propone l’idrogeno come combustibile da bruciare direttamente in un motore endotermico.

Questa combustione è amica dell’ambiente perché non produce CO2 (non c’è il carbonio dei combustibili fossili), ma solo vapore acqueo, eccezion fatta per la piccola quantità di olio che può passare in camera di scoppio e lì bruciare, come accade per tutti gli altri motori a scoppio. Dobbiamo aspettarci, come sottoprodotto della combustione, anche un po’ di ossidi d’azoto NOx perché l’aria è fatta in maggioranza di azoto che si può combinare con l’ossigeno in camera di scoppio. 

Ci aveva provato anche la BMW

Il motore endotermico alimentato a idrogeno non è una novità assoluta: diversi costruttori ci hanno provato prima, fra cui la BMW, che per anni ha sviluppato il motore a idrogeno V12 riuscendo infine, nel 2006, a mettere in produzione un piccolo lotto di 100 Serie 7 da affidare a clienti selezionati, ma poi nel 2009 ha cancellato il progetto interamente, concentrandosi su altre tecnologie. Quella della BMW era una soluzione molto complicata perché, non solo il possente 12 cilindri poteva andare anche a benzina, ma l’idrogeno era stoccato allo stato liquido, in speciali serbatoi super-raffreddati.

Oggi la Toyota presenta una soluzione decisamente più semplice, che sarà sperimentata prima nelle corse. Rispetto al progetto BMW l’alimentazione è monofuel a idrogeno e il gas viene conservato allo stato gassoso e a temperatura ambiente in bombole ad alta pressione.

La casa giapponese ha dotato di questo motore una Corolla Sport che debutterà in una 24 ore di endurance il 21 maggio nel team ORC Rookie Racing, in una gara del campionato Super Taikyu Series 2021. Il motore è un 3 cilindri turbo 1.600 mentre la trazione integrale deriva da quella della sportivissima GR Yaris. La casa riporta che i sistemi di alimentazione e iniezione derivano da quelli utilizzati con i motori a benzina.

Koji Sato, presidente del reparto sportivo di Toyota Gazoo Racing, durante la presentazione del progetto ha affermato che la combustione dell’idrogeno è otto volte più veloce rispetto a quella della benzina e quindi il motore è più pronto nella risposta all’acceleratore. Questi motori dovrebbero quindi avere il potenziale per il divertimento di guida pur essendo a emissioni locali praticamente pari a zero.

Ovviamente il propulsore è costruito per sostenere le alte temperature e pressioni della combustione dell’idrogeno ma non si tratta di cose insormontabili, come dimostrato dai motori a GPL e metano.

Nella stessa presentazione Akio Toyoda, presidente della Toyota, ha voluto enfatizzare la sicurezza raggiunta dalla moderna tecnologia dell’idrogeno dichiarando che “molte persone in Giappone associano l’idrogeno alle esplosioni. Quindi dimostrerò che è sicuro guidando io stesso in una gara”. Siamo convinti che la tecnologia dell’idrogeno sia ormai molto sicura ma rimangono, per le applicazioni di massa, i dubbi su produzione e trasporto del gas e sull’efficienza: produrlo richiede molta energia e anche i motori endotermici rendono meno di quelli elettrici. Ma anche questo è un problema che la tecnologia può risolvere.

Non ci resta che attendere l’esito della sperimentazione Toyota.

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Quando la tua casa inquina più di un’automobile

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Efficienza e sicurezza energetica, sostenibilità ambientale e economia circolare: temi che interrogano anche la filiera dell’oil&gas nel delicato equilibrio tra costruito e ambiente. Perché è sempre più di attualità il dato che anche la casa inquina e una vera e propria rivoluzione dovrà interessare il patrimonio immobiliare e le opere infrastrutturali e avrà tra i suoi principali attori anche le società energetiche.

Esperti del settore, opinion leader, rappresentanti di Istituzioni e business community hanno analizzato gli aspetti principali legati all’innovazione energetica in Italia e in Europa. Dal miglioramento della qualità dell’aria attraverso l’efficienza energetica, all’importanza delle certificazioni energetiche degli edifici, per un’effettiva riduzione delle emissioni inquinanti, fino all’ultima analisi che evidenzia come le innovazioni tecnologiche, standard di consumo energetico elevati e strategie di azione coerenti possano contribuire a rigenerare il patrimonio immobiliare italiano.

Temi al centro del quinto focus “Rigenerare il patrimonio immobiliare: la rivoluzione energetica degli edificicurato dal gruppo di lavoro di The European House – Ambrosetti in collaborazione con l’“Osservatorio ENGIE dell’Innovazione Energetica”, che si concentra sugli edifici residenziali e, in seconda battuta, sugli edifici adibiti a uffici o dedicati al settore terziario senza considerare, se non marginalmente, gli edifici industriali.

Ne parliamo con il Project Leader, Lorenzo Tavazzi, Associate Partner e Responsabile Area Scenari e Intelligence di The European House – Ambrosetti.

Quali sono i punti chiave che emergono dall’Osservatorio dell’Innovazione energetica?

Il Rapporto ha messo in luce un aspetto spesso sottovalutato nell’analisi delle emissioni e dei consumi energetici italiani: il ruolo fondamentale che hanno gli edifici con il 40% dei consumi energetici di cui il 28% attribuibile al residenziale. Con oltre 12 milioni di edifici e circa 35 milioni di unità abitative adibiti a residenziale, in Italia l’incidenza di questo segmento è ai vertici in Europa (84% degli edifici esistenti sono residenziali a fronte del 76% francese e del 68% tedesco).

Non solo auto che inquinano ma anche case?

Esattamente: le emissioni provenienti dagli edifici sono estremamente significative. Inoltre, le recenti normative europee prevedono sì la definizione di edifici a energia quasi zero(i cosiddetti NZEB), ma tale categoria si applica solamente alle nuove costruzioni. Con un tasso di rinnovamento pari allo 0,7%, in Italia la chiave dell’efficientamento degli edifici passa quindi per il patrimonio esistente, in primis dei condomini urbani. Circa il 50% delle abitazioni insiste su edifici di oltre 40 anni, un tale dato sale a oltre il 75% nelle città metropolitane.

L’efficientamento del patrimonio immobiliare esistente passa anche attraverso le società energetiche. Quale può essere il loro ruolo?

Le società energetiche hanno un ruolo cruciale per rendere possibili gli interventi di efficientamento energetico nei grandi condomini, in quanto consentono di abbattere i costi di intervento iniziale attraverso l’acquisizione dei crediti d’imposta. Inoltre, per la parte di intervento non coperta da detrazione, le ESCo possono finanziare l’investimento che si verrebbe a ripagare con i risparmi generati dall’intervento stesso. In questo modo i costi per i condomini, vero ostacolo per l’approvazione degli interventi, possono essere ulteriormente ridotti.

La casa  4.0 che diventa un vero e proprio sistema integrato di filiere energetiche.

Quello che abbiamo definito “Casa 4.0” è esattamente un sistema integrato a livello orizzontale tra le diverse filiere, caratterizzato dall’interoperabilità dei vari dispositivi a esso connessi e capace di soddisfare i crescenti bisogni di vivibilità e sostenibilità che sono percepiti dai consumatori. È un concetto che riunisce il passaggio da “casa passiva” a “casa attiva”, l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili, smart grid e interoperabilità dei sistemi. Si tratta di un sistema integrato che si andrà ulteriormente a rafforzare con il dispiegamento della rete 5G che fa dell’interoperabilità e della connessione dei diversi dispositivi la propria chiave di sviluppo.

Le normative comunitarie per l’efficienza energetica degli edifici partono già dai primi del 2000 e l’Italia è ancora indietro. Cosa può mutuare dagli altri Paesi europei?

Ogni Paese ha le proprie peculiarità in termini di patrimonio immobiliare. Sicuramente priorità d’azione per l’Italia sono l’allineamento deglistakeholder pubblici(Stato, Regione e Comune) per un’azione di armonizzazione delle regole e la definizione di un piano pluriennale per l’efficientamento energetico degli edifici. Tali azioni sono già state sviluppate da parte di molti competitori europei; la Germania infatti ha lanciato un piano simile già nel 2015 ed è quanto mai opportuno che anche l’Italia si muova in questa direzione.

Investimenti, incentivi e un Fondo di garanzia possono aiutare questo percorso di transizione?

Nel rapporto è stata evidenziata l’importanza dei meccanismi che agevolano la finanziabilità degli interventi che, come detto in precedenza, costituisce il maggiore ostacolo per gli interventi nei condomini urbani fortemente inefficienti. La definizione delle modalità operative del Fondo Nazionale Efficienza energetica, arrivata a gennaio 2019 a distanza di 4 anni dalla sua istituzione, è certamente un segnale di attenzione da parte del Governo ai temi dell’efficienza energetica.

Ma non è solo un problema di fondi. Occorre sensibilizzare cittadini e imprese?

Assolutamente sì, manca ancora una piena consapevolezza circa i benefici che sarebbero ottenibili attraverso l’efficienza energetica. Per questo motivo nel nostro Rapporto abbiamo sollevato l’opportunità di adottare un vero e proprio “libretto di manutenzione della casa” che informi l’utente degli investimenti necessari per mantenere la casa su livelli prestazionali elevati e, possibilmente, poter pianificare gli interventi di manutenzione nel tempo. 

Ci parli di qualche caso di best practice internazionale.

Con riferimento ancora alla programmazione pluriennale, troppo spesso trascurata in Italia, si può citare il caso della Danimarca, che ha introdotto per prima misure di efficienza energetica per gli edifici. Tali misure sono state riviste progressivamente al rialzo preparando l’industria del settore con quasi dieci anni di anticipo rispetto all’introduzione dei nuovi requisiti. Anche la Francia è un buon esempio di standard progressivamente migliorati nel tempo, come testimoniano le ottime performance del Paese nella costruzione di edifici che oggi rispettano gli standard delle emissioni quasi zero.

Ci sarà un seguito nella ricerca? E quali saranno i punti oggetto di riflessione?

Nell’ambito delle attività che, come The European House – Ambrosetti, stiamo portando avanti in questo periodo, abbiamo diverse iniziative che riguardano la transizione energetica, anche alla luce del dibattito in corso sul Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. In questo senso, gli interventi per gli edifici sono un aspetto fondamentale per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di efficienza energetica fissati dal Paese.

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Come dovrà variare la Natura delle città per gestire l’impatto dei cambiamenti climatici

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Le aree urbane contribuiscono in modo determinante all’accelerazione del cambiamento climatico. Sebbene coprano solo il 3 percento della superficie terrestre, le città ospitano più della metà della popolazione mondiale, sono responsabili del 60-80 percento del consumo energetico e di almeno il 70 percento delle emissioni umane di anidride carbonica.

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Indirettamente, inoltre, contribuiscono all’aumento dell’anidride carbonica attraverso la deforestazione, conseguenza della loro espansione a scapito dei sistemi naturali urbani e peri-urbani. Queste cifre sono allarmanti se si considera che, secondo le proiezioni attuali, entro il 2030 le città ospiteranno più del 60 percento della popolazione mondiale, con conseguente aumento del consumo di suolo e risorse, richiesta di servizi, ed emissioni.

Le aree urbane sono però anche altamente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. Circa il 60 percento della popolazione urbana vive in zone ad alto rischio di esposizione ad almeno un tipo di disastro naturale, in particolare inondazione e siccità. A causa dei cambiamenti climatici, eventi meteorologici estremi stanno colpendo in modo sempre più frequente le città di tutto il mondo e ci si attende che nei prossimi decenni rappresenteranno la principale minaccia alla sicurezza alimentare, al benessere e alla vita stessa di centinaia di milioni di abitanti di aree urbane e periurbane.

L’innalzamento del livello del mare, l’aumento nella frequenza e nell’intensità di precipitazioni, inondazioni, cicloni e tempeste, l’aumento dell’alternarsi di estremi climatici di caldo e freddo rappresentano minacce tangibili, specialmente per le città del terzo mondo che devono già far fronte alla crescente povertà, alla carenza di cibo, alla mancanza di risorse, conseguenze di una urbanizzazione troppo spesso non aedguatamente pianificata. È in tali città, in particolare in Africa e Asia, che si concentrerà inoltre il 90 percento della crescita della popolazione urbana dei prossimi decenni.

Città sostenibili, la Nuova Agenda Urbana

L’urgenza di concentrare nelle aree urbane azioni volte a ridurre le emissioni climalteranti e ad aumentare la resilienza delle comunità urbane attraverso la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico è stata ampiamente sostenuta nel quadro degli accordi mondiali sullo sviluppo sostenibile.

L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta all’ONU nel 2015, pone la sostenibilità urbana come uno dei 17 obiettivi imprescindibili da raggiungere entro il 2030 (SDG11 – Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili). Su questo obiettivo di sviluppo sostenibile è stata poi redatta la Nuova Agenda Urbana (NUA), adottata a Quito (Ecuador) nel 2016 nel corso della conferenza “Habitat III”. La NUA è un documento orientato all’azione che definisce vari obiettivi globali per ripensare il modo in cui costruiamo, gestiamo e viviamo le città, sulla base del presupposto che se ben pianificata e gestita, l’urbanizzazione può essere un potente strumento per lo sviluppo sostenibile sia per i paesi in via di sviluppo che per quelli sviluppati. Anche nell’Accordo di Parigi sui Cambiamenti Climatici (2015), il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima, i paesi firmatari si sono impegnati a limitare l’aumento medio della temperatura mondiale a 1,5 °C riconoscendo il ruolo chiave e la responsabilità che le città hanno nel raggiungimento di tale obiettivo.

Una infrastruttura verde ben pianificata, gestita e integrata nel tessuto urbano e peri-urbano può fornire agli amministratori locali un valido strumento per far fronte in maniera efficace, performante e poco onerosa alle crescenti sfide che le città si trovano ad affrontare come conseguenza del cambiamento climatico.  In particolare, gli alberi e le foreste (che nel loro insieme costituiscono la “foresta urbana” di una città) sono in grado di fornire una serie di servizi ecosistemici che contribuiscono sia alla mitigazione del cambiamento climatico che all’adattamento agli effetti dello stesso.

Intercettando la pioggia con le loro chiome, trattenendo l’acqua e aumentando la superficie permeabile dei suoli urbani, gli alberi contribuiscono a ridurre l’impatto delle precipitazioni e a ridurre il flusso delle acque piovane, riducendo così la probabilità di inondazioni e conseguenti frane. Varie città nel mondo, tra cui Lima in Perù, stanno portando avanti con successo progetti di rimboschimento di pendii urbani degradati riuscendo a ridurre sostanzialmente la minaccia di frane e smottamenti e a rafforzare così la sicurezza delle comunità locali che vivono in siti disagiati e precari. I sistemi alberati sono fondamentali anche per il contributo che danno in termini di comfort termico. Ombreggiando i percorsi pedonali, gli edifici e le aree ricreative, gli alberi mitigano l’effetto isola di calore urbana e contribuiscono all’adattamento alle crescenti ondate di caldo delle stagioni estive, riparando al contempo dalle forti piogge che con sempre più frequenza si abbattono sulle città nelle stagioni delle piogge.

La città di Phoenix, Arizona, per esempio, sta investendo per aumentare entro il 2030 la copertura arborea dal 12 percento al 25 percento per mitigare le alte temperature locali, che raggiungono (e superano) i 37,8 °C per 109 giorni all’anno. Si stima che questo aumento della copertura possa diminuire di ben 2,4 °C la temperatura media locale. 

Cinture verdi per l’aria, l’acqua e il suolo

Molte città hanno investito nella creazione di “cinture verdi” per fornire ai cittadini spazi ricreativi facilmente raggiungibili e fruibili, delimitare l’area urbanizzata, e creare una continuità con l’ambiente naturale peri-urbano. Per esempio, negli anni ’90 la città di Vitoria-Gasteiz ha iniziato un ambizioso progetto per costruire una cintura verde intorno alla città per recuperare le aree degradate e creare nuove zone ricreative. Ad oggi la cintura verde misura 800 ettari di estensione. Le cinture verdi svolgono anche un importantissimo ruolo protettivo per le comunità urbane. In molti paesi delle regioni aride si realizzano cinture verdi con lo scopo di schermare le città dalle tempeste di sabbia, fissare le dune, e assicurare fasce di protezione dall’avanzamento del deserto. Ne sono esempio le piantagioni peri-urbane realizzate a ridosso delle città nigerine di Niamey e Tahoua per recuperare il paesaggio, e la Shelterbelt Three-North nella quale la Cina ha iniziato ad investire nel lontano 1978 per proteggere la città di Pechino dalle devastanti tempeste di sabbia che originano dai limitrofi deserti del Gobi e di Taklamakan.

Le foreste naturali limitrofe alle aree urbane sono anche fondamentali nel mantenimento dei bacini idrografici, fondamentali per garantire alle città l’approvvigionamento d’acqua. Nella contea di Kiambu, a Nairobi in Kenya, il degrado delle foreste peri-urbane ha causato una severa riduzione nell’approvvigionamento d’acqua, portando il governo locale a pianificare il recupero di queste foreste. La città di Philadelphia, negli Stati Uniti, ha iniziato ad investire nel 2011 in un piano per ridurre il volume delle acque piovane che raggiungono il fiume Delaware e spesso inondano la città. L’approvazione del progetto è stata preceduta da un’attenta analisi che ha confermato che affrontare il problema investendo in un’infrastruttura verde a livello di bacino idrografico permetteva di rispettare le norme federali ad un costo inferiore e con maggiore beneficio complessivo di quanto si sarebbe ottenuto con l’utilizzo di soluzioni ingegneristiche tradizionali.

Su scala più ampia, gli alberi e le foreste presenti in aree urbane e peri-urbane contribuiscono anche alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Assorbendo l’anidride carbonica durante il giorno, contribuiscono a ridurre le emissioni di carbonio generate dalle attività realizzate nelle città e nel territorio limitrofo dal quale il sostentamento delle comunità urbane indirettamente dipende (ad es., le zone peri-urbane destinate all’agricoltura per la produzione di cibo). Inoltre la vegetazione e i suoli delle foreste urbane sono grandi riserve di carbonio, che sequestrano e immagazzinano nella loro biomassa, diminuendo ulteriormente le emissioni totali. Schermando gli edifici dal sole e dai venti freddi, i sistemi alberati contribuiscono a ridurre il consumo di energia (e quindi le emissioni) necessaria per refrigerare e riscaldare artificialmente edifici pubblici e privati.

Le “fasce verdi” urbane promuovono inoltre una mobilità sostenibile, favorendo l’utilizzo di mezzi di trasporto a basso o nullo impatto ambientale (ad es. biciclette, monopattini) e gli spostamenti a piedi. Non da ultimo, le piantagioni arboree peri-urbane possono essere create e gestite come fonte rinnovabile di approvvigionamento di legname e legna da ardere destinate a consumo urbano, prevenendo così lo sfruttamento delle foreste naturali. In molti paesi africani, la legna da ardere rappresenta ancora il 60-80 percento del combustibile utilizzato per uso domestico per cucinare e riscaldarsi, e può rappresentare il 50-90 percento del consumo energetico nazionale.

Infine, gli alberi migliorano la qualità dell’ambiente urbano. Ad esempio, agendo da filtri naturali assorbono dall’aria gli inquinanti generati dal traffico veicolare, dai combustibili fossili e dalle industrie. A Pechino (Cina), solo nel 2002, i 2,4 milioni di alberi presenti nel centro della città hanno rimosso dall’aria oltre 1200 tonnellate di inquinanti. Tali gas e particolati sono la principale causa della crescente insorgenza di malattie respiratorie tra bambini e adulti nelle comunità urbane e, secondo i dati dell’OMS, causano ogni anno la  morte prematura di 3 milioni di persone. Fornendo spazi aperti di qualità per lo svago e le attività fisiche, gli spazi pubblici verdi promuovono stili di vita più sani e aiutano a contrastare l’insorgenza di obesità e malattie cardiovascolari. È stato anche ampiamente dimostrato che la presenza di alberi e di paesaggi naturali può avere effetti positivi sulla salute mentale delle persone, favorire l’apprendimento nei bambini, e accelerare il recupero dei degenti.

Un valore ancora spesso ignorato

Investire nelle foreste urbane permette quindi di agire in maniera sinergica nel contesto del cambiamento climatico integrando azioni di mitigazione e adattamento. A parità di servizio offerto, le infrastrutture verdi possono infatti rivelarsi molto più economiche da realizzare e mantenere nel medio-lungo termine, fornendo inoltre tutta la serie di benefici a miglioramento della qualità dell’ambiente urbano. Perché la foresta urbana ottimizzi i suoi benefici, la stessa deve essere integrata in un sistema del verde (infrastruttura verde) ben concepito, gestito e adeguatamente interconnesso, sia funzionalmente sia strutturalmente.  Isole verdi – naturali e semi-naturali, urbane e peri-urbane – interconnesse tra loro da corridoi diventano gli elementi strutturali di un sistema del verde multifunzionale in grado di massimizzare l’effetto anticlima, supportare la biodiversità locale, aumentare la resilienza della città agli stress ambientali e antropogenici.

Troppo spesso, però, gli alberi e le foreste sono tra le prime risorse “sacrificate” nel processo di espansione urbana e sono ancora poche le città che possono vantare una vera e propria strategia per il verde urbano che consideri gli alberi elemento integrale nella pianificazione e gestione degli spazi urbani. La NUA richiede esplicitamente alle città di impegnarsi nella gestione sostenibile delle risorse naturali nelle città e negli insediamenti umani, ridurre le emissioni di gas serra e l’inquinamento atmosferico, e promuovere la riduzione del rischio di catastrofi naturali e artificiali, attraverso soprattutto la pianificazione urbana e territoriale, le infrastrutture e i servizi di base. Alcune città hanno iniziato ad investire nella pianificazione, creazione e gestione sostenibile delle foreste urbane come strumento per fronteggiare problematiche urbane per le quali fino ad ora erano state impiegate tradizionali soluzioni “grigie” (asfalto, cemento, acciaio).

Nel 2011, ad esempio, gli amministratori della città di Vancouver hanno lanciato il Greenest City Action Plan con lo scopo di vincere entro il 2020 il primato di città più verde del mondo. Nel quadro di tale iniziativa è stata adottata nel 2014 una urban forestry strategy, finalizzata a supportare il raggiungimento di tale obiettivo e ad affrontare i crescenti problemi legati all’espansione della superficie urbana costruita, dovuta anche, paradossalmente, proprio al successo del Greenest City Action Plan che ha finito con l’attirare sempre più persone a trasferirsi nella città. Supportata dal progetto lanciato nel 2004 dal Governo Cinese “National Forest Cities”, la città di Fuzhou sta investendo nell’ampliare la sua foresta urbana, che al momento già copre più del 43 percento della superficie urbana, per raggiungere la sua visione, ovvero “aprire la finestra e vedere il verde; uscire di casa e vedere giardini; passeggiare sotto l’ombra”. La città di Milano ha da poco lanciato il programma ForestaMi con l’obiettivo di arrivare ad essere la città più verde di Italia, con 3 milioni di nuovi alberi che verranno piantati entro il 2030. Per realizzare un piano tanto ambizioso servirà la collaborazione di istituzioni, imprese, associazioni, cittadini.

Nei prossimi anni, gli spazi verdi diventeranno sempre più importanti nel garantire ai cittadini quei servizi necessari per aumentare la resilienza urbana agli stress clima-dipendenti.

Inoltre, perché gli interventi e i piani di forestazione urbana siano sostenibili nel medio-lungo termine garantendo la fornitura dei servizi ecosistemici sopra citati, è fondamentale che tengano in conto le proiezioni in termini di clima e temperature per i prossimi decenni, così da garantire che le specie selezionate, le tecniche di manutenzione e il piano di gestione proposti siano sufficientemente flessibili da adattarsi ad un contesto ambientale in continua evoluzione.

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Energia e rapporti di forza: lo scontro USA-Russia si gioca in Europa a spese dell’Europa

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Negli ultimi decenni la dipendenza energetica dell’Europa dal gas russo ha rappresentato un motivo di preoccupazione, nonché un driver di politica estera, per le diverse amministrazioni insediatesi alla Casa Bianca. Basta tornare indietro di qualche lustro con la memoria, per comprenderne le radici e rivisitare le prime mosse intraprese da Washington per arginare il potere energetico di Mosca nei confronti degli alleati europei.

La corsa alle risorse del Caspio – iniziata negli anni ’90 in concomitanza con il crollo dell’Unione Sovietica e materializzatasi con la firma del “Contratto del secolo” e la realizzazione dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan – è solo il primo tassello di una saga che ha visto le due ex-superpotenze affrontarsi, talvolta via proxy, sullo scacchiere energetico del continente europeo. Negli ultimi anni, grazie alla rivoluzione shale iniziata a metà degli anni 2008, le pressioni americane si sono intensificate fino a raggiungere il picco con la crisi scoppiata in Ucraina nel 2013/14, e le promesse dell’amministrazione Obama di nuovi ingenti volumi di gas naturale liquefatto a stelle e strisce per ridurre la dipendenza degli alleati da Mosca.

L’ombra energetica americana in Europa

Ma l’attenzione degli Stati Uniti nei confronti della dipendenza europea dal gas russo è antecedente al “boom” della rivoluzione shale e dei possibili interessi di Washington a esportare il proprio LNG verso il vecchio continente. Già nella prima metà degli anni 2000, con l’emergere delle preoccupazioni europee in materia di sicurezza degli approvvigionamenti, l’azione diplomatica di Washington si è concentrata sulla diversificazione degli approvvigionamenti di gas in Europa attraverso la realizzazione di rotte alternative rispetto alle forniture provenienti da Mosca.

La creazione, nel 2008, della figura dello U.S. Special Envoys for Eurasian Energy – affidata in prima battuta a C. Boyden Gray – e l’attivismo diplomatico del suo successore Amb. Richard Morningstar sono una chiara testimonianza dell’importanza del dossier per Washington. Un’importanza riconosciuta a livello bipartisan, va sottolineato, tanto dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush a quella democratica di Barack Obama, fino ad arrivare all’approccio odierno – seppur ambivalente nei confronti di Mosca – di Donald Trump. Un’azione, quella di Washington, che agli albori si è focalizzata soprattutto sulla promozione del Corridoio sud – network di gasdotti immaginato dalla Commissione europea per trasportare in Europa volumi di gas provenienti dal bacino del Caspio e dall’Asia Centrale – e sul supporto alla realizzazione del progetto Nabucco, miseramente fallito nel 2013 e oggi sostituito dal fratello minore (in termini di capacità di trasporto) TAP, a favore del quale gli ultimi due inquilini della Casa Bianca hanno investito un sostanziale capitale politico e diplomatico.

Gli incoraggiamenti di Donald Trump al Primo Ministro italiano Giuseppe Conte – in visita a Washington lo scorso luglio – per una rapida realizzazione della condotta trans-adriatica, sono solo l’ultima manifestazione dell’interesse americano verso l’apertura della rotta di approvvigionamento sud-orientale. Sempre guardando a sud-est dello scacchiere europeo, vanno evidenziati i tentativi di Washington di sbloccare lo stallo energetico nel Mediterraneo orientale. Con la scoperta, nel 2015, del mega-giacimento egiziano di Zohr – andato ad aggiungersi ad altre scoperte minori effettuate nei fondali israeliani e ciprioti – si è di fatto creata una nuova regione energetica ai confini (in realtà per una parte, Cipro, direttamente all’interno) del territorio europeo.

Il valore strategico del Mediterraneo orientale per gli obiettivi europei di diversificazione da Mosca non è ovviamente sfuggita a Washington che, forte anche dei legami con Israele e della presenza di major petrolifere a stelle e strisce nella regione, si è spesa in modo concreto per favorire la cooperazione tra i diversi attori coinvolti nella partita. In questo contesto, va sottolineata l’azione costante di Amos J. Hochstein, nominato da Obama U.S. Special Envoys for International Energy Affairs, con un chiaro mandato operativo nello scacchiere dell’East Med.

Scontro frontale sul piano geopolitico

Se le pressioni diplomatiche americane su questi due fronti hanno sollevato poco rumore a livello mediatico, l’opposizione di Washington nei confronti del progetto Nord Stream 2 ha ottenuto un’eco decisamente più significativa. Nel caso del Corridoio sud e del Mediterraneo orientale, infatti, le relazioni energetiche tra Mosca e i paesi europei vengono toccate soltanto in modo indiretto (e in un certo senso marginale) dall’azione americana, mentre la manifesta ostilità degli Stati Uniti verso Nord Stream 2 ha portato lo scontro con la Russia a un livello frontale. Le pressioni americane sul progetto, in particolare, si sono intensificate quando le due ex-superpotenze sono andate in rotta di collisione a causa della crisi in Ucraina e l’annessione della Crimea: il Presidente Obama in persona, il suo vice Joe Biden e lo stesso Hochstein si sono schierati apertamente contro la realizzazione del gasdotto proponendo all’Europa un rafforzamento degli interscambi energetici attraverso l’oceano Atlantico.

Con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, la retorica americana nei confronti di Mosca ha assunto sfumature ambivalenti. Ai tentativi di avvicinamento al Cremlino da parte del tycoon fanno infatti il paio le ferventi posizioni bipartisan contro la Russia all’interno del Congresso, che dopo l’esito delle elezioni di midterm e il ritorno sotto controllo democratico della Camera dei Rappresentanti (nel suo primo mese di lavori, la nuova camera bassa ha prontamente adottato una risoluzione contro la condotta russo-tedesca) potrebbe inasprire le azioni nei confronti di Mosca. La centralità del dossier Nord Stream 2 anche per l’amministrazione repubblicana era stata comunque confermata al summit NATO dello scorso luglio, durante il quale – con la sua solita retorica “colorita” – il Presidente Trump aveva sottolineato la pericolosa dipendenza della Germania dalle forniture di gas russo. Criticando la scelta di Berlino di procedere con il progetto, e mettendone in luce le implicazioni negative per alleati chiave della Casa Bianca in Europa centro-orientale quali Ucraina e Polonia, Trump ha mandato un chiaro messaggio ai partner europei. Seppur evitando una deflagrazione frontale dello scontro con Mosca, il Presidente ha messo sul tavolo una serie di incentivi all’import di LNG americano in Europa, in modo da aprire nuovi mercati per i produttori a stelle e strisce e al contempo limitare la penetrazione energetica russa nel vecchio continente.

In quest’ottica, la decisione di Berlino di realizzare un terminal di rigassificazione sulle proprie coste potrebbe rappresentare un gesto di distensione – come fatto intendere dal Ministro tedesco dell’Economia Altmeier – nei confronti degli Stati Uniti, a testimonianza della volontà di Berlino di aprire il proprio mercato all’LNG americano, pur non rinunciando al raddoppio della condotta baltica. Un esito che tutto sommato, a Trump potrebbe stare bene.

Le prospettive europee

Quando si parla del ruolo del gas russo in Europa, tuttavia, va chiarito che l’UE non ha un approccio univoco in materia. Anzi. Differenti profili energetici, e differenti sensibilità e percezioni nei confronti del potere esercitato da Mosca, determinano una molteplicità di approcci nazionali e regionali nei confronti della Russia difficilmente inquadrabili in un unico schema relazionale. Da un lato c’è, ad esempio, la Germania, target principale degli attacchi di Trump, che pur essendo fortemente dipendente dalle forniture di gas russo è al contempo il principale mercato di destinazione (e la maggiore fonte di revenues) per il Cremlino. In virtù della forte interdipendenza energetica e, di fatto economico-finanziaria, con la Russia, Berlino cerca di consolidare il proprio ruolo di attore energetico dominante in Europa e di interlocutore privilegiato di Mosca.

La realizzazione di Nord Stream 2 è un elemento strumentale per questa strategia tedesca di soft-power, in grado di offrire alla Germania una posizione di monopsonio su tutti i flussi di gas russi diretti in Europa (ad eccezione di quelli destinati a Polonia, Finlandia e baltici) che garantirebbe ai tedeschi non soltanto un massiccio capitale di natura geopolitica sul continente, ma anche (e soprattutto) una leva sul piano della competitività economico-industriale che le autorità tedesche non intendono farsi scappare. E che, a Washington, non possono di certo apprezzare. Un approccio intermedio è quello adottato dall’Italia, la cui storica partnership energetica con la Russia e la forte dipendenza nel settore gas non lasciano spazio ad atteggiamenti tolleranti nei confronti di Nord Stream 2. La realizzazione della condotta, in concomitanza con la potenziale sospensione della rotta ucraina post 2019, decreterebbe la totale dipendenza italiana dal gas in transito dalla Germania, con tutte le implicazioni commerciali e industriali del caso. Un esito ovviamente non gradito a Roma, che confida (anche) nell’azione del partner transatlantico per affossare Nord Stream 2 e i piani tedeschi di egemonia energetica in Europa, e per mantenere quantomeno in vita il transito di gas attraverso l’Ucraina.

Sull’altro fronte, invece, si trovano i paesi dell’Europa centro-orientale, capitanati dalla Polonia. Da un lato, il blocco centro-orientale teme il riemergere di un accerchiamento russo-tedesco di novecentesca memoria, seppur declinato sul piano energetico; dall’altro, vuole scongiurare le perdite finanziarie determinate dall’eventuale sospensione della rotta ucraina e della mancata riscossione delle tariffe di transito sul gas diretto verso ovest. Questi paesi, desiderosi di affrancarsi dalle importazioni di gas da Mosca – spesso unico fornitore per i loro mercati nazionali – hanno un chiaro interesse verso l’LNG americano come elemento di diversificazione e flessibilità degli approvvigionamenti. La realizzazione dei terminal di rigassificazione nel Baltico, al largo delle coste polacche, lituane e finlandesi, fanno esattamente da contraltare alla posa delle nuove condotte di Nord Stream 2 nello stesso bacino.

Ma se dal punto di vista geopolitico, la costruzione dei terminal LNG di Klaipeda e Tornio (pronti ad essere riforniti di gas americano) rappresenta un tassello importante per gli interessi di Washington nel vecchio continente poiché effettivamente in grado di ridurre la dipendenza energetica dell’Europa centro-orientale da Mosca, dal punto di vista commerciale/industriale – tanto cara all’amministrazione Trump – le implicazioni positive per gli Stati Uniti sono decisamente più limitate. Si tratta infatti di capacità e di mercati di dimensioni ridotte: poco più di 25 Mmc di consumi annui dalla Finlandia all’Ungheria, con una capacità di import via nave di poco superiore ai 10 Mmc. Niente a che vedere con il mercato da oltre 110 Mmc che Mosca attualmente detiene in Europa (Germania in primis, 54 Mmc) e che è pronta a consolidare con il raddoppio della capacità di Nord Stream (oggi pari a 55 Mmc). A questi limiti strutturali si devono aggiungere le contromosse russe, prime fra tutte la rinegoziazione al ribasso dei contratti di fornitura con i partner regionali – i prezzi in Lituania scesi del 20 percento – per provare a spiazzare i competitor americani via gasdotto, e soprattutto l’accelerazione nella realizzazione del terminal di liquefazione di Yamal, che permette anche alla Russia di rafforzare la sua presenza sul mercato globale LNG e – almeno potenzialmente – competere con gli Stati Uniti anche sullo scacchiere europeo.

Ritorno alle origini

Nonostante la retorica degli Stati Uniti sulle opportunità offerte dal loro LNG come strumento di diversificazione dalla Russia, e i tentativi (a quanto pare vani) di stoppare la realizzazione di Nord Stream 2 da parte di Washington, lo scenario strategico nello scacchiere nord-orientale appare ormai abbastanza delineato. Difficile pensare che i rapporti di forza cambino sostanzialmente, che l’asse Mosca-Berlino possa essere scalfito e che il gas americano possa avere grandi margini di penetrazione in quei mercati. In questo contesto, l’unica azione concreta da parte dell’alleato transatlantico è quella di continuare a supportare le alternative messe in piedi dai partner europei per diversificare, sia da Mosca, che da Nord Stream 2: il completamento del Corridoio sud e lo sviluppo del Mediterraneo orientale, ma anche lo sfruttamento dell’opzione Turkish Stream e il mantenimento in vita della rotta ucraina sono tutti dossier sui quali l’azione costruttiva di Washington può offrire un valore aggiunto.

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Mobilità elettrica: come funzionano auto, bici e barche e quali sono i vantaggi

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Le emissioni di CO2 stanno avendo un grave impatto sul clima e sull’ambiente. Secondo un sondaggio dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il traffico automobilistico è responsabile del 24% di tutte le emissioni di CO2 nel mondo.

I veicoli elettrici nascono per contrastare questo fenomeno; a differenza delle auto a benzina e diesel, non emettono CO2 durante la circolazione. Bisogna ammettere, però, che le auto elettriche sono davvero neutre in termini di CO2 solo se le batterie e l’elettricità per alimentarle sono prodotte utilizzando energie rinnovabili.

Si stima che le auto elettriche circolanti nel mondo, a fine 2021, fossero circa 12 milioni.

La Cina è il campione della mobilità elettrica; non è solo il principale produttore di celle per batterie, ma è anche più avanti in termini di numero di veicoli elettrici immatricolati: quasi 4 milioni. Di conseguenza, in Cina esiste anche una grande rete di ricarica: 808mila punti, di cui 330mila pubblici (38% del totale).

Il mercato dei veicoli elettrici in Italia

Nel 2021, in Italia, il numero dei veicoli elettrici su strada è raddoppiato; le Pev (Plug-in Electric Vehicle, somma di auto elettriche a batteria-Bev e veicoli elettrici ibrido plug-in-Phev) hanno registrato un balzo del 128,34%, con 136.754 immatricolazioni.

Sono i dati di Motus-E, associazione che raggruppa tutti gli stakeholders della mobilità elettrica. Nel 2021 sono state immatricolate 67.255 auto elettriche a batteria (+107% sul 2020) e 69.499 Phev(+153,75%). Le auto ricaricabili hanno raggiunto una quota del 9,35% sul mercato totale, contro il 4,33% dell’anno precedente.

I primi mesi del 2022, tuttavia, sono stati negativi per via dell’assenza degli incentivi statali, al contrario di agli altri mercati europei – Germania, Spagna, Francia, Belgio, Olanda e Regno Unito – che nello stesso periodo hanno fatto registrare un incremento di auto elettriche rispetto al 2021.

Quali sono le auto elettriche più vendute in Italia

Le BEV più vendute in Italia, fino ad aprile 2022, vedono al primo posto la Fiat 500E (2.049 unità) seguita dalla Dacia Spring (1.606); al terzo posto la Smart Fortwo (1.246); al quarto la Tesla Model Y (937) e al quinto la Renault Zoe (647 unità).

Per quanto riguarda le ibride plug-in, al primo posto la Jeep Compass (4.172 unità), seguono la Jeep Renegade (2.319), la BMW X1 (1.340), la Mercedes GLE (1.032) e la Peugeot 3008 (947).

Cosa si intende per mobilità elettrica?

Secondo la definizione di Gartner, la mobilità elettrica (o e-mobility) “rappresenta il concetto di utilizzo di tecnologie di propulsione elettrica, informazioni a bordo veicolo e tecnologie di comunicazione e infrastrutture connesse per consentire la propulsione elettrica di veicoli e flotte”. Le cosiddette “tecnologie powertrain” includono veicoli completamente elettrici e ibridi plug-in, nonché veicoli alimentati con celle di combustibile a idrogeno (che genera elettricità).

Le auto elettriche offrono prestazioni elevate e hanno un’efficienza molto più alta rispetto ai veicoli con motore a combustione: il rapporto tra l’energia immessa e quella utilizzata è di circa il 90% per i propulsori elettrici, contro il 35% dei motori a benzina e il 45% dei motori diesel. In questi casi il resto si perde sotto forma di calore. Poiché è disponibile immediatamente una coppia elevata, le auto elettriche possono accelerare più velocemente partendo da 0. Possono anche ottenere energia con l’aiuto dell’inverter, ad esempio quando frenano, e fornirla alla batteria. Le auto elettriche, inoltre, godono di speciali diritti in alcuni paesi e città (parcheggi, tassa di circolazione, zone a traffico limitato).

Auto elettriche, come funzionano

In un’auto elettrica l’energia è immagazzinata in una batteria ricaricabile. Un dispositivo denominato inverter converte poi la corrente continua della batteria in corrente alternata per far funzionare il motore elettrico. Più efficiente è questa conversione, più a lungo un’auto può viaggiare con una carica completa della batteria. Infine, il motore elettrico converte l’energia elettrica in energia meccanica, azionando le ruote.

Altro componente principale di un’auto elettrica è il convertitore DC-DC, che converte in modo efficiente l’alta tensione della batteria (100-400 volt o più) in una tensione molto più bassa (12 o 48 volt) per i componenti elettronici.

Come si ricarica un’auto elettrica?

Un’auto elettrica deve essere ricaricata utilizzando un’apposita colonnina, pubblica o privata. Secondo uno studio dell’Associazione federale tedesca per l’eMobility, l’80% dei proprietari di auto elettriche le ricarica dalla presa domestica. Il processo di ricarica richiede almeno 8 ore, ma può variare a seconda del veicolo e della batteria. Non tutte le colonnine di ricarica sono progettate per gestire grandi quantità di elettricità per un lungo periodo di tempo. Con le prese domestiche la ricarica può essere quasi quattro volte più veloce. Nelle stazioni di ricarica rapida a corrente continua (DC), tuttavia, una ricarica completa può richiedere solo un’ora (a differenza di quelle in corrente alternata, che deve essere prima convertita in continua dall’inverter dell’auto). Si intravvedono già tecnologie che ridurranno il tempo necessario per ricaricare un’auto a batteria a 20 minuti o meno. Con la nuova Fiat 500E sono sufficienti 5 minuti di ricarica per usare l’auto un giorno intero in città (50 km).

Quanto durano le batterie

La tecnologia per la mobilità elettrica è ancora molto giovane rispetto a quella per le auto con motore a combustione, per cui non ci sono ancora studi rappresentativi a lungo termine. A differenza di un’auto con motore a combustione, un’auto elettrica ha il vantaggio di avere meno componenti soggetti a usura. Tuttavia, l’impianto elettrico e il telaio devono essere sottoposti a manutenzione regolare. Un’attenzione particolare è rivolta alla parte più costosa e fondamentale dell’auto elettrica: la batteria. I fornitori affermano che le batterie attuali possono durare fra i 100.000 e i 160.000 chilometri. Ciò corrisponde, in media, a una durata di otto-dieci anni e a circa 500-1.000 cicli di ricarica. In molti casi, comunque, una batteria esausta può essere riparata o ricondizionata.

Auto ibride

Un veicolo ibrido trae l’energia per muoversi da due propulsori: un motore elettrico e uno a combustione interna – di solito a benzina, il diesel è meno comune. L’obiettivo della trazione ibrida è quello di combinare i vantaggi di entrambi i sistemi di azionamento e bilanciare i loro svantaggi.

Attualmente, il principale vantaggio di un’auto con motore a benzina o diesel rispetto a un sistema di azionamento elettrico è l’autonomia. Ciò è dovuto all’unità di accumulo di energia, la batteria; man mano che le batterie diventeranno più efficienti, l’autonomia aumenterà. Un altro vantaggio dei veicoli con motori a combustione interna è che sono ancora meno costosi da acquistare rispetto alle auto elettriche. D’altro canto, consumano carburante, causano emissioni e sono rumorosi.

Con i motori elettrici, l’accelerazione è più veloce e dinamica. Tuttavia, a causa della batteria, le auto elettriche hanno un’autonomia ridotta rispetto alle auto con motore endotermico.

La sintesi di entrambi i sistemi di azionamento consente di ridurre il consumo di carburante e le emissioni e anche il costo di acquisto, offrendo una guidabilità dinamica e una lunga autonomia. Il motore elettrico supporta o sostituisce il motore a combustione interna, soprattutto quando è inefficiente, e, in determinate situazioni, aumenta le prestazioni.

I veicoli ibridi generano da sé l’energia elettrica per caricare la batteria, mentre il veicolo è in movimento. In un’auto ibrida, infatti, il motore elettrico funge anche da generatore di corrente. Durante la frenata o l’inerzia, in altre parole, quando il veicolo si muove senza utilizzare energia, converte l’energia cinetica in elettricità (recupero). Solo i veicoli ibridi plug-in possono anche essere ricaricati da una stazione di ricarica.

La maggior parte dei veicoli ibridi passa automaticamente dall’uno all’altro dei due sistemi di propulsione o consente loro di funzionare insieme, a seconda della situazione di guida. In molti veicoli ibridi, il motore elettrico può anche muovere il veicolo da solo, senza consumare carburante. Poiché un motore elettrico ha un alto grado di efficienza anche a basse velocità è particolarmente adatto per l’avviamento e per la guida in città. Il motore endotermico è necessario, invece, per viaggiare sulle autostrade, ossia per lunghe percorrenze e a velocità elevata.

Monopattini e bici elettriche

Anche monopattini e biciclette contribuiscono a formare il quadro della mobilità elettrica. In Italia sono stati previsti incentivi per il loro acquisto dal bonus mobilità: un contributo massimo di 750 euro (sotto forma di credito d’imposta) per chi ha acquistato il mezzo nel 2020.

Quanto alle norme del codice, il limite di velocità è di 20 km/h, 6 km/h nelle aree pedonali; è vietata la sosta sui marciapiedi. Dal 1° luglio 2022 tutti i modelli venduti devono essere muniti di frecce e stop; quelli già in circolazione dovranno essere adeguati entro il 1° gennaio 2024.

Imbarcazioni elettriche (H3)

Secondo il report IDTechEx “Electric Boats and Ships 2017-2027”, il mercato della motorizzazione elettrica ibrida e nautica è in decisa crescita. I produttori di barche e navi elettriche sono un centinaio, il mercato per uso civile è destinato ad aumentare in fretta, fino a raggiungere, in tutto il mondo, i 20 miliardi di dollari nel 2027. Produttori dell’automotive come General Motors e Volvo Penta hanno annunciato di aver avviato piani per la produzione di motori marini elettrici. In Francia esiste già un ferry boat elettrico, equipaggiato con un motore Volvo Penta alimentato da una batteria da 500 kWh di capacità, con un’autonomia di 25 km e tempi di ricarica veloce inferiori ai 20 minuti. Quello della motorizzazione elettrica per la nautica (e-Boat) e degli e-dock, le colonnine di ricarica negli approdi e nei porti turistici, sembra davvero un mercato promettente.

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Frenare il caro bollette? Esistono le comunità energetiche

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Il crescente costo dell’energia sta mettendo in difficoltà famiglie e imprese, anche quelle più grandi e solide. Non esiste una soluzione nel breve termine per contrastare il caro bollette, ma un mix di soluzioni a medio-lungo termine, alcune delle quali davvero innovative, come le comunità energetiche rinnovabili.

C’è sempre più bisogno di energia pulita, accessibile a tutti a costi ragionevoli, condivisa e creata in modo orizzontale. Dal basso.

Le comunità energetiche rinnovabili rispondono proprio a questo bisogno. Si tratta di gruppi locali di cittadini, enti pubblici o privati, imprese che si uniscono per costruire sistemi e impianti da fonti rinnovabili che mettano in condivisione l’energia autoprodotta. E soddisfare così il proprio fabbisogno. Una produzione che si definisce “di prossimità”. Fatta in casa, o al massimo nel quartiere.

Uno scenario innovativo, quasi rivoluzionario dal punto di vista energetico perché stimola la cooperazione in un momento storico in cui la produzione centralizzata e gestita da poche, grandi aziende che perlopiù si affidano ancora ai combustibili fossili (gas, petrolio e carbone) non è più sostenibile. Da nessun punto di vista: ambientale, economico e sociale.

Come funziona una comunità energetica rinnovabile

Un sistema che, oltre a decentralizzare la produzione di elettricità, cambia completamente anche la gestione della rete che la distribuisce. Rilanciando le smart grid. Reti intelligenti dotate di sensori e di sistemi di monitoraggio e comunicazione che fanno interagire direttamente gli utenti con il gestore della rete. Monitorando produzioni e consumi in tempo reale (e non a cadenze mensili come succedeva per i vecchi contatori). Così da consentire che il flusso di energia sia efficiente e multidirezionale. Che faccia fronte a eccessi di domanda prevenendo possibili blackout o evitando sprechi quando la domanda di energia diminuisce. Le reti elettriche costruite in passato, invece, vedono l’energia muoversi in una direzione sola: dalla mega-centrale alle utenze domestiche o commerciali. E per questo è difficile avere il polso dei consumi reali.

Un connubio, quello tra comunità energetiche e smart grid, che rende la produzione di energia rinnovabile sostenibile anche dal punto di vista dell’affidabilità. L’unico vero tema su cui eolico e fotovoltaico vengono messi in discussione, infatti, è l’intermittenza nella generazione elettrica.

Le norme europee e italiane che regolano le comunità energetiche

Questa “rivoluzione” è disciplinata a livello europeo dalla direttiva sull’energia rinnovabile (Renewable Energy Directive, RED II, 2018/2001/Ue), adottata nel 2009 e aggiornata nel 2018. Che definisce il quadro legale per lo sviluppo delle fonti di energia pulite in ogni settore economico dell’Unione europea.

Una delle comunità energetiche più note è quella di Jühnde in Germania. Si chiama Bioenergy Village ed è un progetto nato nel 2004 grazie alla collaborazione tra la cooperativa locale e l’università di Göttingen. È costituita da una caldaia a cippato da 550 kilowatt (kW) che viene utilizzata in inverno per fornire il riscaldamento. Inoltre, è dotata di un sistema di cogenerazione a biogas da 700 kW. In questo modo gli abitanti della comunità sono in grado di generare fino al 70% del calore necessario. E fino al doppio dell’elettricità di cui hanno bisogno. Ovviamente il surplus viene ceduto alla rete. 

In Italia questa direttiva è stata recepita nel 2020 e ha dato vita allo sviluppo di numerose comunità. Come la Geco, Green energy community, la prima dell’Emilia-Romagna. Partita nel 2019, si trova a Bologna, nei quartieri Pilastro e Roveri. Mette in condivisione l’energia per 7.500 abitanti, 1.400 dei quali abitano in alloggi sociali, e per la zona commerciale di 200mila metri quadrati che ospita il parco (Fico) e il centro agroalimentari della città (il Caab). E un’area industriale di oltre un milione di metri quadrati. Nello specifico è stato installato un sistema fotovoltaico da 200 kW, un sistema di accumulo e un impianto a biogas per il trattamento dei rifiuti organici con accumulo.

Vantaggi economici e ambientali

Tutto questo ovviamente crea benefici in bolletta. Perché si riducono i costi, in particolare quelli variabili come l’energia consumata e gli oneri di rete con imposte (come accise e iva) collegate. Produrre energia con un impianto fotovoltaico può diventare persino remunerativo alla luce delle agevolazioni fiscali e degli incentivi statali che possono subentrare. Realizzare un impianto fotovoltaico sul tetto di un edificio, infatti, è considerato un intervento di ristrutturazione edilizia e per questo consente l’accesso alle agevolazioni fiscali.

E poi ci sono i benefici ambientali. È quasi automatica la riduzione delle emissioni di polveri sottili, che causano inquinamento dell’aria – specie nei periodi invernali quando è alto il consumo di metano per il riscaldamento – e di gas a effetto serra, quali il biossido di carbonio, che sono responsabili del riscaldamento globale e della crisi climatica.

Questa è la direzione giusta

Il futuro, dunque, passa da qui. Da comunità che puntano su una forma di autarchia positiva per risolvere gran parte dei problemi che la nostra e le future generazioni devono affrontare per costruire un sistema sostenibile e in equilibrio con le risorse rinnovabili che ci mette a disposizione, ogni anno, questo Pianeta. L’unico che abbiamo.

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L’Italia ha bisogno di un nuovo Enrico Mattei, che garantì l’indipendenza energetica ad un paese senza energia

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Garantire l’indipendenza energetica ad un paese privo di fonti di energia. Questa è stata la formidabile sfida lanciata da Enrico Mattei nel secondo dopoguerra. Prima dalla poltrona dell’Agip, dove fu nominato commissario liquidatore, e poi da quella di presidente dell’ENI, Mattei rivoluzionò i rapporti di forza internazionali del mercato dell’energia mettendo in crisi il dominio delle “Sette Sorelle“, le maggiori compagnie petrolifere del mondo, creando le condizioni per il “miracolo economico italiano“.

Una sfida vinta che garantì all’Italia anni di prosperità (mai più ritornati), ma che gli costò (probabilmente) la vita. Infatti, l’aereo con a bordo il presidente dell’ENI precipitò misteriosamente la notte del 27 ottobre 1962 in circostanze mai del tutto chiarite delle indagini.

Se oggi l’Italia è ancora tra i dieci paesi più industrializzati del mondo, lo deve anche e soprattutto al coraggio e alla visione di Enrico Mattei, che per primo intuì il valore strategico del gas (fece trivellare mezza Italia alla ricerca di giacimenti) per un paese sostanzialmente agricolo che voleva trasformarsi in una potenza industriale e che, per scalfire il cartello petrolifero delle Sette Sorelle, inventò la famosa “Formula Mattei“: condividere il 50% dei profitti dei giacimenti con i paesi produttori finanziandone in tal modo lo sviluppo. Un approccio diametralmente opposto a quelle delle major petrolifere, che lasciavano solo le briciole ai produttori in forza di rapporti coloniali di lunga data.

Oggi l’Italia avrebbe bisogno di un personaggio dello spessore di Enrico Mattei per uscire dalla spaventosa crisi energetica in corso ed affrontare, in modo strutturale, quei ritardi nelle infrastrutture che ci hanno reso sempre dipendenti dal petrolio e dal gas di altri paesi.

La sfida alle Sette Sorelle

Fino alla Prima guerra mondiale, anche grazie al fatto che l’area di maggior interesse petrolifero era quasi tutta sottoposta al dominio britannico, il monopolio del petrolio medio-orientale era in gran parte in mano ad aziende britanniche, tra cui l’Anglo-Persian (successivamente Anglo-Iranian, poi ancora BP) che vantava tra le prime concessioni per l’estrazione in Medio Oriente nel 1909. Fino alla Grande guerra un’altra importante quota di mercato petrolifero era detenuta da compagnie di proprietà olandese e tedesca, quest’ultime sostituite con proprietari francesi al termine del conflitto.

Con la fine del conflitto ed il conseguente smembramento dell’Impero Ottomano, anche le compagnie petrolifere americane, fino ad allora rimaste principalmente sul suolo nazionale, ottengono l’ingresso nella Turkish Petroleum. Fu così che nel 1928 nacque tra le compagnie in gioco una tregua chiamata “Linea Rossa”: invece di operare la concorrenza sfrenata attuata fino ad allora, le compagnie avrebbero operato, da quel momento in poi, attraverso il consorzio comune.

Dopo la Seconda guerra mondiale fu creato un nuovo consorzio l’Arabian American Oil Company (Aramco) composto, questa volta, da sole aziende petrolifere statunitensi, escludendo, dunque, quelle francesi e britanniche. Ora, considerando il mercato petrolifero nelle sue caratteristiche, bisogna sottolineare che la tendenza alla concorrenza monopolistica è data dalle difficoltà che le compagnie, che intendono fare ingresso nel mercato, trovano sul loro cammino: ad esempio la necessità di un grande capitale iniziale, l’alta tecnologia richiesta e la distanza temporale tra investimenti e ricavi.

In Medio Oriente, nel 1953, solo nove compagnie occidentali ottennero concessioni petrolifere nell’area, mentre già nel 1962 sedici ne ottennero in Iran, dieci in Arabia Saudita, dodici in Israele ed altre in Yemen, Egitto e Siria. Tuttavia, nonostante l’ingresso di molte compagnie nel mercato, il potere monopolistico delle “Sette sorelle” sembrava rimanere invariato, se non addirittura accresciuto, passando da una quota di produzione mondiale pari al 54,8% nel 1951, al 63% del 1964.

Inoltre, attraverso la Commissione Federale per il Commercio degli Stati Uniti veniva smascherato il cartello monopolistico, volto a mantenere artificiosamente alti i prezzi ed eliminare la concorrenza di altre compagnie petrolifere, sfruttando un sovraprofitto di monopolio al netto dei costi di produzione e delle royalties dovute per le concessioni.

In questo modo, con la convinzione che le compagnie petrolifere sfruttassero i Paesi produttori di petrolio per la ricchezza di pochi occidentali, la fiaccola del malcontento iniziò a serpeggiare in tutto il Medio Oriente attraverso il nazionalismo arabo, minando gli affari delle “Sette sorelle”.

La sfida alle “Sette sorelle”: tra Nasser e Mossadeq

I Paesi medio-orientali, per la maggior parte rentier states, sulla scia dell’entusiasmo del processo di decolonizzazione, iniziano a manifestare l’idea di una nuova politica indipendente dai Paesi Occidentali sotto forma di estremismo islamico, partiti comunisti emergenti e fazioni nazionaliste.

Le compagnie petrolifere, simbolo dello sfruttamento occidentale, furono i primi bersagli di questi movimenti sociali che avevano come principale obiettivo la riappropriazione collettiva di quelle risorse che fino ad allora avevano arricchito una cerchia ristretta accondiscendente agli interessi stranieri.

A causa delle mire espansionistiche dell’URSS verso i Paesi del Golfo, alcuni ammonimenti da parte dell’amministrazione americana furono diretti alle società petrolifere operanti in Iran, orientati a mostrare accondiscendenza verso le richieste nazionaliste. Infatti, recentemente, il partito nazionalista si era avvicinato a quello comunista “Tudeh”, alimentando il timore per un’influenza sovietica nelle terre dell’oro nero.

Nel 1951, con il prevalere del Fronte Nazionale, fu nominato Primo Ministro Mossadeq, il quale nazionalizzò l’Anglo-Iranian Oil Company e la rese ente pubblico. In questo modo, i magnati anglo-americani del petrolio si trovarono spaesati di fronte ad una nuova sconosciuta lotta che non aveva a che fare con il concorrente di turno, ma con un movimento di massa dal sentimento antioccidentale. Tuttavia la risposta del “Blocco Ovest” fu immediata e compatta, fu subito imposto un embargo al petrolio iraniano, in modo che la nazionalizzazione non creasse un “effetto domino” in tutto il Medio Oriente.

Il fallimento del progetto portò l’Iran sull’orlo del collasso poiché l’offerta di petrolio (peraltro ottenuta ad alti costi per la scarsa tecnologia nei processi di estrazione e raffinazione) non poteva essere assorbita né dalla domanda interna, a causa della mancanza di industrie e dell’arretratezza in ogni sorta di sviluppo economico, né dalla domanda internazionale a causa del blocco operato dalle compagnie.

Quest’esperienza portò i leader nazionalisti a comprendere l’inefficacia di gesti simbolici e forti di fronte alla potenza dei “signori del petrolio” e la necessità di un dialogo con chi fosse disposto ad investire nel Medio Oriente con progetti di sviluppo graduali.

Il messaggio di questo nuovo corso viene colto in primo luogo da figure come l’ufficiale del colpo di Stato repubblicano egiziano Nasser ed il Presidente dell’Eni Mattei, i quali trovarono spesso un’intesa nel destino comune di Italia ed Egitto, Paesi, in modo differente, oppressi dall’ingerenza economica e politica anglo-americana.

Italo Pietra disse in proposito di questi ultimi: “Si capisce subito che che l’uomo della Rivoluzione araba e l’uomo della Resistenza simpatizzano, accomunati dalla ruggine contro il colonialismo” e ancora, Maugeri, riportando le parole di Italo Pietra aggiunge: “I due sodalizzarono subito nella loro comune veste di ribelli”. L’inizio della collaborazione italo-egiziana si ebbe nel 1954, quando Mattei progettò di installare nuove raffinerie e di acquisire quote delle società già esistenti sul territorio, senza dissipare risorse in inutili ricerche in terre che sembravano essere estremamente povere di petrolio. Inoltre, cercando un accordo particolarmente favorevole a causa dei bassi prezzi, si mostrava disposto a realizzare una rete di distribuzione di Gpl.

Acquisito attraverso l’Agip Mineraria il 20% della International Egyptian Oil Company e ottenuti risultati fruttuosi nei giacimenti di Feiran e di Bala’im, la cooperazione proseguì con l’inserimento della Snam, della Nuovo pignone e dell’Eni per rifornire gli impianti di tecnologie e procurare metanodotti. Inoltre, attraverso una società italiana creata ad hoc, la Cisape, una nuova raffineria fu allestita al fine di soddisfare la richiesta del Paese di idrocarburi e si diede avvio alla costruzione della rete distributiva de Il Cairo.

Il risvolto dell’incontro di Mattei e Nasser fu l’avvio di importanti progetti nel settore energetico i cui risultati furono soprattutto di ordine politico. Da una parte Nasser riuscì a trovare una via per affrancarsi dal dominio dei petrolieri anglo-americani, procedendo verso lo sviluppo del Paese che governava; dall’altra, Mattei attraverso le operazioni in Egitto tentò di ottemperare all’esigenza di calmare l’opinione pubblica per la mancanza di esiti consistenti sul suolo nazionale e per lo “schiaffo” recentemente ricevuto dalle compagnie americane per l’interruzione delle trattative tra l’Eni e Mossadeq.

La “formula Mattei”

In un’epoca in cui il processo di decolonizzazione promosso dall’ONU e il perdurare dello sfruttamento delle risorse delle ex-colonie andavano vicendevolmente contraddicendosi, quella che venne definita “formula Eni” o “formula Mattei” può essere interpretata come una piccola rivoluzione nel settore petrolifero.

Il nuovo corso messo in atto dal Presidente dell’Eni consistette principalmente nell’accogliere al rango di pari interlocutori i Paesi di recente indipendenza, sulla via di uno sviluppo che stentava a mettersi in moto nonostante la grande ricchezza di risorse e l’ingente esportazione delle stesse.

Mattei aveva, infatti, compreso come il perdurare di un insediamento estrattivo di tipo coloniale da parte delle compagnie petrolifere occidentali in Africa e in Medio Oriente fosse il seme del malcontento nei Paesi arabi e una delle concause del nazionalismo arabo. La diffusione di questo nuovo pensiero politico condusse spesso (come dimostrano le nazionalizzazioni di Mossadeq e la crisi di Suez) a gravi fratture tra i governi del blocco dei non allineati e le compagnie straniere, con conseguenti perdite di profitto.

Come sottolinea Tonini, Mattei basò marginalmente le sue posizioni su motivi di carattere economico per abbracciare un progetto politico di più ampio respiro: fondato sulla reciproca fiducia, su un piano di comune sviluppo, di ricostruzione e sull’idea di indipendenza rispetto alle potenze atlantiche, dalle quali sia l’Italia sia i Paesi del Terzo mondo erano, in vario modo, influenzati.

Ed è in questo contesto ed alla luce di questo pensiero che si inserisce la “formula Mattei”: abbattendo la regola del fifty-fifty nel 1957 fu creata dall’Agip e dal governo iraniano la Société Irano-Italienne des Pétroles, distribuita per il 51% agli italiani e per il restante 49% all’Iran, per il quale era, inoltre, previsto il 75% degli utili.

In Egitto, invece, venne creata la Compagnie Orientale des Pétroles d’Egypte (Cope), il cui 51% era detenuto dalla International Egyptian Oil Company (controllata da Eni e dalla belga Petrofina fino alla crisi del Congo del 1960 e poi quasi interamente solo dall’Eni) e il restante 49% da enti pubblici egiziani (l’1% di disparità venne ceduto in seguito). Degno di nota era il grande impiego di manodopera egiziana nel settore impiegatizio, amministrativo ed operaio, che, però, andava assottigliandosi man mano che si arrivava ai quadri tecnici, che erano perlopiù italiani. Fu nominato Presidente di questa nuova società l’ingegner Mahmoud Younes, già direttore generale dell’Autorità di Gestione del canale di Suez nonché interlocutore privilegiato di Mattei.

Tuttavia, non sempre gli investimenti diedero luogo a risultati fruttuosi: nonostante la produzione di greggio della Cope crescesse di anno in anno, la quantità dello stesso esportato nelle raffinerie Eni in Italia sembrò decrescere dal milione di tonnellate esportate nel 1959 alle circa 200.000 tonnellate del 1960.

Dopo un lungo ed importante incontro diplomatico tra Nasser e Mattei avvenuto nel novembre del 1961, la strada per nuove cooperazioni sembrarono spianate: non solo nel settore petrolifero (con annesse nuove concessioni), petrolchimico, industriale, ma anche nella progettazione di infrastrutture e lavori pubblici sul suolo egiziano. Questo progetto condusse alla fornitura di beni e servizi all’Egitto per trenta miliardi di lire italiane, il cui tasso di interesse, del 4,5% annuo, sarebbe stato ripagato in valuta o in greggio. Nel 1962, infine, l’esportazione di greggio egiziano in Italia raggiungeva il 28% del totale delle lavorazioni Eni, con una quantità di 1.800.000 tonnellate, interamente raffinato negli impianti di Gela.

Mattei è morto il 27 ottobre del 1962 in un incidente aereo nei pressi di Bascapè. Non ha potuto continuare lo straordinario lavoro che aveva iniziato e nessuno in Italia è riuscito a prenderne le redini. E’ come se la storia energetica d’Italia si fosse fermata in quel preciso istante in cui è caduto l’aereo di Mattei.

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