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Batterie, fonti rinnovabili e sistemi di accumulo. A che punto siamo con la transizione energetica?

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A che punto siamo con la transizione energetica, e il passaggio da un sistema ad alta intensità di carbonio a uno sostanzialmente decarbonizzato? La risposta non è facile, e nonostante i progressi ottenuti grazie alla penetrazione delle rinnovabili a livello globale e gli importanti obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, i punti di domanda rimangono ancora numerosi.

Tra i diversi fattori che permetteranno un completo ed efficace processo di decarbonizzazione, batterie e sistemi di accumulo (elettrochimico) giocano un ruolo di primo piano: essi infatti possono garantire lo stoccaggio di energia elettrica prodotta in eccesso, permettendo di far fronte all’intermittenza di fonti rinnovabili come eolico e solare. Il settore della generazione, così come quelli industriale, domestico e dei trasporti potrebbero beneficiare in modo significativo una volta che la tecnologia sarà matura e competitiva dal punto di vista economico. Fino a che ciò non accadrà, il ruolo dei combustibili fossili – meglio se a basse emissioni di CO2 – rimarrà centrale per lo sviluppo del pianeta terra e per il benessere dei suoi abitanti.

I molteplici usi di una nuova tecnologia

Il futuro è nello stoccaggio. Se vogliamo realmente raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, ridurre di due gradi centigradi, al massimo, l’aumento della temperatura globale e limitare il più possibile gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici su esseri umani e natura, non possiamo fare a meno di compiere un enorme passo avanti nello sviluppo tecnologico di batterie e accumuli.

Non si tratta ovviamente dell’unica tecnologia necessaria per garantire un efficace e sostenibile processo di decarbonizzazione globale,  digitalizzazione e big data, carbon capture & storage, biocarburanti, smart metering contribuiranno ad accompagnare la transizione del sistema, ma certamente l’utilizzo degli stoccaggi elettrici a diversi livelli dell’economia e della vita dei cittadini rendono le batterie un fattore di fondamentale importanza.  Le batterie, infatti, si apprestano a giocare un ruolo chiave nell’integrazione delle rinnovabili nella rete elettrica, neutralizzandone l’intermittenza che ad oggi ne limita in modo sostanziale l’utilizzo.

Da un lato lo sviluppo di sistemi di accumulo efficienti, economici e ‘smart’ potrà finalmente consentire di immagazzinare l’elettricità in eccesso prodotta durante le ore di massima resa da capacità solare ed eolica, o di stoccare quella generata da centrali termoelettriche, per poi reimmetterla in rete nei i momenti di picco della domanda garantendo un bilanciamento del sistema elettrico. Questo è, ad esempio, il caso del sistema di accumulo Powerpack di Tesla, il primo dei quali è stato collegato ad una centrale eolica localizzata nel sud dell’Australia, in grado di stoccare e rilasciare energia per 30mila abitazioni per un’ora. Sistemi simili sono attualmente operativi anche a Portorico, negli Stati Uniti e in Belgio. Al contempo, unità di accumulo di grandi dimensioni possono essere utilizzate da complessi industriali per stoccare e riutilizzare l’energia elettrica generata in modo indipendente – potenzialmente da fonti rinnovabili, assicurando una gestione ottimale dei carichi. Le mega-batterie permetterebbero infatti lo spostamento dei consumi da una fascia oraria all’altra in modo da ottimizzazione i costi dell’energia e rendere l’attività industriale più efficiente (e sostenibile).

La diffusione su larga scala di batterie e sistemi di accumulo distribuiti potrà avere un impatto significativo anche sulle abitudini di famiglie e individui, spianando la strada a pratiche quali l’autoconsumo domestico da rinnovabili. Va infine considerato il ruolo chiave che le batterie giocano nel settore della mobilità, nel quale i veicoli elettrici rappresentano oggi ancora un ambito di nicchia: grazie al miglioramento delle performance dei sistemi di accumulo – dimensioni, costi, velocità di ricarica e durata sono attualmente non sono ancora ottimali – l’auto elettrica potrà infatti registrare una crescita esponenziale sul mercato soprattutto per l’utilizzo urbano e di medio raggio. Inoltre, nell’ottica di reti elettriche sempre più intelligenti e responsive, le batterie installate sui veicoli elettrici potranno utilizzate durante le fasi di ricarica per gestire flussi di elettricità unidirezionali e bidirezionali e bilanciare in modo distribuito la rete (vehicle-to-grid, V2G).

Un settore strategico che accelererà il processo di transizione

Sul piano globale, la diffusione massiccia di batterie e sistemi di accumulo – associata al progressivo abbattimento dei costi di eolico e solare – potrà garantire una rapida transizione verso un settore energetico (e non solo) fortemente decarbonizzato e, al contempo, favorire il raggiungimento di uno dei principali obiettivi dell’Agenda 2030 della Nazioni Unite: l’accesso all’energia a quel miliardo e mezzo di persone che ancora oggi vive – principalmente in Africa – disconnesso dalla rete e privo di qualsiasi servizio elettrico. Un mercato immenso, nel quale il possesso di tecnologie abilitanti d’avanguardia rappresenta un fattore strategico sia dal punto di vista economico che da quello geopolitico. Secondo le stime dell’IRENA, infatti, la capacità installata dei sistemi di accumulo per uso stazionario crescerà di diciassette volte di qui al 2030 per far fronte alla crescente generazione da rinnovabili. A questa va aggiunta la domanda di batterie per veicoli elettrici, un mercato da circa 700 GWh all’anno nel 2030, per un totale di quasi 250 miliardi di dollari.

Ad oggi, gran parte di questa capacità tecnologica e industriale è localizzata in Asia: l’attuale leader mondiale, la giapponese Panasonic, è incalzata dai giganti cinesi BYD e CATL e dalle coreane LG e Samsung, che insieme controllano quasi il 90 percento del mercato globale. Nel giro di pochi anni, anche trainata da un mercato interno dei veicoli elettrici senza uguali, la produzione cinese è destinata ad aumentare in modo significativo, e raggiungere una quota del 70 percento della produzione mondiale: basti pensare che nel solo 2017 – anno record per le vendite globali di veicoli elettrici con un milione di nuove immatricolazioni – la flotta cinese è cresciuta di quasi 600mila unità (quasi 100mila in più rispetto alle vendite dell’anno precedente), un dato che risulta ancor più straordinario se paragonato ai 200mila veicoli venduti rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa. E proprio sull’asse transatlantico si rischia di rimanere irreparabilmente indietro in questo settore strategico. La californiana Tesla, in realtà, sta cercando di recuperare il gap tecnologico e industriale con i competitor asiatici grazie ad una serie di massicci investimenti sia nei mega accumuli che nelle batterie al litio per autoveicoli.

Elon Musk ha infatti recentemente annunciato la partnership con Pacific Gas & Electric Company per la realizzazione di un mega sito di stoccaggio in California da più di 1.1 GWh (quasi dieci volte l’attuale sistema attivo in Australia), mentre nel segmento delle batterie sta lavorando per abbattere sensibilmente l’uso (e i costi derivati da esso) di cobalto, una delle componenti più costose dei sistemi di accumulo per veicoli. Le nuove Tesla Model S, ad esempio, sono passate dall’utilizzo di 11 chilogrammi per unità a meno di 5 chilogrammi nel giro di pochi mesi: qualità e innovazione sono l’unica soluzione per l’azienda di Palo Alto – che sta pianificando la realizzazione di due nuove Gigafactory in Cina ed Europa (probabilmente in Germania) – per rimanere competitiva sul mercato.

L’Europa ancora al palo in tema di batterie

E quella di Tesla (insieme a grandi compagnie asiatiche come CATL e BYD) rischia di rimanere l’unica grande presenza industriale nel vecchio continente in questo settore. Nonostante lo scorso anno la Commissione abbia lanciato un’iniziativa per creare una “Airbus” delle batterie e non perdere il treno di una rivoluzione in grado di trasformare i settori dell’elettricità e dei trasporti, in Europa le cose stentano a decollare. Sebbene le previsioni di mercato siano sostanzialmente rosee, con un terzo delle vendite globali di batterie al litio da oggi al 2025 – circa 200 GWh sui 600 totali – previste in Europa, la capacità del tessuto industriale europeo, ad oggi privo di aziende di portata globale, di far fronte a questa grande opportunità di mercato appare quantomai discutibile.

E a poco rischiano di servire i tentativi di Bruxelles per spingere l’innovazione nel settore: per il biennio 2018-19 l’UE finanzierà 110 milioni di euro per attività di ricerca e sviluppo, davvero troppo poco se paragonati ai 3 miliardi di investimenti al 2020 previsti dalla cinese CATL per quadruplicare la propria produzione di batterie. Nonostante le straordinarie prospettive per il mercato globale delle batterie e dei mega accumuli, alcuni elementi di incertezza limitano ancora la completa espansione del settore.

Il primo, e principale, è legato ai costi e alle prestazioni delle tecnologie disponibili. Sebbene il prezzo delle batterie al litio sia crollato da mille a meno di 300 dollari per KWh ora nel giro di pochi anni, la competitività in termini di costo dei veicoli elettrici nei confronti delle automobili a combustione interna – al netto di incentivi governativi e di altre forme di sostegno – rimane ancora tutta da dimostrare. Oltre ai costi delle batterie, che per rendere i veicoli elettrici competitivi si stima dovranno raggiungere i 100 dollari per KWh, un’altra componente di costo estremamente rilevante è quella dell’infrastruttura da sviluppare per garantire l’accesso a punti di ricarica a un numero crescente di unità presenti nel sistema stradale. Vanno inoltre considerati elementi quali le dimensioni delle batterie stesse, la loro durata ed efficienza, e i tempi di ricarica, che ad oggi contribuiscono a limitare la fruibilità dei veicoli elettrici – soprattutto per tragitti di media e lunga durata – ma che grazie al progresso tecnologico potranno favorire una rapida penetrazione dell’auto elettrica.

Le tante difficoltà per l’approvvigionamento del litio

Un altro elemento, attualmente meno sotto i riflettori, ma da tenere certamente in considerazione è quello dell’accesso alle risorse naturali necessarie per sviluppare e mantenere il futuro mercato delle batterie. Le riserve di litio, in questo contesto di rapida transizione energetica, giocheranno un ruolo centrale: a richiedere attenzione non sono soltanto le implicazioni politiche di una crescente dipendenza per garantire il funzionamento del settore, ma anche quelle di natura prettamente economica. A livello globale, le riserve di litio sono concentrate in un numero limitato di paesi, con il Cile che controlla quasi il 50 percento delle risorse, seguito da Cina, Australia e Argentina rispettivamente con 20 percento, 17 percento e 12 percento. Concentrazione che determina forte volatilità in termini di prezzo, come accaduto nel corso del 2017 quando ad una limitazione della produzione australiana ha fatto fronte una crescita dei prezzi in Cina del 300 percento. In generale, il prezzo del litio è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni, passando da 1500 dollari per tonnellata nel 2002 agli oltre 9000 nel 2017.

Una tendenza destinata a continuare col crescere della produzione industriale, e a fronte della quale le aziende del settore stanno intraprendendo una necessaria politica di risparmio delle materie prime. Le grandi sfide del settore delle batterie passano da qui, e determineranno le tempistiche con la quale la transizione energetica – inevitabile quanto ancora incerta – potrà finalmente dirsi completa.


La guerra (silenziosa) per controllare il petrolio dell’Artico

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E’ in corso una guerra (non dichiarata) per il controllo delle estrazioni di petrolio nell’Artico. Una guerra combattuta silenziosamente da Russia, USA, Norvegia, Danimarca e Canada. Un giro di affari da 90 miliardi di barili di petrolio e un tesoretto che, secondo le stime dell’Onu, vale il 30% delle riserve mondiali di gas.

La storia energetica dell’Artico inizia in Russia. Ad aprire la grande corsa agli idrocarburi fu la scoperta del campo Tazovskoye13 nel 1962; fu poi la volta proprio dell’Alaska, con il campo Prudhoe Bay venuto alla luce nel 1967. Circa 61 grandi giacimenti di petrolio e gas naturale sono stati scoperti a partire da quella data all’interno del circolo polare artico in Russia, Alaska, Canada e Norvegia. Quindici di questi grandi campi non sono ancora entrati in produzione; 11 si trovano in Canada e nei Territori del Nordest, 2 in Russia, e 2 nell’Alaska artica.

Ed è proprio la Russia di Putin il paese che più sta puntando sull’Artico, anche per acquisire un vantaggio geo-politico nello scacchiere internazionale ed allargare la sua sfera di influenza. Come la Cina rivendica il 90% del isole del Mar Cinese Meridionale costruendo basi militari su strutture artificiali create su barriere coralline appena affioranti, così la Russia rivendica il controllo delle risorse energetiche sotto l’Artico creando una serie di nuove basi militari che circondano il Circolo Polare Artico.

Secondo quanto rivela il Times, le truppe di Mosca stanno portando a termine la costruzione di sei nuove basi militari permanenti per respingere chi minaccia i suoi interessi economici nella zona, a partire da Canada, Norvegia e Danimarca. L’operazione fa parte di un piano più ampio che prevede tredici piste di atterraggio e dieci nuovisistemi radar a lungo raggio. Tra le nuove basi in fase di costruzione c’è anche quella di Trefoil sulla grande isola conosciuta come Terra di Alessandra (Zemlja Aleksandry) nel Mare di Barents dove tra pochi giorni arriveranno 150 soldati. Le altre nuove installazioni si trovano sull’isola di Kotelny nell’arcipelago della Nuova Siberia, sull’isola di Sredny nell’arcipelago Di Nicola II o Severnaya Zemlya, a Rogachevo sull’isola di Novaya Zemlya, a Wrangel e Cape Schmidt sulla penisola della Chukotka, ai confini con l’Alaska.

All’inizio di dicembre 2015 il ministero della Difesa russo ha annunciato di aver schierato in due basi, nell’arcipelago di Novaya Zemlya (la stessa di Rogachevo, isola tra il Mare di Barents e quello di Kara oltre il Circolo Polare Artico) e nel porto di Tiksi in Siberia, due batterie del loro più moderni e potenti sistemi anti-aereo: l’S-400. Si tratta dello stesso sistema d’arma schierato in Siria a protezione delle forze aeree russe dopo l’abbattimento di un Sukhou 24 da parte di 2 F-16 turchi. L’S-400 è un sistema composto da un mezzo semovente comando, due tipi di radar semoventi, che controllano fino ad un massimo 12 piattaforme di lancio semoventi, ognuna in grado di sparare quattro missili. In questo modo un sistema S-400 può seguire e distruggere fino 80 obiettivi in cielo entro un raggio di 400 chilometri.

Dal canto loro gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra di nervi con gli ambientalisti che contestano qualsiasi opzione di sfruttamento energetico dell’Artico e non possono rispondere “colpo su colpo” alle iniziative russe con un Presidente in scadenza di mandato.

Obama aveva annunciato il varo di un decalogo di regole per la gestione dell’area artica, la principale delle quali riguarda l’impegno a verificare e garantire che tutte le attività commerciali che si dovessero svolgere nell’Artico rispettino i più alti standard di sicurezza e ambientali, in riferimento soprattutto agli obiettivi nazionali in tema di tutela ambientale e cambiamenti climatici. Per questo il Bureau of Ocean Energy Management, nel processo di pianificazione delle attività petrolifere offshore, collaborerà con il Canada affinché la regolamentazione globale per la gestione della zona artica, fissato dalle 2 nazioni, venga rispettata.

Da parte sua, Ottawa ha stimato che sepolti sotto il Mar di Beaufort, nell’Oceano Artico, potrebbe risiedere circa 1,36 miliardi di barili di petrolio. Ma anche sul versante canadese non mancano le difficoltà. Grandi società Oil & Gas come Imperial Oil, Exxon Mobil, BP e Chevron potrebbero vedersi costrette ad abbandonare i propri progetti di ricerca ed estrazione dal momento che non sono state in grado di convincere le autorità federali che possono proseguire nelle attività di perforazione – prima che le loro licenze scadono – senza scongiurare del tutto il rischio ambientale.

La situazione nell’Artico è in rapida evoluzione, bisognerà aspettare le mosse di Trump e vedere le contromosse di Putin. Il circolo polare artico è diventato l’ultima frontiera della Guerra Fredda, una Guerra Fredda che punta alle risorse economiche più che al controllo politico. Insomma, una guerra in linea con i tempi.

Gas, Siria e nucleare: le “convergenze parallele” di Russia, Iran e Turchia

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Lo scorso 4 aprile si sono incontrati ad Ankara il presidente russo, Vladimir Putin, e i suoi omologhi iraniano, Hassan Rouhani, e turco, Recep Tayyip Erdogan. Al centro dei colloqui tra i tre leader c’è stato non solo il futuro della Siria, ma anche il ruolo che gli Stati Uniti hanno nella soluzione dei conflitti regionali.

Questo incontro è avvenuto alla vigilia della decisione che sarà presa a maggio dal Congresso degli Stati Uniti e dal presidente Donald Trump in merito all’accordo sul nucleare iraniano. Gli USA potrebbero decertificare il rispetto dell’intesa da parte iraniana. Tutto questo avviene in un contesto di completa distensione nelle relazioni bilaterali tra Russia e Turchia, che hanno interessi convergenti nel conflitto in Siria. Questo nuovo corso sta accelerando il progetto di realizzazione del Turkish Stream che potrebbe avere un impatto significativo sull’economia regionale.

Iran, Siria e nucleare

I presidenti dei tre paesi si sono impegnati a garantire l’«integrità territoriale» della Siria. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, è stato particolarmente critico nei confronti degli Stati Uniti. La nomina di Mike Pompeo a guida della Segreteria di Stato, e di John Bolton, come nuovo consigliere alla Sicurezza nazionale, hanno duramente minato la futura partecipazione di Washington all’accordo di Vienna sul nucleare iraniano aprendo la strada ad un possibile muro contro muro nei confronti delle autorità iraniane e la potenziale imposizione di nuove e più dure sanzioni contro Teheran. “Gli americani cambiano idea ogni giorno e non sono affidabili”, ha dichiarato Rouhani durante i colloqui di Ankara.

La Casa Bianca ha poi annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di ritirare le proprie truppe dal Nord della Siria. La volontà di un disimpegno dal conflitto in corso era emersa già in seguito all’avvio dell’operazione “Ramoscello di Ulivo” lo scorso 20 gennaio. L’attacco turco contro l’enclave curda di Afrin non aveva trovato alcuna forma di resistenza da parte delle truppe della coalizione internazionale, guidata da Washington e vicina ai curdi siriani, impegnata a combattere contro lo Stato islamico (Isis). L’ipotesi di un ritiro permanente delle truppe USA dal Nord della Siria ha trovato non poche resistenze anche a Washington. Secondo alcuni analisti questa eventualità potrebbe ulteriormente favorire gli interessi russi e iraniani nella regione.

E così, a garantire la centralità iraniana per la stabilizzazione della Siria e il rispetto dell’accordo di Vienna sul nucleare è ancora una volta Mosca. Fin qui Vladimir Putin si è mostrato tra i più integri sostenitori del ruolo iraniano nella regione e della validità dei termini stabiliti dai paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania (P5+1). I colloqui per la stabilizzazione della Siria continueranno ad Astana con la partecipazione dei tre paesi che si sono incontrati al vertice di Ankara. I tre leader si erano già riuniti a Sochi lo scorso novembre. In parallelo si svolgono anche a Ginevra i summit per la soluzione del conflitto e la ricostruzione in Siria. «Non si tratta di colloqui alternativi. Il nostro unico obiettivo è la ricostruzione della Siria», si legge in una nota. In particolare, Iran e Turchia si erano divisi in merito alla figura del presidente siriano Bashar al-Assad, appoggiato dai primi e contrastato da Ankara. Ma le divisioni appaiono superate.

Turchia, Russia e Turkish Stream

Grazie alla nuova intesa sulla Siria, Turchia e Russia stanno rafforzando i loro legami commerciali, dopo anni di tensioni. Il primo effetto è il completamento della prima fase di realizzazione del progetto russo per il gasdotto Turkish Stream. I lavori erano stati bloccati in seguito all’abbattimento del Sukhoi russo Su-24 nell’inverno del 2015, ma sono ripresi dopo l’incontro tra Erdogan e Putin a San Pietroburgo del 9 agosto 2016. Gazprom ha completato la costruzione del tratto marino del gasdotto Turkish Stream nel territorio russo nel 2017. A fine marzo è stata realizzata la prima linea del gasdotto con una capacità di 15,75 miliardi di metri cubi. Mosca è interessata a portare avanti sia il progetto di South Stream sia il Turkish Stream. Furono le autorità bulgare a fermare la realizzazione del South Stream nel dicembre 2014 in seguito alle richieste della Commissione europea in relazione alle restrizioni imposte dal Terzo Pacchetto Energia dell’Unione Europea. Con l’interruzione del passaggio bulgaro, il presidente russo annunciò la realizzazione del Turkish Stream per bypassare i limiti imposti dall’Ue.

Il vertice di Ankara tra Turchia, Iran e Russia ha sancito una volta di più l’asse tra i tre paesi. L’obiettivo, da una parte, è avvantaggiarsi del ruolo che i leader dei tre paesi vicini hanno avuto in Siria e, dall’altra, affermare due risultati strategici essenziali per le tre potenze regionali. Il primo è il rispetto dell’accordo sul nucleare iraniano, osteggiato dagli Usa di Trump; il secondo è il completamento del progetto Turkish Stream, già in fase avanzata di realizzazione.

Gli interessi energetici sono alla base delle divergenze politiche tra Europa e Stati Uniti

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L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha portato la politica estera americana in parziale rotta di collisione con quelle che sono le priorità e gli interessi europei sullo scacchiere globale. Tra le varie cause delle divergenze a livello transatlantico, le diverse priorità (e traiettorie) energetiche di Washington e Brussels rappresentano un elemento importante per capire le rispettive posizioni di politica internazionale, soprattutto nei confronti di attori quali Russia, Iran e Arabia Saudita.

A livello macro, balza immediatamente agli occhi come la crescente dipendenza europea dalle importazioni di approvvigionamenti energetici, faccia il paio con l’eccezionale espansione della produzione di petrolio e gas naturale negli Stati Uniti, e il progressivo affrancamento di Washington dalle forniture internazionali di idrocarburi.

Basti pensare che dal 2007 al 2016 la produzione americana di greggio è cresciuta del 76 percento (da 5 a 8,8 milioni di barili al giorno, Mb/d), mentre le importazioni si sono contratte del 22 percento, con una significativa riduzione anche delle forniture proveniente dal Golfo persico (-28 percento). Numeri impressionanti anche nel settore del gas naturale, dove nello stesso periodo la produzione nazionale è aumentata del 45 percento (da 560 a 815 miliardi di metri cubi, Bcm), a fronte di un crollo delle importazioni del 35 percento (da 130 a 85 Bcm).

Al contrario, l’Unione europea vede crescere la propria dipendenza energetica dall’estero, seppur a tassi moderati determinati da una serie di politiche di efficienza e degli strascichi della crisi economica del 2008-2009. Alla luce del progressivo esaurimento delle riserve ‘interne’ localizzate soprattutto in Olanda, nel periodo considerato, il contributo delle importazioni sui consumi totali di gas è passato dal 57 al 69%, mentre nel settore petrolifero la dipendenza dall’estero è passata dall’81 al 90 percento. Queste differenti situazioni, ovviamente, a livello transatlantico cambiano le percezioni e i rapporti nei confronti di grandi paesi produttori come Russia, Iran e Arabia Saudita.

I rapporti con la Russia

Se i primi carichi di LNG russo partiti dalla penisola di Yamal lo scorso gennaio e arrivati a Boston hanno avuto un forte eco mediatico, le relazioni energetiche tra Stati Uniti e Russia rimangono ancora a livello embrionale. Ben diversa, invece, sull’asse Mosca-Bruxelles, con l’UE che importa 153 Bcm, il 36 percento del suo gas, e 1,2 Mb/d, il 32 percento del suo greggio, dal vicino orientale, primo fornitore energetico in assoluto del blocco europeo.

Iran e i suoi idrocarburi

E proprio nell’ottica di ridurre la propria dipendenza da Mosca, l’UE ha lavorato in modo incessante per riprendere le relazioni (politiche, ma al contempo energetiche), con l’Iran. Il paese è il primo al mondo per riserve di gas e il quarto per riserve di greggio, e rappresenta un obiettivo allettante per le politiche di diversificazione energetica europea. Ad oggi l’Unione importa il 3 percento dei suoi approvvigionamenti petroliferi dall’Iran, e punta a connettere gli immensi giacimenti iraniani di gas con il Corridoio sud (e attraverso questo con i mercati europei): il ritorno di Teheran nell’arena internazionale potrebbe facilitare il rafforzamento delle relazioni energetiche a livello bilaterale. Un obiettivo completamente differente rispetto a quello degli Stati Uniti, che non hanno alcuni tipo di interscambio energetico con Teheran, ma che addirittura vedono gli idrocarburi iraniani come possibili competitor di quelli americani sui mercati internazionali.

Arabia Saudita, alleato o no

Completamente differente la situazione dell’Arabia Saudita, storico alleato (e fornitore energetico) degli Stati Uniti nell’area mediorientale, che ancora oggi, nonostante l’espansione della produzione shale, è il primo fornitore di petrolio di Washington e contribuisce al 7 percento delle importazioni americane. Un contributo simile a quello all’import dell’UE (7 percento), che però ha un ampio ventaglio di forniture che – oltre alla Russia – includono Norvegia (12 percento), Iraq (8 percento) e Kazakhstan (7 percento): ciò permette a Bruxelles di mantenere un approccio equidistante e più equilibrato tra le diverse potenze del Golfo, al contrario dell’alleato transatlantico chiaramente schierato al fianco della dinastia al Saud.

Dal petrolio alle rinnovabili: la (lunga) transizione energetica del Golfo Persico

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Il rapido mutamento del panorama energetico ha vaste implicazioni per le industrie energetiche di tutto il mondo e per i suoi protagonisti, tra cui le compagnie petrolifere e i paesi esportatori di petrolio. Nonostante la transizione energetica sia ricca di incognite, l’aumento della quota delle rinnovabili nel mix energetico sembra, stando alle più accreditate previsioni, un dato di fatto acquisito.

In effetti, la recente deflazione dei costi dell’energia rinnovabile ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per il settore energetico globale. Cinque anni fa i costi dell’eolico statunitense erano di 11 centesimi di dollaro/kWh e quelli del solare di 17 centesimi di dollaro/kWh, considerando tutti i costi diretti e indiretti, compresi quelli del capitale per le infrastrutture.

Senza il supporto dei sussidi, nessuna delle due energie sarebbe stata commercializzabile. Stando alle stime dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), il costo medio globale di eolico e solare onshore è ora sceso rispettivamente a 5 centesimi/kWh e 6 centesimi/kWh. Per quanto riguarda il solare, il record toccato negli EAU, nel 2016, con l’offerta da 2,4 centesimi/kWh  è stato battuto a ottobre 2017 un’ulteriore offerta da 1,8 centesimi/kWh da parte di Masdar ed EDF per l’impianto da 300 MW di Sakaka, in Arabia Saudita. Anche l’energia eolica ha fatto registrare una sensibile flessione dei costi, in attesa che un’ulteriore ribasso possa arrivare a toccare i 4 centesimi/kWh entro il 2020. Di conseguenza, a livello di impianto ed escludendo i costi legati all’intermittenza, l’eolico e il solare si stanno affermando, globalmente, come fonti di energia fortemente competitive.

Con la transizione energetica che dovrebbe produrre cambiamenti strutturali sui mercati energetici di tutto il mondo, compagnie petrolifere e paesi esportatori di petrolio si troveranno ad affrontare sfide impegnative. Le prime assisteranno a una disruption dei propri modelli di business e dovranno trovare il modo per integrare le risorse a basso tenore di carbonio nel proprio portfolio. Dal canto loro, i paesi esportatori di petrolio con un rapporto R/P (Riserve/Produzione) consolidato da anni, dovranno riuscire a monetizzare la propria ampia base di riserve, andando probabilmente incontro ad un calo dei proventi delle esportazioni, il che, data la forte dipendenza dagli introiti del petrolio, potrebbe alterarne il benessere socio-economico. Dunque la domanda fondamentale è la seguente: che posizione dovrebbero assumere le compagnie petrolifere e i paesi esportatori di petrolio nell’era della transizione per assicurarsi di partecipare alla “rivoluzione” delle rinnovabili e garantirsi stabilità a lungo termine?

Una transizione energetica dal ritmo incerto

La transizione energetica consiste in una trasformazione radicale del sistema energetico, che passa da un modello esistente a un nuovo paradigma. Si tratta dunque di un fenomeno complesso, ben oltre la semplice sostituzione di una fonte di energia con un’altra. In sostanza, la transizione energetica comporta cambiamenti rispetto a tre dimensioni tra loro correlate: (i) gli elementi fisici del sistema energetico, ovvero tecnologia, infrastrutture, mercato, impianti di produzione, modelli di consumo e catene di distribuzione; (ii) gli attori e il loro comportamento, ovvero nuove strategie e modelli di investimento, cambiamenti di coalizioni e capacità; (iii) le regolamentazioni socio-tecnologiche, ovvero norme e politiche formali, istituzioni, mentalità e sistemi di credenze, discorsi e visioni relative alla normalità e alle pratiche sociali. La transizione è dunque multidimensionale, complessa, non lineare, non deterministica e altamente incerta e, sebbene venga spesso valutata sulla base della rapidità dei cambiamenti nella dimensione tangibile, è un processo stratificato e gremito di molteplici attori.

Poiché l’esito della transizione sarà il risultato dell’interazione tra tecnologia, istituzioni, società e protagonisti, è difficile prevederne accuratamente l’andamento e, a maggior ragione, il ritmo, parametro fondamentale con importanti implicazioni per la strategia commerciale degli attori del settore energetico. In genere, per comprendere il comportamento futuro di un fenomeno si fa affidamento ai dati storici. Tuttavia, se applicati al ritmo della transizione, tali elementi risultano incerti. La storia infatti abbonda sia di casi di transizioni lente che di transizioni avvenute rapidamente. Inoltre, il ritmo della transizione differisce a seconda dei settori e delle regioni e presenta molteplici livelli, rendendo difficile trarre conclusioni certe su scala mondiale. Volendo tentare di attingere informazioni o dati dal passato, si trascura anche un altro importante aspetto: le spinte per l’attuale processo di transizione sono profondamente diverse da quanto già accaduto. Le precedenti trasformazioni del settore energetico sono state infatti determinate dalle innovazioni, dai progressi tecnologici e/o dalle preferenze dei consumatori, mentre in quella attuale sono le politiche a svolgere un ruolo di primo piano, almeno nel breve e medio termine, finché il mercato non prenderà pienamente il sopravvento. I dati storici relativi alle precedenti transizioni offrono spunti importanti, ma non necessariamente in grado di prevedere l’andamento della transizione futura.

Quando si parla della dimensione temporale della transizione entra poi in gioco anche una componente soggettiva, in quanto i concetti di “veloce” o “lento” non sono definiti rigidamente (ad esempio, 30 anni costituiscono un ritmo lento o veloce?). Per di più, il ritmo della transizione energetica risente del costante cambiamento delle priorità dei governi, dei cicli elettorali e delle competizioni politiche.

Inoltre, da un punto di vista evolutivo, le transizioni avvenute nel corso della storia riguardavano principalmente lo sviluppo di varianti (tecnologie) in un frangente di carenza, mentre la transizione verso regimi a più basse emissioni di carbonio riguarda più che altro l’adattamento dei contesti di selezione nell’era dell’abbondanza (tramite politiche, norme e incentivi che determinano i mercati), influendo sull’equilibrio di domanda e offerta. In un contesto di carenza energetica e di aumento della domanda è possibile che si verifichi una sostituzione lenta e parziale delle fonti attualmente dominanti, le quali manterrebbero comunque un prezzo premium e potrebbero soddisfare la domanda marginale in presenza di una nuova fonte di energia più economica e dal maggiore contenuto calorifico (ad esempio il caso del legno rispetto al carbone). Tuttavia, lo scenario potrebbe assumere contorni molto diversi in un contesto di offerta abbondante e stagnazione della domanda. In questo caso è possibile che una nuova fonte di energia sostituisca completamente quella attuale. In un tale scenario, le fonti oggi dominanti non possono mantenere un prezzo premium se desiderano detenere una quota di mercato significativa.

Integrare le rinnovabili nei progetti basati sugli idrocarburi

I paesi le cui entrate statali dipendono dalla produzione di petrolio e gas sono estremamente vulnerabili ai cambiamenti del panorama energetico. Ciò vale in certa misura anche per le compagnie petrolifere. Tuttavia, tra le grandi società petrolifere e i paesi esportatori di petrolio sussistono due differenze fondamentali in relazione alla transizione energetica. Se il problema principale delle compagnie petrolifere è infatti la disruption dei modelli di business esistenti, la principale sfida dei paesi esportatori di petrolio è, oltre alla perdita di proventi essenziali per la propria economia, la capacità di monetizzare la propria vasta base di riserve. Ciò è determinato in gran parte dal fatto che il rapporto R/P accertato delle compagnie petrolifere internazionali è normalmente di circa otto-dieci anni, mentre è dell’ordine di diversi decenni per alcuni dei paesi ricchi di risorse, dunque superiore a qualsiasi previsione del picco della domanda. Nel caso dell’Arabia Saudita, dove i proventi del petrolio rappresentano il 90 percento circa del bilancio statale, è ad esempio di oltre 63 anni. L’incapacità di monetizzare la propria base di riserve costituisce dunque un rischio per questi paesi.

L’altra importante differenza è che, diversamente dalle compagnie petrolifere che potrebbero incorrere in rischi spostando il proprio core business sulle rinnovabili, per i paesi esportatori di petrolio efficienza statica e dinamica non sono in contrasto quando si tratta di ricollocarsi verso la transizione energetica. In effetti, investire nelle rinnovabili potrebbe contribuire ad aumentare ulteriormente le entrate a breve termine dei paesi esportatori di petrolio, in quanto le risorse di idrocarburi verrebbero destinate all’esportazione (purché i prezzi internazionali siano superiori al prezzo di pareggio). Grazie alle loro peculiari caratteristiche, per i paesi esportatori di petrolio la logica alla base degli investimenti nelle rinnovabili risulta assolutamente stringente. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un aumento della domanda energetica e stanno attraversando una fase di sviluppo nella quale la crescita economica è legata al consumo di energia. Inoltre, stando alle previsioni, l’aumento della domanda energetica dovrebbe mettere a dura prova la loro capacità di esportazione. In effetti, alcuni di loro, come Kuwait e EAU, sono già importatori netti di gas naturale.

L’economia delle rinnovabili, nei paesi esportatori, dipende dal “costo opportunità” del consumo nazionale di petrolio e gas, che si riflette sul prezzo internazionale delle risorse fossili. Secondo un rapporto del 2016 della Energy Information Administration (EIA), generare 1 MWh di elettricità richiede 1,73 barili di petrolio o 10,11 mcf (migliaia di piedi cubi) di gas naturale. I prezzi d’asta ai minimi storici per il solare fotovoltaico (FV) di Dubai, Messico, Perù, Cile, Abu Dhabi e Arabia Saudita hanno dimostrato che, nelle giuste circostanze, è possibile raggiungere un LCOE (costo livellato dell’elettricità) di 3 centesimi di dollaro/kWh. L’IRENA prevede inoltre che il costo medio globale del solare fotovoltaico si aggirerà attorno ai 6 centesimi/kWh. Se si considera la fascia inferiore (più vicina ai costi del solare nella regione), i prezzi di pareggio di petrolio e gas sarebbero rispettivamente di 17,34 dollari/b e 2,96 dollari/mcf, ben al di sotto dei livelli internazionali. Se invece prendiamo in considerazione i costi medi globali del solare (piuttosto costante nella regione), i prezzi di pareggio aumenteranno raggiungendo 34,68 dollari/b e 5,93 dollari/mcf, il che significa che saranno comunque inferiori al prezzo internazionale del petrolio, ma leggermente superiori al prezzo medio del gas naturale. Anche aggiungendo i costi legati all’intermittenza dell’energia solare (circa 5 dollari/MWh), l’economia delle rinnovabili trionfa comunque sulle risorse tradizionali in questi paesi e verrà potenziata tenendo conto degli introiti derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas non più destinati al consumo nazionale. Ciò evidenzia l’importanza per i paesi esportatori di petrolio di integrare le rinnovabili nell’attuale mix di produzione basato sui combustibili fossili.

La diversificazione rimane fondamentale

Nei paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente, che dipendono fortemente dai proventi del petrolio, gli investimenti nelle rinnovabili sono finalizzati alla massimizzazione delle entrate statali nel breve termine destinando gli idrocarburi all’esportazione, ma non garantiscono la sostenibilità a lungo termine. Nel lungo periodo la diversificazione delle economie rimane la principale strategia di adattamento che questi paesi devono perseguire. Le rinnovabili potrebbero sostituire le risorse fossili nel mix energetico nazionale, ma non nel bilancio statale, in quanto investire nelle rinnovabili non garantisce gli elevati introiti derivanti dal settore oil & gas.

Inoltre, pur essendo parte della strategia di diversificazione, il settore delle energie rinnovabili da solo non è in grado di soddisfare i bisogni reali di queste economie, come la creazione di nuova occupazione e il maggiore benessere dei cittadini. Durante la transizione l’industria del petrolio e del gas continuerà dunque a svolgere un ruolo chiave in queste economie, generando gli introiti necessari per espandere alcuni comparti dell’economia produttiva, quali industrie manifatturiere, agricoltura e servizi (con particolare riguardo a quei settori in cui godono di un vantaggio comparato), per aumentare la quota di prodotto interno lordo non derivante dal petrolio e, di conseguenza, diversificare le fonti di introito statale. In effetti, il settore Oil&gas potrebbe partecipare al processo di diversificazione attraverso la creazione di nuove industrie e al rafforzamento dei rapporti a monte e a valle della filiera. In un contesto in cui il ritmo della transizione rimane altamente incerto, ciò rappresenta una strategia di flessibilità per massimizzare i benefici derivanti dal capitale che genera rendite (ovvero riserve di petrolio e gas) e prepara al contempo il paese per un’era che potrebbe essere contraddistinta da stagnazione o diminuzione della domanda di petrolio. Durante il periodo di transizione, gli introiti delle esportazioni costituiranno inizialmente la maggior parte delle entrate statali, ma diminuiranno se la diversificazione procederà come previsto.

Tuttavia, raggiungere una diversificazione economica non è affatto semplice, in quanto comporta ampi cambiamenti all’interno del sistema economico, con implicazioni per il benessere dei cittadini e per la distribuzione del reddito nazionale. I paesi esportatori di petrolio devono, ad esempio, attuare dolorose riforme fiscali che porteranno alla riduzione o eliminazione dei sussidi (ad esempio carriere sottopagate nel settore energetico) e all’introduzione di tasse, come l’imposta sul reddito e quella sul valore aggiunto. Tali questioni sono, per loro natura, complesse, data la rigidità di strutture politiche e istituzioni esistenti e l’implicito contratto sociale per via del quale la mancanza di partecipazione politica viene compensata con la distribuzione dei proventi degli idrocarburi. Per questo, nonostante la possibilità di attuare riforme graduali e su piccola scala e di introdurre misure di mitigazione, non bisogna attendersi rapide trasformazioni delle economie dei paesi esportatori di petrolio.

Inoltre, resta la possibilità (non irrilevante) che questi paesi non riescano a diversificare la propria economia, con ripercussioni sul ritmo della transizione energetica globale. In altre parole, non solo la transizione energetica globale determinerà il panorama politico ed economico dei paesi esportatori di petrolio, ma l’andamento della transizione dei principali paesi esportatori determinerà a sua volta la transizione energetica globale. È una strada a doppio senso.

La dinamica di conseguenze innescata dai paesi esportatori si farà sentire anche se essi riusciranno a espandere la propria economia produttiva o se il mercato mondiale del petrolio passerà dall’attuale modello orientato alla scarsità a un mercato basato sul costo marginale nel quale gli idrocarburi non possono mantenere un prezzo premium. Ad esempio, se questi paesi riuscissero a realizzare i propri obiettivi di diversificazione, potrebbero attuare una strategia più aggressiva di monetizzazione delle proprie riserve, che determinerebbe un calo dei prezzi del petrolio e forti variazioni dei prezzi relativi dei combustibili. Ciò si ripercuoterebbe sul ritmo della transizione, a meno che tali variazioni dei prezzi relativi non venissero regolate da tasse sul carbonio, aprendo nuove questioni legate al coordinamento e alla distribuzione internazionali. D’altro canto, se la transizione non dovesse avvenire agevolmente e si traducesse in possibili interruzioni della produzione e in una volatilità eccessiva dei prezzi del petrolio, l’intero processo di transizione energetica ne risentirebbe. Tali ripercussioni contribuiscono ad aumentare l’incertezza della già complessa questione della transizione energetica attuale.

La disinformazione sulle auto elettriche prolunga il business delle auto tradizionali

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I tentativi sempre più crudi dell’industria petrolifera ed automobilistica di diffondere disinformazione sui veicoli elettrici sono un tentativo di proteggere un modello di business sempre più riconosciuto ogni giorno come dannoso per il pianeta e per ognuno di noi. La disinformazione comprende anche l’affermazione che i veicoli elettrici siano più inquinanti dei veicoli convenzionali. Ciò è stato ripetutamente smentito, soprattutto perché sempre più nazioni stanno generando la loro elettricità da fonti sostenibili. E anche quando l’elettricità è prodotta a partire da combustibili fossili, l’uso di automobili elettriche significa ancora una volta una notevole riduzione dell’inquinamento atmosferico nelle nostre città.

Oltre un terzo delle emissioni inquinanti

Un’altra falsità è che i trasporti non siano il vero problema e che le vere cause dell’inquinamento siano il riscaldamento e/o le emissioni industriali. La verità è che le automobili ed i camion sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni inquinanti, una buona parte delle quali avviene proprio nei luoghi in cui viviamo e/o lavoriamo. Pertanto, è molto probabile che qualsiasi riduzione abbia un effetto positivo sulla nostra qualità di vita. Molti dicono anche che i veicoli elettrici siano troppo costosi o generino ansia nei conducenti, un’idea confutata dalla crescente domanda di veicoli elettrici, che si sta già avvicinando o addirittura superando quella dei loro omologhi basati sui combustibili fossili. Mercedes ha affermato che il suo prossimo veicolo elettrico avrà un range di autonomia di 500 chilometri, ed alcune Tesla, come la prossima Roadster, dovrebbero averne uno di circa 1.000 chilometri. Anche se questi esempi non sono precisamente automobili che potrebbero permettersi le persone comuni, la tendenza è chiara. Con il progressivo aumento della densità delle batterie, queste cifre possono evolvere solo in un modo: verso l’alto.

Batterie

Le batterie sono anche l’obiettivo di altre campagne di disinformazione. Alcuni dicono che si basino su fonti minerali, quindi si suppone siano scarse e non possano essere riciclate. Invece, le batterie possono essere riciclate ed i loro elementi sono perfettamente riutilizzabili e, contrariamente a quanto molti pensano, non si degradano con l’uso o nel tempo. Rigorosi studi scientifici mostrano una degradazione della batteria di circa l’1% ogni 30.000 chilometri, rendendola molto più efficiente di quelle a combustione interna. Con la produzione di un maggior numero di batterie, la tecnologia sta migliorando ed i prezzi diminuiscono, mentre altre tecnologie, come le batterie allo stato solido, offrono un potenziale ancora maggiore. Altri sono perplessi sull’incapacità di generare elettricità a sufficienza per ricaricare tutte quelle auto elettriche. Questa affermazione è già stata smentita dall’associazione britannica dei fornitori di energia, la quale afferma che i suoi membri saranno più che in grado di soddisfare la domanda dei diversi milioni di veicoli elettrici che si prevede arriveranno nei prossimi anni.

Manutenzione

E poi c’è la questione della manutenzione. I motori a combustione interna hanno più di 10 parti mobili che devono essere lubrificate permanentemente e sostituite periodicamente. Come ogni automobilista sa, la sostituzione dei pezzi di ricambio è estremamente costosa. Un tipico veicolo elettrico ha, invece, circa 18 parti mobili, con degradazione molto bassa e necessità di manutenzione drasticamente inferiore rispetto ai veicoli con motori a combustione interna. Insomma, il mondo si sta muovendo verso l’elettrico e nessuno riuscirà a fermarlo.

Mar Caspio: accordo storico tra Russia, Iran, Kazakistan, Azerbaijan e Turkmenistan. Cosa cambia

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Dopo decenni di stallo e negoziati fallimentari, il 12 agosto ad Aktau, in Kazakistan, i cinque stati rivieraschi del Mar Caspio – Azerbaijan, Iran, Kazakistan, Russia e Turkmenistan – hanno raggiunto uno storico accordo (seppur ancora parziale) sulla giurisdizione del bacino internazionale.

Si tratta di un accordo che, nonostante la sua rilevanza strategica e l’interesse generato nell’opinione pubblica occidentale, ha tuttavia ancora una valenza non univoca e lascia aperte molte questioni – incluse quelle energetiche – legate agli interessi europei.

Un’intesa storica ma non completa

L’accordo ha certamente una portata storica perché, dopo oltre due decenni, ha portato a convergere attorno ad un unico tavolo i cinque stati rivieraschi del Mar Caspio che hanno finalmente definito un quadro legale per il bacino basato sui principi della sovranità nazionale, dell’integrità territoriale, del principio di eguaglianza fra gli stati e del rifiuto dell’uso della forza.

Un quadro ibrido – il Caspio non viene riconosciuto dall’accordo né come un mare interno, né come un lago internazionale – che stabilisce per la prima volta i criteri per la definizione dei limiti delle acque territoriali dei cinque firmatari, localizzate entro le 15 miglia dalla costa (al posto delle 12 vigenti), e delle zone di sfruttamento esclusivo (ulteriori 10 miglia). La definizione dei confini delle singole aree è stato tuttavia rimandato ad una fase successiva, grazie ad accordi siglati di volta in volta dai governi su base bilaterale. Rimane inoltre inalterata – e quindi disciplinata secondo le ormai obsolete convenzioni del 1935 e del 1940 tra Unione Sovietica e Iran – la gestione dei fondali e delle acque oltre queste 25 miglia: esse continuano ad essere considerate aree comuni sulle quale i cinque stati coinvolti esercitano un controllo congiunto. Il rischio, come in passato, è che questa condizione contribuisca a bloccare iniziative non condivise da tutti e cinque i paesi.

La dimensione energetica

Soprattutto, rischiano di rimanere in sospeso una serie di attività strategiche in ambito energetico. Com’è noto, infatti, il bacino non soltanto ospita nei suoi fondali ingenti risorse di petrolio e gas naturale, ma rappresenta anche un ostacolo fisico – fino ad oggi insormontabile – al transito di idrocarburi prodotti nei giacimenti onshore dell’Asia Centrale e diretti verso i mercati occidentali, Turchia e UE in primis.

Senza un regime legale che permetta di risolvere in modo definitivo le dispute territoriali in essere, e di stabilire chiaramente i confini dei fondali degli stati rivieraschi (l’accordo, come detto, rimanda tutto a successivi negoziazioni bilaterali) lo sviluppo dei giacimenti di petrolio e gas nel Mar Caspio – si parla, rispettivamente, di riserve per 48 miliardi di barili e 9 trilioni di metri cubi – rischia di non decollare. Le dispute, in particolare, riguardano aree contese da Azerbaijan e Iran attorno al giacimento Araz-Alov-Sharg – riserve stimate attorno a un miliardo e mezzo di barili di greggio e 400 Bcm di gas, e tra Azerbaijan e Turkmenistan, presso il giacimento Serdar/Kapaz, con riserve attorno ai 360mila barili. In questo contesto rimane incerta anche la realizzazione dell’ormai fantomatica Trans-Caspian Pipeline (TCP).

La condotta sottomarina di circa 300 chilometri, dovrebbe collegare la costa occidentale del Caspio, in Turkmenistan, con quella orientale in Azerbaijan, permettendo al gas turkmeno di essere finalmente commercializzato in Europa (inclusa la Turchia) attraverso il Corridoio meridionale del gas e le condotte TANAP e TAP. Per un paio di decenni il gasdotto è infatti stato bloccato a causa dell’indefinito status legale del bacino – in virtù del quale Mosca ha costantemente esercitato il proprio veto sul progetto) – nonché della già menzionata disputa tra Baku e Ashgabat sulla sovranità sul giacimento Serdar/Kapaz. L’accordo di Aktau, lasciando entrambe le questioni ancora aperte (in particolare, la gestione delle acque condivise al di là delle 25 miglia), non fornisce chiare indicazioni sul futuro della TCP, con buona pace dei consumatori europei.

Una iniziativa a carattere regionale

L’accordo, seppur accolto con grande interesse dall’opinione pubblica occidentale (soprattutto alla luce dei suoi possibili risvolti energetici) sembra avere piuttosto una forte connotazione regionale. Esso, infatti, sancisce il tentativo di chiusura da parte dei paesi caspici – guidati dall’asse tra Mosca e Teheran – nei confronti delle potenze internazionali interessate alla regione, Stati Uniti, UE e Cina in primis. Siglato in concomitanza con le prese di posizione della presidenza Trump nei confronti di Russia e Iran, l’accordo suona come un monito alla non ingerenza americana – diretta o attraverso la NATO – nell’area, considerata di influenza esclusiva da parte dei due leader regionali. Non è un caso che, tra gli elementi salienti contenuti nell’accordo, figurino l’accesso esclusivo al bacino alle forze armate dei paesi rivieraschi – garantito proprio dalla Caspian Flotilla russa, la riaffermazione della sovranità esclusiva sulla stazione aerea, e la formale esclusione di qualsiasi altro attore non-regionale con buona pace di Washington, che sin dalla frantumazione dell’Unione Sovietica ha provato a estendere la propria proiezione strategica nell’area. Qualcosa, dunque, si sta muovendo nel Caspio. Ma non è detto che sia necessariamente a favore, degli interessi europei.

Batterie, fonti rinnovabili e sistemi di accumulo. A che punto siamo con la transizione energetica?

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A che punto siamo con la transizione energetica, e il passaggio da un sistema ad alta intensità di carbonio a uno sostanzialmente decarbonizzato? La risposta non è facile, e nonostante i progressi ottenuti grazie alla penetrazione delle rinnovabili a livello globale e gli importanti obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, i punti di domanda rimangono ancora numerosi.

Tra i diversi fattori che permetteranno un completo ed efficace processo di decarbonizzazione, batterie e sistemi di accumulo (elettrochimico) giocano un ruolo di primo piano: essi infatti possono garantire lo stoccaggio di energia elettrica prodotta in eccesso, permettendo di far fronte all’intermittenza di fonti rinnovabili come eolico e solare. Il settore della generazione, così come quelli industriale, domestico e dei trasporti potrebbero beneficiare in modo significativo una volta che la tecnologia sarà matura e competitiva dal punto di vista economico. Fino a che ciò non accadrà, il ruolo dei combustibili fossili – meglio se a basse emissioni di CO2 – rimarrà centrale per lo sviluppo del pianeta terra e per il benessere dei suoi abitanti.

I molteplici usi di una nuova tecnologia

Il futuro è nello stoccaggio. Se vogliamo realmente raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, ridurre di due gradi centigradi, al massimo, l’aumento della temperatura globale e limitare il più possibile gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici su esseri umani e natura, non possiamo fare a meno di compiere un enorme passo avanti nello sviluppo tecnologico di batterie e accumuli.

Non si tratta ovviamente dell’unica tecnologia necessaria per garantire un efficace e sostenibile processo di decarbonizzazione globale,  digitalizzazione e big data, carbon capture & storage, biocarburanti, smart metering contribuiranno ad accompagnare la transizione del sistema, ma certamente l’utilizzo degli stoccaggi elettrici a diversi livelli dell’economia e della vita dei cittadini rendono le batterie un fattore di fondamentale importanza.  Le batterie, infatti, si apprestano a giocare un ruolo chiave nell’integrazione delle rinnovabili nella rete elettrica, neutralizzandone l’intermittenza che ad oggi ne limita in modo sostanziale l’utilizzo.

Da un lato lo sviluppo di sistemi di accumulo efficienti, economici e ‘smart’ potrà finalmente consentire di immagazzinare l’elettricità in eccesso prodotta durante le ore di massima resa da capacità solare ed eolica, o di stoccare quella generata da centrali termoelettriche, per poi reimmetterla in rete nei i momenti di picco della domanda garantendo un bilanciamento del sistema elettrico. Questo è, ad esempio, il caso del sistema di accumulo Powerpack di Tesla, il primo dei quali è stato collegato ad una centrale eolica localizzata nel sud dell’Australia, in grado di stoccare e rilasciare energia per 30mila abitazioni per un’ora. Sistemi simili sono attualmente operativi anche a Portorico, negli Stati Uniti e in Belgio. Al contempo, unità di accumulo di grandi dimensioni possono essere utilizzate da complessi industriali per stoccare e riutilizzare l’energia elettrica generata in modo indipendente – potenzialmente da fonti rinnovabili, assicurando una gestione ottimale dei carichi. Le mega-batterie permetterebbero infatti lo spostamento dei consumi da una fascia oraria all’altra in modo da ottimizzazione i costi dell’energia e rendere l’attività industriale più efficiente (e sostenibile).

La diffusione su larga scala di batterie e sistemi di accumulo distribuiti potrà avere un impatto significativo anche sulle abitudini di famiglie e individui, spianando la strada a pratiche quali l’autoconsumo domestico da rinnovabili. Va infine considerato il ruolo chiave che le batterie giocano nel settore della mobilità, nel quale i veicoli elettrici rappresentano oggi ancora un ambito di nicchia: grazie al miglioramento delle performance dei sistemi di accumulo – dimensioni, costi, velocità di ricarica e durata sono attualmente non sono ancora ottimali – l’auto elettrica potrà infatti registrare una crescita esponenziale sul mercato soprattutto per l’utilizzo urbano e di medio raggio. Inoltre, nell’ottica di reti elettriche sempre più intelligenti e responsive, le batterie installate sui veicoli elettrici potranno utilizzate durante le fasi di ricarica per gestire flussi di elettricità unidirezionali e bidirezionali e bilanciare in modo distribuito la rete (vehicle-to-grid, V2G).

Un settore strategico che accelererà il processo di transizione

Sul piano globale, la diffusione massiccia di batterie e sistemi di accumulo – associata al progressivo abbattimento dei costi di eolico e solare – potrà garantire una rapida transizione verso un settore energetico (e non solo) fortemente decarbonizzato e, al contempo, favorire il raggiungimento di uno dei principali obiettivi dell’Agenda 2030 della Nazioni Unite: l’accesso all’energia a quel miliardo e mezzo di persone che ancora oggi vive – principalmente in Africa – disconnesso dalla rete e privo di qualsiasi servizio elettrico. Un mercato immenso, nel quale il possesso di tecnologie abilitanti d’avanguardia rappresenta un fattore strategico sia dal punto di vista economico che da quello geopolitico. Secondo le stime dell’IRENA, infatti, la capacità installata dei sistemi di accumulo per uso stazionario crescerà di diciassette volte di qui al 2030 per far fronte alla crescente generazione da rinnovabili. A questa va aggiunta la domanda di batterie per veicoli elettrici, un mercato da circa 700 GWh all’anno nel 2030, per un totale di quasi 250 miliardi di dollari.

Ad oggi, gran parte di questa capacità tecnologica e industriale è localizzata in Asia: l’attuale leader mondiale, la giapponese Panasonic, è incalzata dai giganti cinesi BYD e CATL e dalle coreane LG e Samsung, che insieme controllano quasi il 90 percento del mercato globale. Nel giro di pochi anni, anche trainata da un mercato interno dei veicoli elettrici senza uguali, la produzione cinese è destinata ad aumentare in modo significativo, e raggiungere una quota del 70 percento della produzione mondiale: basti pensare che nel solo 2017 – anno record per le vendite globali di veicoli elettrici con un milione di nuove immatricolazioni – la flotta cinese è cresciuta di quasi 600mila unità (quasi 100mila in più rispetto alle vendite dell’anno precedente), un dato che risulta ancor più straordinario se paragonato ai 200mila veicoli venduti rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa. E proprio sull’asse transatlantico si rischia di rimanere irreparabilmente indietro in questo settore strategico. La californiana Tesla, in realtà, sta cercando di recuperare il gap tecnologico e industriale con i competitor asiatici grazie ad una serie di massicci investimenti sia nei mega accumuli che nelle batterie al litio per autoveicoli.

Elon Musk ha infatti recentemente annunciato la partnership con Pacific Gas & Electric Company per la realizzazione di un mega sito di stoccaggio in California da più di 1.1 GWh (quasi dieci volte l’attuale sistema attivo in Australia), mentre nel segmento delle batterie sta lavorando per abbattere sensibilmente l’uso (e i costi derivati da esso) di cobalto, una delle componenti più costose dei sistemi di accumulo per veicoli. Le nuove Tesla Model S, ad esempio, sono passate dall’utilizzo di 11 chilogrammi per unità a meno di 5 chilogrammi nel giro di pochi mesi: qualità e innovazione sono l’unica soluzione per l’azienda di Palo Alto – che sta pianificando la realizzazione di due nuove Gigafactory in Cina ed Europa (probabilmente in Germania) – per rimanere competitiva sul mercato.

L’Europa ancora al palo in tema di batterie

E quella di Tesla (insieme a grandi compagnie asiatiche come CATL e BYD) rischia di rimanere l’unica grande presenza industriale nel vecchio continente in questo settore. Nonostante lo scorso anno la Commissione abbia lanciato un’iniziativa per creare una “Airbus” delle batterie e non perdere il treno di una rivoluzione in grado di trasformare i settori dell’elettricità e dei trasporti, in Europa le cose stentano a decollare. Sebbene le previsioni di mercato siano sostanzialmente rosee, con un terzo delle vendite globali di batterie al litio da oggi al 2025 – circa 200 GWh sui 600 totali – previste in Europa, la capacità del tessuto industriale europeo, ad oggi privo di aziende di portata globale, di far fronte a questa grande opportunità di mercato appare quantomai discutibile.

E a poco rischiano di servire i tentativi di Bruxelles per spingere l’innovazione nel settore: per il biennio 2018-19 l’UE finanzierà 110 milioni di euro per attività di ricerca e sviluppo, davvero troppo poco se paragonati ai 3 miliardi di investimenti al 2020 previsti dalla cinese CATL per quadruplicare la propria produzione di batterie. Nonostante le straordinarie prospettive per il mercato globale delle batterie e dei mega accumuli, alcuni elementi di incertezza limitano ancora la completa espansione del settore.

Il primo, e principale, è legato ai costi e alle prestazioni delle tecnologie disponibili. Sebbene il prezzo delle batterie al litio sia crollato da mille a meno di 300 dollari per KWh ora nel giro di pochi anni, la competitività in termini di costo dei veicoli elettrici nei confronti delle automobili a combustione interna – al netto di incentivi governativi e di altre forme di sostegno – rimane ancora tutta da dimostrare. Oltre ai costi delle batterie, che per rendere i veicoli elettrici competitivi si stima dovranno raggiungere i 100 dollari per KWh, un’altra componente di costo estremamente rilevante è quella dell’infrastruttura da sviluppare per garantire l’accesso a punti di ricarica a un numero crescente di unità presenti nel sistema stradale. Vanno inoltre considerati elementi quali le dimensioni delle batterie stesse, la loro durata ed efficienza, e i tempi di ricarica, che ad oggi contribuiscono a limitare la fruibilità dei veicoli elettrici – soprattutto per tragitti di media e lunga durata – ma che grazie al progresso tecnologico potranno favorire una rapida penetrazione dell’auto elettrica.

Le tante difficoltà per l’approvvigionamento del litio

Un altro elemento, attualmente meno sotto i riflettori, ma da tenere certamente in considerazione è quello dell’accesso alle risorse naturali necessarie per sviluppare e mantenere il futuro mercato delle batterie. Le riserve di litio, in questo contesto di rapida transizione energetica, giocheranno un ruolo centrale: a richiedere attenzione non sono soltanto le implicazioni politiche di una crescente dipendenza per garantire il funzionamento del settore, ma anche quelle di natura prettamente economica. A livello globale, le riserve di litio sono concentrate in un numero limitato di paesi, con il Cile che controlla quasi il 50 percento delle risorse, seguito da Cina, Australia e Argentina rispettivamente con 20 percento, 17 percento e 12 percento. Concentrazione che determina forte volatilità in termini di prezzo, come accaduto nel corso del 2017 quando ad una limitazione della produzione australiana ha fatto fronte una crescita dei prezzi in Cina del 300 percento. In generale, il prezzo del litio è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni, passando da 1500 dollari per tonnellata nel 2002 agli oltre 9000 nel 2017.

Una tendenza destinata a continuare col crescere della produzione industriale, e a fronte della quale le aziende del settore stanno intraprendendo una necessaria politica di risparmio delle materie prime. Le grandi sfide del settore delle batterie passano da qui, e determineranno le tempistiche con la quale la transizione energetica – inevitabile quanto ancora incerta – potrà finalmente dirsi completa.


La guerra (silenziosa) per controllare il petrolio dell’Artico

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E’ in corso una guerra (non dichiarata) per il controllo delle estrazioni di petrolio nell’Artico. Una guerra combattuta silenziosamente da Russia, USA, Norvegia, Danimarca e Canada. Un giro di affari da 90 miliardi di barili di petrolio e un tesoretto che, secondo le stime dell’Onu, vale il 30% delle riserve mondiali di gas.

La storia energetica dell’Artico inizia in Russia. Ad aprire la grande corsa agli idrocarburi fu la scoperta del campo Tazovskoye13 nel 1962; fu poi la volta proprio dell’Alaska, con il campo Prudhoe Bay venuto alla luce nel 1967. Circa 61 grandi giacimenti di petrolio e gas naturale sono stati scoperti a partire da quella data all’interno del circolo polare artico in Russia, Alaska, Canada e Norvegia. Quindici di questi grandi campi non sono ancora entrati in produzione; 11 si trovano in Canada e nei Territori del Nordest, 2 in Russia, e 2 nell’Alaska artica.

Ed è proprio la Russia di Putin il paese che più sta puntando sull’Artico, anche per acquisire un vantaggio geo-politico nello scacchiere internazionale ed allargare la sua sfera di influenza. Come la Cina rivendica il 90% del isole del Mar Cinese Meridionale costruendo basi militari su strutture artificiali create su barriere coralline appena affioranti, così la Russia rivendica il controllo delle risorse energetiche sotto l’Artico creando una serie di nuove basi militari che circondano il Circolo Polare Artico.

Secondo quanto rivela il Times, le truppe di Mosca stanno portando a termine la costruzione di sei nuove basi militari permanenti per respingere chi minaccia i suoi interessi economici nella zona, a partire da Canada, Norvegia e Danimarca. L’operazione fa parte di un piano più ampio che prevede tredici piste di atterraggio e dieci nuovisistemi radar a lungo raggio. Tra le nuove basi in fase di costruzione c’è anche quella di Trefoil sulla grande isola conosciuta come Terra di Alessandra (Zemlja Aleksandry) nel Mare di Barents dove tra pochi giorni arriveranno 150 soldati. Le altre nuove installazioni si trovano sull’isola di Kotelny nell’arcipelago della Nuova Siberia, sull’isola di Sredny nell’arcipelago Di Nicola II o Severnaya Zemlya, a Rogachevo sull’isola di Novaya Zemlya, a Wrangel e Cape Schmidt sulla penisola della Chukotka, ai confini con l’Alaska.

All’inizio di dicembre 2015 il ministero della Difesa russo ha annunciato di aver schierato in due basi, nell’arcipelago di Novaya Zemlya (la stessa di Rogachevo, isola tra il Mare di Barents e quello di Kara oltre il Circolo Polare Artico) e nel porto di Tiksi in Siberia, due batterie del loro più moderni e potenti sistemi anti-aereo: l’S-400. Si tratta dello stesso sistema d’arma schierato in Siria a protezione delle forze aeree russe dopo l’abbattimento di un Sukhou 24 da parte di 2 F-16 turchi. L’S-400 è un sistema composto da un mezzo semovente comando, due tipi di radar semoventi, che controllano fino ad un massimo 12 piattaforme di lancio semoventi, ognuna in grado di sparare quattro missili. In questo modo un sistema S-400 può seguire e distruggere fino 80 obiettivi in cielo entro un raggio di 400 chilometri.

Dal canto loro gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra di nervi con gli ambientalisti che contestano qualsiasi opzione di sfruttamento energetico dell’Artico e non possono rispondere “colpo su colpo” alle iniziative russe con un Presidente in scadenza di mandato.

Obama aveva annunciato il varo di un decalogo di regole per la gestione dell’area artica, la principale delle quali riguarda l’impegno a verificare e garantire che tutte le attività commerciali che si dovessero svolgere nell’Artico rispettino i più alti standard di sicurezza e ambientali, in riferimento soprattutto agli obiettivi nazionali in tema di tutela ambientale e cambiamenti climatici. Per questo il Bureau of Ocean Energy Management, nel processo di pianificazione delle attività petrolifere offshore, collaborerà con il Canada affinché la regolamentazione globale per la gestione della zona artica, fissato dalle 2 nazioni, venga rispettata.

Da parte sua, Ottawa ha stimato che sepolti sotto il Mar di Beaufort, nell’Oceano Artico, potrebbe risiedere circa 1,36 miliardi di barili di petrolio. Ma anche sul versante canadese non mancano le difficoltà. Grandi società Oil & Gas come Imperial Oil, Exxon Mobil, BP e Chevron potrebbero vedersi costrette ad abbandonare i propri progetti di ricerca ed estrazione dal momento che non sono state in grado di convincere le autorità federali che possono proseguire nelle attività di perforazione – prima che le loro licenze scadono – senza scongiurare del tutto il rischio ambientale.

La situazione nell’Artico è in rapida evoluzione, bisognerà aspettare le mosse di Trump e vedere le contromosse di Putin. Il circolo polare artico è diventato l’ultima frontiera della Guerra Fredda, una Guerra Fredda che punta alle risorse economiche più che al controllo politico. Insomma, una guerra in linea con i tempi.

Le tensioni tra Iran e Arabia Saudita tengono in scacco il prezzo del petrolio

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Il prezzo del petrolio Brent a ottobre oscilla sopra gli 80 dollari, massimo non raggiunto da fine 2014, quando era da poco iniziato il crollo che avrebbe portato al minimo di 27 dollari nel gennaio 2016. Come quattro anni fa era stato il ritorno dell’Iran per la fine delle sanzioni ad innescare la caduta, così oggi è il loro ripristino, voluto da Trump, a spingere al rialzo.

Le esportazioni che mancheranno al mercato sono di 1,5 milioni di barili in un momento in cui la domanda raggiunge il nuovo picco a 100 milioni di barili giorno. Era maggio 2014 quando l’allora amministrazione Obama decise di togliere le sanzioni sulle vendite di petrolio dell’Iran, di cui aveva un urgente bisogno per combattere l’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria)nel Nord dell’Iraq.

La mossa non piacque ai sauditi che, sentitisi traditi dallo storico alleato americano per un accordo con il nemico iraniano, decisero di reagire inondando il mercato petrolifero internazionale. Volevano anche mettere fuori mercato la produzione da fracking USA, ma la prima ragione era quella di ostacolare il ritorno dell’Iran.  Per due anni hanno aperto i rubinetti e solo nel novembre 2016, dopo un anno di mediazione della Russia, sono tornati a frenare la produzione con un accordo fra OPEC e non OPEC, di portata storica, entrato in vigore nel gennaio 2017. Il grado di rispetto di quegli impegni è stato sorprendente, grazie anche ai problemi di alcuni paesi, in particolare del Venezuela, ma soprattutto per lo sforzo, impiegato dai paesi firmatari, mai visto in precedenza.

L’accordo prevedeva un taglio di 1,7 milioni barili al giorno rispetto ai picchi estrattivi di ottobre 2016, quando in realtà è stato superiore ai 2 milioni. A maggio 2018, l’annuncio di Trump di voler di nuovo imporre le sanzioni all’Iran, effettive ad inizio novembre, aveva spinto per la prima volta i prezzi di nuovo verso gli 80 dollari. Preoccupati, anche sollecitati da Trump, i produttori il 22 giugno 2018 hanno deciso di allentare il grado di rispetto degli impegni, aumentando di fatto l’offerta di un milione di barili al giorno. La flessione dei prezzi di nuovo verso i 70 dollari è durata poco, solo su agosto e settembre, perché, con l’approssimarsi della scadenza dell’esclusione dell’Iran, ci si comincia ad accorgere che il mercato è un po’ sbilanciato e che manca capacità produttiva.

Oggi la differenza la fa la crescita dei consumi

Rispetto al 2014, quando l’Iran era fuori, la grande differenza è che oggi la domanda è superiore di quasi 8 milioni barili giorno. In questi 4 anni è stata confermata la regola di lungo termine che vede i consumi mondiali di petrolio crescere ogni anno fra 1,2 e 1,5 milioni barili giorno, un volume pari al consumo dell’Italia. Non esiste alternativa al vantaggio garantito dai carburanti liquidi derivati dal petrolio. Nessuna altra fonte riesce a contenere così tanta energia in uno spazio così ridotto, come quello di un litro di benzina. L’auto elettrica, di cui tanto si parla, di fatto rimane confinata ancora nelle visioni di lungo termine che tutti vorremmo che si avverassero. Nel frattempo, la domanda di petrolio, contrariamente agli auspici, continua ad aumentare, mentre, e qui sta il problema, l’offerta non è salita altrettanto, o meglio non si è investito sufficientemente in nuova capacità produttiva. Gli investimenti dell’industria del petrolio nella fase di produzione e ricerca, dopo il crollo dei prezzi del 2014, sono stati più che dimezzati da valori di quasi 800 miliardi di dollari a 350 nel 2015 e 2016.

Si teme la scarsità di capacità produttiva

Del resto le compagnie petrolifere non potevano fare altro sulla pressione degli analisti finanziari e della politica, che volevano i prezzi del petrolio ancora per molto tempo bassi, con alcuni che coniarono il “lower for longer”, sorpassati da altri più estremisti con il “lower for ever”, prezzi bassi per sempre. Dimenticati questi proclami, utili solo a fare i titoli dei giornali, ora si è ripreso a temere la scarsità di capacità produttiva, con quel poco che rimane tutta concentrata in Medio Oriente e, in particolare in Arabia Saudita.

La Russia, secondo esportatore mondiale dopo l’Arabia Saudita, non ha volumi aggiuntivi; ha raggiunto il massimo a 11,6 milioni barili al giorno, e nuovi incentivi alla produzione stentano ad arrivare sul mercato sia a causa dei pochi investimenti fatti in passato, sia per problemi oggettivi di trasporto dai campi interni ai porti di esportazione.

In una situazione simile si trova la produzione USA che, grazie al fracking, continua a salire e che trova difficoltà ad essere esportata per strozzatura sul sistema logistico. C’è poi l’incognita della finanza USA che ha continuato a facilitare i petrolieri senza avere nulla in cambio. Dovesse interrompersi questo circolo, che per fortuna dura da 10 anni, allora anche la produzione americana cesserebbe di salire.  In altre parti del mondo la produzione è stabile o in calo. Per compensare l’ammanco iraniano occorre affidarsi solo all’Arabia Saudita che ha si ancora 1,5 milioni barili al giorno di capacità inutilizzata, ma che non è proprio della qualità necessaria al mercato. A Riad, l’ambizioso e stravagante tentativo di modernizzazione del trentatreenne principe ereditario Mohamed Bin Salman si sta lentamente accartocciando. Da sempre i sauditi lavorano per la stabilità del mercato, perché loro sono i primi a trarne vantaggio, visto le riserve che hanno. Tuttavia, a volte, la politica del ginepraio mediorientale agisce contro e l’instabilità torna a prevalere; questa volta, dopo 4 anni di prezzi bassi, potrebbe essere di nuovo al rialzo.

Sudamerica e petrolio: il futuro dell’energia brasiliana ai tempi di Bolsonaro

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L’ondata di  estrema destra ha ufficialmente travolto il Brasile. Il ballottaggio del 28 ottobre ha confermato ciò che era ormai evidente da tre settimane, o meglio da mesi: Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del paese. Radicale, controverso e strenuamente nazionalista, Bolsonaro è stato soprannominato il “Trump tropicale”.

Ex capitano dell’esercito, il presidente eletto denota tendenze autoritarie ed elogia la forza e l’ordine della dittatura militare che ha governato il Brasile per ventun anni, mentre le sue posizioni incendiarie nei confronti di donne, minorità etniche e comunità omosessuale lo hanno portato a scontrarsi con i difensori dei diritti umani. La vittoria di Bolsonaro fa virare fortemente a destra il più grande paese dell’America Latina, interrompendo una serie di quattro vittorie consecutive della sinistra brasiliana incarnata dal Partito dei Lavoratori.

Come nelle ultime elezioni in USA e Messico – e in molte altre parti del mondo – il passaggio a destra è stato sostenuto da un fervore anti-establishment. Bolsonaro si è autoproclamato paladino dell’ordine pubblico incaricato di arrestare la corruzione, le spese dissolute e il crollo dei valori secondo lui emblema dello status quo, responsabili della più profonda recessione mai conosciuta dal paese e del dilagare di droga e violenza nelle città. Ma mentre la sua elezione non promette nulla di buono per la democrazia e i diritti umani, resta da capire come il suo mantra dell’ordine pubblico si tradurrà in termini di politiche economiche, e in particolare modo di energia.

Ciò che è certo, ad ogni modo, è che Bolsonaro eredita un quadro energetico molto favorevole: produzione in piena crescita, investimenti specifici e una serie di aste in programma per continuare ad approfittare dell’interesse internazionale nella straordinaria geologia del paese. Sebbene la sua elezione rappresenti il rifiuto dell’establishment, occorrerebbe fare un’eccezione per le politiche energetiche in modo da consentire al settore di portare avanti i recenti progressi.

Il cauto ottimismo dei mercati

Nonostante il Brasile sia la più grande economia dell’America Latina, le questioni economiche, comprese quelle energetiche, non sono mai state il motore trainante dell’agenda di Bolsonaro. Mercati finanziari e investitori del settore hanno risposto con cauto ottimismo alla sua ascesa, probabilmente per due motivi. Innanzitutto, in quanto “Trump tropicale”, Bolsonaro abbraccia l’ideologia del “Prima il Brasile”, incentrata sul rimettere ordine nella situazione finanziaria del paese tramite un approccio di austerità e privatizzazione a favore delle imprese. Il presidente eletto ha designato uno dei suoi principali consulenti elettorali, Paulo Guedes, alla guida del team di esperti economici. È probabile che Guedes occuperà il ruolo di “super ministro delle finanze” e sarà incaricato di dettare le politiche pro-mercato, mentre il presidente supervisionerà una più ampia agenda di governace. Guedes fa parte del gruppo di economisti dell’Università di Chicago ben apprezzati dai mercati di capitali per via delle loro politiche ortodosse in materia di debito e deficit di bilancio, quest’ultimo quasi al 10 percento del PIL brasiliano.

In secondo luogo, rispetto alle proposte avanzate in ambito energetico ed economico dagli altri candidati in lizza, le posizioni di Bolsonaro consentono di tirare un sospiro di sollievo. Sconfitto al primo turno, Ciro Gomes del Partito Democratico Laburista aveva auspicato un vero e proprio ribaltamento delle politiche di apertura del settore petrolifero brasiliano agli investimenti esteri. Fernando Haddad, avversario di Bolsonaro durante il ballottaggio, era il candidato prescelto dall’ex presidente Lula da Silva del Partito dei Lavoratori (PT) le cui politiche di intervento di stato sono accusate di avere paralizzato l’economia del paese e preparato il terreno per un enorme scandalo di corruzione e riciclaggio di denaro.

Breve anatomia di una crisi

Sotto Lula da Silva, il Brasile ha scovato le sue più abbondanti riserve di oro nero. Nel 2007, alcune miglia sotto il fondale marino, sono stati scoperti fiumi di petrolio e gas intrappolati sotto uno spesso strato di sale con il potenziale di trasformare le sorti dell’economia brasiliana. Una volta trovata questa nuova ricchezza, da Silva e il PT hanno sospeso le procedure di aggiudicazione dei blocchi petroliferi e definito nuove regole che hanno conferito allo stato una quota maggiore delle risorse pre-saline. Le nuove leggi prevedevano che la compagnia petrolifera di stato, Petrobras, fosse l’unico operatore dei blocchi petroliferi nei giacimenti pre-salini e mantenesse una quota di partecipazione di almeno il 30 percento negli investimenti in questi enormi progetti. Per stimolare l’economia nazionale, le autorità di regolamentazione hanno inoltre richiesto percentuali più elevate di contenuto locale per la manutenzione dei progetti petroliferi. Il freno imposto alla concorrenza ha dato vita a un sistema che ha incentivato corruzione e trattative sottobanco. L’Operação Lava Jato (Operazione Autolavaggio) ha rivelato una complessa rete di tangenti e collusioni per gonfiare i prezzi degli appalti di Petrobras in cambio di una quota sui profitti destinata a funzionari aziendali e politici.

La rinascita del settore

Dopo aver toccato il fondo, negli ultimi tre anni Petrobras e il settore brasiliano dell’Oil&gas, in senso lato, hanno invertito la rotta e ritrovato stabilità. Il presidente uscente Michel Temer ha promosso riforme orientate al mercato, ma tentativi di riorganizzazione del settore a seguito dello scandalo del Lava Jato erano già in corso prima che entrasse in carica. Nel 2016 la legge ha privato Petrobras del monopolio sui giacimenti pre-salini, consentendo una maggiore partecipazione e un controllo operativo da parte degli investitori esteri. Le regole in materia di contenuto locale sono state allentate, aumentando valore ed efficienza nelle catene di approvvigionamento dei progetti, ed è stato esteso fino al 2040 un regime fiscale vantaggioso per attrezzature e componenti importati destinati a progetti off-shore. Inoltre, l’Agência Nacional do Petróleo, Gás Natural e Biocombustíveis (ANP), ente regolatore del settore petrolifero brasiliano, ha definito un calendario di procedure di aggiudicazione upstream, dando al settore prevedibilità e regolarità nella pianificazione degli investimenti. Negli ultimi 13 mesi si sono tenute cinque procedure di aggiudicazione per superfici upstream, comprese tre aste per risorse pre-saline.

Gli investitori internazionali si sono mostrati entusiasti. Le cinque aste hanno concesso licenze per 68 blocchi e raccolto oltre 21 miliardi di reais (5,7 miliardi di dollari) di bonus alla firma. L’ANP prevede che ciò genererà altri 80 miliardi di dollari di investimenti e 334 miliardi di dollari di entrate fiscali. Mentre l’economia brasiliana continua a essere paralizzata da una scarsa crescita e da una produttività stagnante, il settore energetico e gli investimenti che sta attirando costituiscono una nota senza dubbio positiva. Le riforme a favore del mercato sono fondamentali per via delle abbondanti risorse in gioco. Gli enormi volumi delle riserve pre-saline del Brasile e le caratteristiche geologiche dei bacini rendono le sue risorse di petrolio e gas tra le più appetibili al mondo. Secondo la principale associazione dell’industria petrolifera brasiliana, un unico pozzo del giacimento pre-salino di Lula, il più grande del paese, produce mediamente tra i 20.000 e i 30.000 barili di petrolio al giorno (b/g), rispetto alla media di 10.000 b/g nel Golfo del Messico (Stati Uniti). Grazie alla loro significativa portata, i progetti in acque profonde del Brasile raggiungono il pareggio al di sotto dei 40 dollari al barile. Già fra i primi dieci produttori mondiali con un totale di circa 3,2 milioni di b/g, il Brasile dovrebbe raddoppiare la sua produzione entro il 2026 secondo le stime dell’agenzia responsabile delle previsioni energetiche del paese. A quel punto potrebbe essere tra i primi cinque esportatori di petrolio al mondo.

Tra istinto nazionalista e ideologia pro-mercato

L’apertura del settore energetico del Brasile è stata oggetto di discussione durante la campagna elettorale. In questo ambito, la continuità dello status quo è positiva e occorrerebbe mantenere almeno un calendario prestabilito di procedure di aggiudicazione competitive. Per il 2019 sono previste tre aste, compresa un’altra offerta di blocchi pre-salini. Anche la geopolitica gioca a favore del Brasile per continuare a cogliere i benefici degli investimenti esteri nel petrolio. Inoltre, la maggiore apertura del paese potrebbe arrivare proprio nel momento in cui il Messico, rivale per gli investimenti petroliferi in acque profonde, si sta chiudendo su se stesso. Il presidente eletto Andrés Manuel López Obrador, anch’egli populista ma di sinistra, ha infatti già sospeso le procedure di aggiudicazione di nuovi blocchi per i prossimi due anni. Il capitale industriale circola verso i mercati che oppongono minore resistenza e offrono maggiore certezza. Il mantenimento delle aperture upstream orientate al mercato collocano il Brasile nella posizione ideale per sfruttare entrambi i fronti.

Bolsonaro ha tuttavia manifestato anche tendenze interventiste, in particolare per quanto riguarda Petrobras e fin dove è disposto a spingersi per privatizzare l’azienda. La compagnia petrolifera di stato ha uno dei più alti livelli di debito dell’industria petrolifera internazionale e per estinguerlo ha avviato un massiccio piano di cessioni da 21 miliardi di dollari. Le contraddizioni tra l’istinto nazionalista e l’ideologia pro-mercato della campagna elettorale del presidente eletto emergono nella questione dell’ulteriore privatizzazione del gigante di stato o nel suo mantenimento come risorsa pubblica strategica. Nell’entourage di Bolsonaro stanno inoltre emergendo divergenze su come gestire le risorse statali. Se da una parte Guedes sostiene il libero mercato e la partecipazione del settore privato nell’industria energetica, alcune fazioni di consulenti militari raccomandano di tutelare le imprese statali per fini strategici. In conflitto tra politiche di investimento aperte e una mentalità militare nazionalista, Bolsonaro potrebbe lasciare prevalere quest’ultima, con ripercussioni negative sul settore energetico. In passato le sue posizioni sull’apertura del mercato sono state molto variabili. Da deputato, ha votato ripetutamente a favore del mantenimento del monopolio di Petrobras sulla produzione di petrolio e gas. E quando uno sciopero di camionisti per l’aumento dei prezzi del gasolio ha paralizzato l’economia brasiliana in primavera, ha preso le parti degli autotrasportatori alle prese con l’allineamento dei prezzi con quelli del mercato internazionale del carburante.L’ostilità ai mercati liberi e aperti contraddistingue anche il suo atteggiamento nei confronti della Cina.

Il presidente eletto ha in effetti criticato apertamente l’aumento degli investimenti cinesi in infrastrutture e risorse brasiliane. Le compagnie petrolifere nazionali cinesi, ad esempio, hanno potuto investire in Libra, il più grande giacimento pre-salino del Brasile, grazie a procedure di aggiudicazione competitive e trasparenti, ovvero meccanismi di libero mercato. La vendita degli attivi di Petrobras guadagnerà sempre più popolarità con l’insediamento dell’amministrazione Bolsonaro, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture del gas naturale. Durante l’amministrazione Temer, industria e governo hanno unito le proprie forze e lanciato un’iniziativa nazionale finalizzata a sviluppare un mercato nazionale del gas più competitivo e olistico. Il piano invitava alla privatizzazione e all’accesso di terzi a gasdotti, impianti di trattamento e terminal di importazione di proprietà di Petrobras, per consentire alla compagnia di concentrarsi sullo sfruttamento dei giacimenti pre-salini. Un progetto di legge nazionale è rimasto bloccato al Congresso nell’anno delle elezioni, ma è probabile che verrà rilanciato il prossimo anno con i mercati del GNL che continuano a crescere e le politiche pubbliche che favoriscono le fonti a minore contenuto di carbonio, rendendo il gas naturale sempre più appetibile.

Un processo di privatizzazione sempre più controverso

Raggiungere una maggiore privatizzazione delle quote di Petrobras potrebbe risultare più difficile. Al di là delle predisposizioni dei suoi consulenti, attuare riforme audaci richiederebbe interventi legislativi altrettanto coraggiosi e accordi politici, ma Bolsonaro non ha solidi trascorsi in questo senso: in quasi trent’anni al Congresso, ha presentato solamente due proposte poi diventate legge.

A quanto pare, il settore energetico del Brasile e gli ottimi risultati conseguiti negli ultimi anni hanno evitato una brusca inversione di tendenza con l’elezione, seppur controversa, di Bolsonaro. Le sue prese di posizione in materia di economia durante la campagna elettorale suggeriscono in effetti un approccio più ortodosso in materia di business. Per il settore energetico, ciò promette meglio delle proposte alternative presentate dagli altri candidati in lizza. Ma le tendenze nazionaliste dovrebbero frenare l’ottimismo in qualsiasi settore. Il panorama energetico attuale del Brasile, forza trainante dell’economia del paese, è favorevole. In un’elezione che ha visto trionfare il rifiuto categorico dell’establishment, l’industria energetica sarebbe ben felice di mantenere il suo status quo.

Cambiamenti climatici: una sfida alla nostra sopravvivenza che dobbiamo vincere a tutti i costi

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Nelle ultime settimane l’Italia è stata sferzata dal maltempo. Raffiche di vento, pioggia, esondazioni e frane: tutta la Penisola è stata colpita per giorni dalla furia del maltempo che ha flagellato il paese, con conseguenze molto spesso drammatiche. Ben 12 le vittime, da Nord a Sud, diverse decine i feriti.

Venti eccezionalmente forti con raffiche fino a 130 km/h e punte persino di 150 km/h sulla costa maremmana con un dato record a Follonica, ben 171 km/h rilevati. Alberi e tralicci della corrente abbattuti, mari in burrasca con mareggiate lungo tutte le coste esposte.

Uno scenario da incubo col quale sembra proprio che dovremo fare i conti sempre più spesso. Anche per questo, in queste ore, è tornata di strettissima attualità , la discussione sui cambiamenti climatici che tiene banco ormai da anni.

Avevano fatto discutere non poco le dichiarazioni di Donald Trump che aveva liquidato la questione bollandola come “una bufala” salvo poi ripensarci in un’intervista rilasciata a Lesley Stahl, reporter di 60 Minutes, noto programma televisivo in onda sulla Cbs, ammettendo che “qualcosa sta cambiando”. Capiamoci bene, non un dietrofront totale, ma toni sicuramente meno duri quando non ancora presidente degli Stati Uniti d’America, il tycoon postava sui social frasi del tipo “Bisogna smetterla con questa costosissima c…. del riscaldamento globale”.

Gli Stati Uniti, comunque, non sono più tra i paesi firmatari dell’accordo di Parigi per contrastare il cambiamento climatico, ampi settori del paese continuano a negare l’esistenza del problema tanto che alcuni politici locali e nazionali non tengono affatto in considerazione le scienze climatiche per prendere le loro decisioni.

A testimoniare però la centralità della questione, il fatto, non casuale, che quest’anno il Premio Nobel per l’Economia sia stato assegnato, tra l’altro proprio agli statunitensi, William D. Nordhaus e a Paul M. Romer, per aver integrato il cambiamento climatico nell’analisi macroeconomica di lungo periodo.

Nella motivazione si legge che “William D. Nordhaus e Paul M. Romer hanno progettato metodi per affrontare alcune delle domande più basilari e pressanti del nostro tempo su come creare una crescita economica sostenuta e sostenibile a lungo termine”.

I due economisti, tra l’altro fortemente critici con le politiche economiche, energetiche e climatiche dell’Amministrazione Trump , hanno messo al centro della loro ricerca la gestione delle risorse sempre più scarse:“La natura impone i principali vincoli alla crescita economica e la nostra conoscenza determina quanto bene affrontiamo questi vincoli”.

Il cambiamento climatico dunque è questione delicata e serissima, che assume ogni giorno di più un ruolo centrale nelle agende dei governi di tutto il mondo perché ci aspetta uno scenario a dir apocalittico dalle conseguenze disastrose: carestie, incendi, inondazioni, povertà, per non parlare del capitolo economico con danni per ben 54 miliardi di dollari.

CORSA CONTRO IL TEMPO – Un quadro che fa spavento. Ma è corsa contro il tempo. Come se non bastasse, infatti, a rendere ancora più preoccupante una situazione già ampiamente compromessa, arriva una novità tutt’altro che rassicurante. E’ scattata, ancor di più di quanto già non lo fosse, la corsa contro il tempo: per evitare questo disastro abbiamo, infatti, mezzo grado di margine in meno. La soglia di non ritorno, infatti, non è 2 gradi più dell’era preindustriale, quella fissata dagli accordi di Parigi, ma più vicina agli 1,5 gradi, di cui 1 già raggiunto.

MISURE ECCEZIONALI O SARA’ DISASTRO – E’ questo l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto del panel delle Nazioni Unite sul riscaldamento globale, che si è riunito il mese scorso in Corea del Sud. Chiamati in causa i governanti di tutto il mondo: con questo livello di emissioni il famoso grado e mezzo, infatti, verrà superato già nel 2040, e alla fine del secolo arriveremo addirittura a tre. Per scongiurare questo scenario il mondo ha bisogno di una trasformazione di velocità e portata “senza precedenti storici”.

Le città sono il perno della rivoluzione circolare

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Organismi dinamici in grado di assumere un ruolo sempre più centrale nello scacchiere globale, le città possono diventare un attore chiave, se non leader, nell’implementazione di politiche di sviluppo sostenibile e transizione energetica. Il peso socio-economico di centri urbani, città, e megalopoli è infatti in rapida espansione, basti pensare che ad oggi 4 miliardi di persone – il 54 percento della popolazione mondiale – vive in aree urbane, e che esse contribuiscono a generare l’85 percento del PIL globale. A ciò si aggiunge il fatto che nelle città viene consumato il 75 percento delle risorse totali, prodotto oltre il 50 percento di rifiuti e generato l’80 percento delle emissioni globali di gas a effetto serra.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, agli attuali tassi di urbanizzazione, nel 2050 quasi il 70 percento della popolazione mondiale vivrà in nuclei urbani. Risulta pertanto evidente come una più ampia riflessione sull’evoluzione ed implementazione di politiche a favore dell’economia circolare e dell’uso sostenibile delle risorse non possano prescindere dal coinvolgimento attivo e dalla capacità innovativa delle città. Sia per la definizione di politiche attive di mitigazione, che per l’identificazione di misure di adattamento sempre essenziali per le comunità urbane contemporanee.

Alla luce della crescente complessità che caratterizza il funzionamento e i consumi degli agglomerati urbani contemporanei, il ruolo delle città va pertanto necessariamente ripensato, tenendo in considerazione anche i drammatici effetti dei cambiamenti in atto a livello climatico-ambientale su scala globale. Basti pensare che il 90 percento delle aree urbane sono localizzate nei pressi di zone costiere, le quali sono progressivamente soggette ai devastanti effetti del cambiamento climatico, tra cui l’innalzamento dei livelli dei mari e il susseguirsi di eventi sempre più estremi.

Città al centro

Nelle città vengono consumati (nonché dismessi ed eliminati) gran parte dei beni materiali prodotti a livello globale, circola la stragrande maggioranza dei veicoli per il trasporto di merci e passeggeri, si concentrano la domanda di energia ed in particolare i consumi di elettricità, vengono realizzate le maggiori opere infrastrutturali. Al contempo, nei nuclei urbani si registrano una crescita e una concentrazione di capitale umano, finanziario e creativo impensabile in contesti come quello rurale. Una combinazione di necessità e opportunità che ha fatto e continua a fare da motore alla ricerca di soluzioni alternative per un uso più attento ed efficiente delle risorse (spesso scarse) a disposizione.

In questo modello, la società civile e gli attori privati (siano essi grandi, medie o micro-imprese) giocano un ruolo chiave a supporto degli attori istituzionali. Si va dalla promozione di modelli di business sostenibile, ai tentativi di sperimentazione sociale; tutte iniziative avviate grazie alla capacità e alla flessibilità dei governi locali, che permettono loro di introdurre policy e schemi di governance innovativi, ben più di quanto gli stessi governi nazionali – nonostante le maggiori risorse a disposizione – siano in grado di fare.

I sistemi urbani (o quantomeno una parte di essi) diventano quindi sempre più accessibili e autorigenerativi, in grado di minimizzare – o, meglio, eliminare – gli sprechi, i rifiuti e più in generale le inefficienze, generati nei diversi settori chiave della routine cittadina. Laboratori dove creare prosperità, accrescere la vivibilità e aumentare la resilienza attraverso un percorso virtuoso in grado di rompere la tradizionale relazione tra il concetto di crescita economica e l’utilizzo progressivo di risorse per alimentarla.

Riciclare, riutilizzare, valorizzare

Il riciclo e riutilizzo delle risorse prodotte, processate, consumate e scartate nel contesto urbano sono certamente il fulcro degli sforzi di città e municipalità verso un sistema economico sempre più circolare e sostenibile. La gestione dei rifiuti è una delle maggiori sfide per le autorità locali, soprattutto nei contesti di metropoli e megalopoli: nelle città vengono generati ogni anno oltre due miliardi di tonnellate di rifiuti solidi, circa 500 chilogrammi procapite, con costi immensi per le casse pubbliche (in media tra il 20 e il 50 percento dei bilanci delle città) e implicazioni drammatiche per gli abitanti e la loro salute. Una situazione che sta diventando insostenibile, e che nel giro dei prossimi decenni potrebbe portare a una crescita del 70 percento rispetto ai livelli attuali, raggiungendo i 3,4 miliardi di tonnellate.

Oltre ai necessari interventi sul lato del consumo responsabile e della lotta agli sprechi, le città sono chiamate a sviluppare strategie e processi che permettano di ridurre in termini assoluti il livello dei rifiuti e di minimizzare i costi del loro trattamento, sfruttandone il valore intrinseco residuo attraverso procedure di riciclo e riutilizzo a livello locale. E se i modelli di raccolta, separazione e stoccaggio si stanno evolvendo in modo rapido e innovativo, rimane sempre aperta la questione dell’utilizzo di questi materiali una volta accumulati, in modo da evitarne la combustione e o lo stoccaggio in discariche. Una delle applicazioni più rilevanti è l’utilizzo di rifiuti e scarti urbani a fini energetici: grazie alla digestione anaerobica, che permette la cattura di emissioni di metano, è possibile generare biogas contenente dal 55 al 70 percento di metano, il cui utilizzo (per l’uso domestico, il riscaldamento o la generazione elettrica) è sostanzialmente meno dannoso ed inquinante per le vite umane e l’ambiente rispetto alle tradizionali pratiche di combustione domestica o attraverso impianti di incenerimento di rifiuti. Al netto degli utilizzi collaterali, la riduzione in termini assoluti dei rifiuti generati a livello urbano rimane una priorità assoluta, come dimostrato dalle campagne “ZeroWaste” abbracciate da numerose realtà urbane a livello globale ed europeo. Alla luce dei dati riportati e delle drammatiche proiezioni delle Nazioni Unite, l’obiettivo di abbattimento totale della produzione dei rifiuti in abito urbano appare da un lato quanto mai ambizioso e difficile da raggiungere, ma dall’altro assolutamente necessario e urgente. A livello europeo, Lubiana è stata la prima capitale a porsi l’obiettivo “ZeroWaste”, e ad oggi ha raggiunto livelli di separazione di materiale riciclato del 67 percento e una riduzione del 59 percento della produzione di rifiuti non-riciclabili. In Italia spicca il caso della provincia di Treviso, dove le innovazioni introdotte dall’azienda Contarina le hanno garantito il titolo di realtà più efficiente a livello europeo nella gestione e trattamento dei rifiuti.

Il modello integrato di gestione dell’azienda, nel giro di quindici anni, ha permesso a una comunità urbana di oltre 500mila persone di passare dal 27 all’85 percento di materiale riciclato e di abbattere la produzione locale di rifiuti non-riciclabili da 217 a 55 chilogrammi per abitante.

Energia e sostenibilità

Quando si parla di economia circolare e sostenibilità nel contesto urbano, quello dell’energia risulta uno dei settori più rilevanti. Nonostante le città siano in termini assoluti grandissimi consumatori energetici – le aree urbane assorbono, di fatto, all’incirca due terzi della domanda globale di energia primaria – l’analisi dei livelli di intensità energetica e dei consumi pro-capite dimostrano come nei contesti metropolitani venga fatto un uso più efficiente dell’input energetico. E se elementi di natura topografica e comportamentale contribuiscono in modo sostanziale a questa situazione, elementi di economia circolare – ad esempio misure pubbliche mirate al riutilizzo di materiali di scarto – rappresentano tentativi importanti per ridurre l’impronta energetica sulla vita delle città. L’utilizzo delle acque reflue è certamente uno di questi, come dimostrato da casi virtuosi come quello delle città di Aqaba, Bangkok, Chennai e Pechino, dove il trattamento di scarti organici contribuisce a significativi risparmi (dal 45 al 100 percento) sull’utilizzo finale di energia nell’ambito del processo di depurazione, con implicazioni anche sui livelli di emissioni di CO2 registrati in questi contesti.

A ciò si aggiunge il progressivo e sempre più sofisticato ricorso a modelli di autoproduzione/autoconsumo energetico, che vengono combinati all’introduzione di tecnologie e processi smart nella fase di gestione, dispacciamento e distribuzione. Le nuove reti intelligenti permettono di gestire i flussi di elettricità integrando al meglio (e valorizzando) i nuovi pattern di generazione e di consumo creati dalla penetrazione delle rinnovabili, garantendo un uso efficace della capacità installata a disposizione, minimizzando gli sprechi di risorse e abbattendo i livelli di emissioni di gas a effetto serra. Singapore (ancora una volta), Londra e Barcellona sono tra le megalopoli più virtuose quando si tratta di sistemi smart, mentre tra le città di piccola-media taglia, spicca il caso dell’italiana Savona, al centro di un progetto pilota in grado di combinare differenti tecnologie di generazione (fotovoltaico, solare termodinamico, microturbine a gas e geotermico) ed una rete intelligente per garantire autonomia energetica all’intero compound universitario.

Mobilità sostenibile per un’economia circolare

Anche il settore della mobilità e dei trasporti rappresenta un fattore di sviluppo dell’economia circolare in ambito urbano. Nelle città, il traffico urbano comporta una serie di esternalità negative, tra cui i livelli di inquinamento acustico e l’aumento del livello di emissioni. A livello globale, l’80 percento delle aree urbane registra tassi di inquinamento dell’aria oltre i limiti fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

A ciò si aggiungono altre criticità, quali lo spreco di tempo (in media oltre 100 ore all’anno spese nel traffico congestionato a Los Angeles, poco meno a New York e Mosca) e il maggior numero di incidenti, generate da un sistema di trasporto urbano molto spesso inadeguato e poco sostenibile. Secondo alcune stime, negli Stati Uniti i costi legati alla congestione del traffico si aggirano attorno ai 300 miliardi di dollari annui. In questo settore, l’introduzione di modelli di economia circolare può apportare miglioramenti alla qualità della vita dei cittadini a tre differenti livelli. Il primo è sicuramente quello sistemico-infrastrutturale: un modello multimodale di mobilità urbana accessibile ed efficiente, in grado di integrare i servizi offerti dal trasporto pubblico alle nuove soluzioni introdotte dalla sharing-economy, incluso l’utilizzo di biciclette e noleggi multi-passeggero. Il secondo livello riguarda le fonti di energia utilizzate per alimentare il sistema di mobilità urbana: anche in questo caso, innovazioni come la produzione e l’autoconsumo da rinnovabili per i veicoli elettrici e lo sfruttamento di biogas prodotto a livello locale per i motori a combustione rappresentano opzioni necessarie per ridurre il livello di inquinamento e garantire la sostenibilità in ambito urbano. Infine, il terzo livello riguarda la dimensione industriale e la realizzazione dei veicoli dedicati al trasporto urbano: processi produttivi altamente efficienti e innovativi basati sull’uso di materiali di riciclo, non soltanto contribuirebbe ad abbattere il problema dei rifiuti, ma avrebbe un impatto significativo anche sui costi e sulla competitività dell’industria automotive.

Un’alleanza tripartita

La magnitudo delle sfide dello sviluppo sostenibile, soprattutto in ambito urbano, rende il ricorso all’economia circolare un percorso pra­ticamente obbligato. Tuttavia, in un contesto così complesso e dinamico, l’azione – per quanto lungimirante – dell’autorità pubblica, deve necessariamente incrociarsi con la spinta propulsiva delle innovazioni messe in campo dagli attori privati, nonché con la cooperazione attiva da parte della società civile e della popolazione.

Per essere non soltanto circolare, ma anche di successo, il nuovo modello economico da adottare nei contesti urbani può decollare soltanto di fronte ad uno sforzo congiunto e tripartito. La dimensione normativa, quella tecnologico-industriale e quella sociale-comportamentale devono, per forza di cose, andare a braccetto e stimolarsi reciprocamente, per far sì che i benefici dell’economia circolare possano effettivamente permeare le dinamiche del tessuto urbano e proiettarsi su scala globale.

Le Smart Car possono far risparmiare milioni di euro ogni anno: ecco il primo studio che lo dimostra

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Durante uno dei momenti di festa più importante dell’anno, le festività natalizie, gli automobilisti potrebbero concentrarsi su come arrivare a casa della propria mamma o nonna per il consueto cenone senza dover necessariamente preoccuparsi di quanto potrebbero spendere in termini di carburante. Soprattutto qualora abbiate una smart car.

Stevens Institute of Technology

In questo articolo analizzeremo il primo studio per valutare l’impatto energetico della tecnologia intelligente nelle automobili realizzata dai ricercatori dello Stevens Institute of Technology. Il risultato è impressionante: un potenziale risparmio di carburante pari a 6,2 miliardi di dollari. Questo non è un dato insignificante poiché si traduce nel tenere in tasca tra i 60 e i 266 euro ogni anno, per non parlare del risparmio aggiuntivo creato per ogni autista dal vivere un traffico più scorrevole e con meno incidenti.

L’impatto energetico sui livelli più bassi di automazione

Mentre molti studi hanno esaminato l’impatto sociale delle auto senza conducente con alti livelli di automazione, questo studio è il primo ad esaminare l’impatto energetico sui livelli più bassi di automazione e sulle singole tecnologie che sono già state introdotte nelle nostre auto. Per capire l’impatto di queste tecnologie sul risparmio di carburante, i ricercatori dello Stevens Institute of Technology hanno condotto una revisione completa della letteratura sull’impatto energetico e di sicurezza delle funzioni automatiche, fornendo dati precisi per prevedere come queste funzioni influirebbero sul consumo di carburante. Utilizzando questi dati, hanno poi analizzato i benefici e i costi associati a ciascuna tecnologia di automazione, che sono stati suddivisi in tre gruppi: sistemi di allarme (ad esempio, per gli angoli ciechi, le collisioni frontali, il rilevamento dei limiti di velocità e gli avvisi sul traffico), i sistemi di controllo (ad esempio, per il controllo adattivo della velocità di crociera, il rilevamento delle collisioni, la frenata attiva e il controllo adattivo cooperativo della crociera) ed i sistemi informativi (ad esempio, il sistema di aiuto al parcheggio e la guida dinamica del percorso).

La speranza è migliorare i trasporti futuri

Nel loro lavoro, recentemente inserito anche nel Transportation Research Record, i ricercatori mostrano come i conducenti di veicoli automatici di basso livello, le cosiddette smart car (quelli dotati di tutte le tecnologie considerate in questo studio), potrebbero ridurre il consumo di carburante da 27 a 119 galloni all’anno per ogni veicolo (da 102 a 450 circa litri). Questo risparmio è pari al 6-23 per cento del consumo medio di carburante negli Stati Uniti e potrebbe far risparmiare ad ogni proprietario del veicolo fino a 60-266 euro, come menzionato sopra. Durante il fine settimana del Ringraziamento, l’agenzia dei trasporti statunitense aveva già stimato che 54,3 milioni di americani avrebbero progettando un viaggio in auto, un aumento del 4,8% rispetto all’anno scorso. “Sapere quando e dove avverrà la congestione può aiutare i conducenti ad evitare lo stress di stare seduti nel traffico”, ha detto un ricercatore. “Quello che abbiamo fatto è mettere una serie di costi di risparmio di carburante che vengono prodotti con tecnologie che ci aiutano a fare scelte più intelligenti sulla strada. Speriamo di utilizzare queste informazioni per migliorare i trasporti futuri e, di conseguenza, migliorare l’ambiente, salvare vite umane e mantenere più pulita l’aria che respiriamo”.

La Norvegia punta sul gas dell’Artico. La sfida con la Russia e la questione ambientale

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Quella del 2018 è stata una buona annata per la Norvegia: non solo la crescita economica continua a superare le aspettative iniziali, ma è probabile che tale andamento prosegua anche nel prossimo biennio. In seguito al repentino calo dei prezzi petroliferi nel 2014, la facoltà del paese di accedere a gas naturale e petrolio è ridiventata un fattore cruciale della crescita economica norvegese.

In futuro, tuttavia, investire in questo settore non sarà così semplice. Le riserve petrolifere più ingenti della Norvegia nel mare del Nord stanno per esaurirsi e il futuro della prospezione di petrolio e di gas nel mare di Barents si conferma tutt’altro che garantita. Molti norvegesi, inoltre, hanno l’impressione che il paese stia cercando di avere la botte piena (di combustibili fossili) e la moglie ubriaca.

Attualmente, la Norvegia è il terzo esportatore mondiale di gas naturale dopo Russia e Qatar. Il paese scandinavo soddisfa circa il 25 percento della domanda di gas dell’Unione europea e il 2 percento della domanda petrolifera mondiale. Nel 2017, la Norvegia ha esportato 116 miliardi di metri cubi di gas naturale tramite gasdotti collegati a terminali situati in Belgio, Francia, Germania e Regno Unito, superando di quasi il 7 percento il record dell’anno precedente. Eppure, molti degli attuali giacimenti petroliferi della Norvegia si stanno prosciugando, e secondo qualche esperto la quota norvegese del mercato petrolifero globale calerà all’1 percento entro il 2020. Tuttavia, non è detto che l’esaurimento dei giacimenti petroliferi debba destare particolare preoccupazione. L’Agenzia internazionale dell’energia prevede infatti che la domanda globale di gas crescerà a un ritmo medio dell’1,6 percento annuo, mentre il gas naturale liquefatto (GNL) conquisterà gradualmente una quota maggiore nel commercio globale di gas. L’Artide norvegese, pertanto, resta il luogo su cui puntare per gli investimenti futuri, poiché si ritiene che disponga delle risorse disponibili necessarie a soddisfare il futuro aumento dei consumi globali.

Una nuova tornata di assegnazioni artiche

Secondo la Direzione norvegese del petrolio, la parte norvegese del mare di Barents ospita i due terzi delle risorse inesplorate del paese, vale a dire 4 miliardi di metri cubi standard di barili equivalenti di petrolio. Un simile potenziale attrae sviluppo: lo scorso 9 maggio, il ministero norvegese del Petrolio e dell’energia ha annunciato di aver aumentato di 103 unità il numero di blocchi assegnati nell’ultima tornata di aggiudicazione delle licenze petrolifere, di cui 47 nel mare di Norvegia e 56 al largo della costa della Norvegia del Nord, nel mare di Barents. Queste assegnazioni nelle aree predefinite (APA) comprendono aree mature della piattaforma continentale norvegese (ovvero, quelle ben conosciute dal punto di vista geologico e già dotate di buone infrastrutture) e sono annunciate su base annuale.

Il termine per candidarsi alla procedura di aggiudicazione delle licenze scadeva lo scorso 4 settembre, e le società petrolifere ad aver presentato un’offerta sono state in tutto 38. Tra i richiedenti c’erano tanto società già presenti quanto società non ancora attive sulla piattaforma norvegese, tra cui Equinor (nuova denominazione più politicamente corretta dell’ex Statoil), Aker BP, Lundin, Eni e altre grosse società internazionali come ConocoPhillips, Shell e Total. Al termine del periodo di candidatura, le società avevano chiesto licenze per un totale di 209.820 kmq, rispetto ai 139.942 kmq della tornata di assegnazioni nelle aree predefinite dell’anno precedente. Le tornate di autorizzazioni numerate hanno concesso licenze di produzione sulle zone di confine della piattaforma continentale. Si tratta di province geologiche che finora sono state sottoposte ad attività di prospezione minori. Oltre ad aver determinato l’apertura della più vasta superficie in acri nell’estremo nord a scopo petrolifero, ciò ha avvicinato all’isola settentrionale delle Svalbard le potenziali operazioni di prospezione e sfruttamento petrolifero più di quanto fosse mai accaduto in passato.

Nuovi sfruttamenti nel Mare del Nord

Il successo dell’Oil&Gas nell’Artide norvegese dipende dallo sviluppo di nuove aree e dal giacimento petrolifero Johan Castberg (già Skrugard), che è stato scoperto nel 2011 e si trova a circa 100 km a nord del giacimento di gas di Snøhvit attualmente in attività. Il parlamento norvegese ha approvato il progetto di sfruttare e gestire il giacimento solamente lo scorso giugno, dopo un lungo processo di riprogettazione e calcoli di convenienza economica che ha quasi dimezzato le spese di capitale iniziali al fine di rendere il progetto remunerativo sotto i 35 dollari al barile. A oggi si prevede che Castberg costerà 49 miliardi di corone norvegesi (circa 6 miliardi di dollari) e avrà un orizzonte produttivo di 30 anni, mentre la prima estrazione petrolifera dovrebbe avere luogo nel 2022. Si stima che le risorse recuperabili del giacimento Johan Castberg si aggirino tra i 450 e i 650 milioni di barili equivalenti di petrolio. Per fare un paragone, si stima che l’altro “Johan” importante in prospettiva (il Johan Sverdrup nel mare del Nord, a circa 140 km a ovest di Stavanger) detenga risorse comprese tra 2,1 e 3,1 miliardi di barili equivalenti di petrolio e inizi la produzione verso la fine del 2019.

Oltre a essere considerato di importanza cruciale per la ripresa dell’industria petrolifera norvegese, si prevede che il giacimento di Castberg rilanci tutta l’economia nella Norvegia del Nord e abbia ricadute positive per altri progetti e i relativi fornitori. Nel complesso, dal momento che preannunciano di creare 3.000 nuovi posti di lavoro nei cluster petroliferi già consolidati nel nord nel corso dei prossimi dieci anni, i giacimenti di Johan Castberg, Alta/Gotha e Wisting (tutti situati nel mare di Barents) sono fattori decisivi per il futuro della regione.

Un futuro all’ombra del gas

Tuttavia, questa nuova corsa al petrolio e al gas del nord non è stata senza ostacoli. La riapertura delle vie dell’energia ha suscitato la delusione dei gruppi ambientalisti e di alcuni partiti politici che hanno sottolineato essenzialmente il “paradosso norvegese” di essere un “paese verde con petrolio e gas”, evidenziando una contraddizione che non esiste solo in Norvegia: come essere e agire da leader nella lotta al cambiamento climatico se si incrementano i livelli globali di carbon footprint? Una contraddizione che rimarrà irrisolta per gli anni a venire. In conclusione, ai cittadini norvegesi potrebbe non importare che i maggiori giacimenti petroliferi si esauriscano, purché resti garantita la solidità del fondo sovrano norvegese (un fondo da mille miliardi di dollari che reinveste per il futuro le entrate fiscali da Oil&Gas).

In futuro, l’industria petrolifera potrebbe tentare di puntare maggiormente sul gas, sull’Artide e sugli sviluppi in scala ridotta. Eppure, considerato che le previsioni economiche per il 2018 sono approvate, la richiesta di investimenti più consistenti nell’Oil&Gas continuerà. Perché tutte le richieste siano a basso impatto ambientale, la Norvegia non può negare l’importanza della propria industria del petrolio e del gas.


Quanto ha pesato il dominio energetico nel trasformare gli USA in una superpotenza?

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All’inizio della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti producevano oltre il 60 percento del petrolio globale. Il settore militare e l’economia del Giappone e della Germania dipendevano dalle importazioni di petrolio americano. La capacità statunitense di rifornire i propri alleati e di limitare l’accesso a questa risorsa dei giapponesi e dei tedeschi sono stati fondamentali per vincere la guerra.

Gli Stati Uniti dominavano il settore energetico. Trent’anni dopo, negli anni ’70, gli USA erano ancora il maggiore produttore mondiale di petrolio, ma la produzione stava rallentando e non erano più un fornitore globale. Le loro importazioni erano in crescita. Il dominio statunitense nel settore energetico era ormai un ricordo e l’embargo del petrolio arabo del 1973/74 fu un enorme shock per gli americani e la loro economia.

Gli Stati Uniti erano passati da una posizione di dominio energetico a una di debolezza. Da quel momento tutti i presidenti americani hanno sostenuto il concetto di “indipendenza energetica” e si sono impegnati a porre fine alla dipendenza del paese dalle importazioni provenienti da regioni instabili come il Medio Oriente. Nel corso degli anni sono stati messi in atto diversi programmi che miravano a ridurre la domanda di petrolio e ad aumentare la produzione anche di forme di energia alternative. Tuttavia la produzione interna di petrolio ha proseguito il suo declino mentre le importazioni hanno continuato a crescere fino alla metà del primo decennio del nuovo millennio.

Frattanto anche le importazioni statunitensi di gas naturale registravano una crescita sostenuta e si costruivano grandi terminali di gas naturale liquefatto (LNG) lungo le coste per procedere all’importazione di LNG dal Qatar e da altri paesi esportatori. La sicurezza energetica statunitense appariva compromessa e la crescente dipendenza dalle importazioni fece nascere l’idea di un’America in declino. Nel 2005 le importazioni coprivano oltre il 30 percento del fabbisogno energetico degli Stati Uniti, la quota più alta di sempre. La debolezza energetica era divenuta quasi impotenza. Importanti progressi tecnologici nella produzione di petrolio e gas, specialmente nel campo della fratturazione idraulica e della perforazione orizzontale, hanno portato a un’inversione di tendenza. Iniziata solo poco più di dieci anni fa, la produzione di gas naturale dai giacimenti di shale presenti tra gli altri in Texas e Pennsylvania è cresciuta, seguita poco dopo da un marcato aumento dell’offerta di petrolio proveniente da giacimenti di tight oil del Nord Dakota e del Texas. Insieme a una domanda contenuta dalle misure di efficientamento e dalle norme più restrittive circa i consumi dei veicoli, ciò ha portato a una riduzione delle importazioni statunitensi nel settore energetico facendo sperare che il Sacro Graal dell’indipendenza energetica potesse essere raggiunto.

Entra in scena Donald Trump

Perciò quando il candidato alla presidenza Donald Trump è entrato in scena nel 2015 la situazione energetica interna era molto migliorata, e con essa la posizione strategica degli Stati Uniti. I policy maker di Washington discutevano su come sfruttare la nuova abbondanza energetica per sostenere la politica estera del paese e gli obiettivi di sicurezza nazionale. Le compagnie che avevano costruito impianti per l’importazione di GNL volevano trasformarli in infrastrutture per l’esportazione del gas naturale, abbondante e a basso prezzo.

La situazione geopolitica in ambito energetico stava cambiando e i paesi che fino ad allora erano stati i maggiori esportatori verso gli Stati Uniti rivolgevano la loro attenzione verso altri mercati. La nostra influenza in campo energetico stava tornando. Il passaggio dalla vulnerabilità energetica all’abbondanza è avvenuto principalmente durante la presidenza Obama. Per quanto quest’ultimo sia conosciuto soprattutto per gli sforzi profusi contro i cambiamenti climatici, per il Clean Power Plan per la riduzione delle emissioni nel settore dell’energia elettrica, il blocco dell’oleodotto Keystone XL che avrebbe dovuto portare maggiori quantità di petrolio canadese da sabbie bituminose negli Stati Uniti e l’imposizione di norme più rigide per le emissioni di metano, Obama ha anche sostenuto lo sviluppo del settore Oil&gas interno. Ha firmato una legge per porre fine al bando sulle esportazioni di petrolio grezzo statunitense risalente agli anni ’70 e ha semplificato il processo di approvazione per le esportazioni di LNG.

Nuove aree onshore e offshore, tra cui la regione artica, sono state aperte alle trivellazioni. Il disastro della BP Deepwater Horizon nel golfo del Messico ha portato all’adozione di misure di sicurezza più stringenti, ma l’obiettivo di Obama non era la drastica riduzione dell’attività di perforazione offshore. La strategia energetica omnicomprensiva prevedeva anche un forte supporto alle energie rinnovabili. Obama ha lasciato una struttura solida a sostegno di molte forme di produzione energetica del paese, incluso il settore degli idrocarburi. Malgrado ciò, da candidato, Trump accusò Obama di bloccare la produzione interna di petrolio e di gas. Nel maggio del 2016 promise di sviluppare un piano energetico “America First” e dichiarò che il “dominio energetico” sarebbe divenuto un obiettivo strategico della politica economica ed estera del paese. Pur non spiegando cosa intendesse per dominio energetico, Trump affermò che le sue proposte di modifica delle norme vigenti e per il ritiro dall’Accordo sul clima di Parigi si prefiggevano di incrementare la produzione di combustibili fossili in modo che il paese potesse “diventare e rimanere completamente svincolato dalla necessità di importare energia dal cartello dell’OPEC o da nazioni ostili ai nostri interessi”. Mettere fine alla presunta “guerra al carbone” dell’amministrazione Obama era un elemento chiave del suo programma. Oltre a promuovere la sicurezza energetica, Trump sosteneva che il pieno sfruttamento del potenziale energetico americano avrebbe portato migliaia di miliardi di nuova ricchezza e milioni di nuovi posti di lavoro.

Ritorno a una posizione di dominio?

Dopo il primo riferimento, Trump non ha più parlato della dominanza energetica in termini programmatici fino al giugno 2017, durante la settimana dell’Energia promossa dalla sua amministrazione. In quell’occasione parlò di ulteriori passi per incrementare la produzione e le esportazioni statunitensi di combustibili fossili, aggiungendo anche la volontà di tornare a promuovere l’energia nucleare. Alti funzionari scrissero che il dominio energetico identificava “una nazione autosufficiente, sicura e indenne dalle turbolenze geopolitiche indotte dai paesi che usano l’energia come arma economica”. Ciò significava anche rafforzare la leadership e l’influenza statunitensi e condividere la nostra ricchezza energetica grazie alle esportazioni. Il programma per il dominio energetico è illustrato in modo completo nel documento sulla strategia presidenziale per la sicurezza nazionale del dicembre 2017, in cui si sottolinea “la posizione centrale dell’America nel sistema energetico globale in quanto tra i principali produttori, consumatori e innovatori” e si sostiene che gli USA “aiuteranno gli alleati e i partner a opporsi con maggiore resilienza a coloro che usano l’energia come strumento di coercizione”.

L’ordine energetico globale non avrebbe più dovuto essere imperniato sull’OPEC e sulla Russia, riportando al centro il vero leader. A questo scopo l’amministrazione Trump definiva le azioni prioritarie, tra le quali la riduzione delle barriere allo sviluppo del settore energetico, la promozione delle esportazioni, la protezione delle infrastrutture energetiche, la garanzia dell’accesso all’energia e la promozione del primato tecnologico americano. Il clima è menzionato in termini difensivi: gli USA devono mantenere una posizione di leadership sul clima per opporsi a “un programma energetico anti-crescita dannoso per gli interessi economici e di sicurezza energetica statunitensi”. Il programma per il dominio energetico è molto simile alla vecchia agenda per l’indipendenza energetica, a cui si aggiungono le esportazioni.

Un giudizio sul programma energetico

Quali risultati ha riportato l’amministrazione Trump in campo energetico? Evitando di discutere se la “dominanza” sia stata effettivamente raggiunta (qualunque cosa essa sia, non si tornerà mai al periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale), il presidente ha portato avanti i suoi impegni. Nuovi territori e aree offshore sono stati aperti alla produzione energetica, è in atto un processo per l’eliminazione di molte norme ambientali, la sostituzione del Clean Power Plan di Obama e l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo sul clima di Parigi, inoltre sono stati approvati alcuni progetti per la realizzazione di infrastrutture per il settore energetico fermati dall’amministrazione Obama.

La produzione di petrolio e di gas continua a crescere. Gli Stati Uniti, che hanno sorpassato la Russia divenendo il maggiore produttore di gas naturale nel 2009, sono ora un esportatore netto di gas naturale ed entro il 2020 saranno il terzo maggiore esportatore di LNG del mondo, e potrebbero diventare il primo entro la metà del prossimo decennio. Il paese è tornato a essere il maggiore produttore mondiale di petrolio e sarà in grado di coprire ben più della metà della crescente domanda globale sia quest’anno che il prossimo, mettendo pressione sull’OPEC e sulla Russia affinché riducano la produzione per equilibrare il mercato. Molti analisti prevedono che gli USA raggiungeranno l’autosufficienza petrolifera entro i primi anni del prossimo decennio. Ciò non li renderà immuni dalla volatilità dei prezzi del petrolio, ma forse il paese sta per tornare a essere la potenza energetica dominante.

Tuttavia in che misura questa supremazia può essere attribuita all’amministrazione Trump? È difficile sostenere che i provvedimenti adottati nei suoi due anni di presidenza, ivi inclusi gli sgravi fiscali previsti dal Tax Cuts and Jobs Act del 2017, abbiano per il momento avuto un grande impatto sulla produzione energetica statunitense, sebbene ne possano avere in futuro. Molte delle misure annunciate sono state bloccate da procedimenti giudiziari, altre devono affrontare lunghe procedure prima di entrare in vigore. I tentativi di annullare le norme sui consumi dei veicoli potrebbero danneggiare il programma per il dominio energetico portando a un incremento dei consumi interni e quindi a una riduzione delle esportazioni. Gli sforzi dell’amministrazione Trump a sostegno dell’industria carboniera e nucleare non hanno finora avuto successo. Le proposte presentate dal segretario per l’Energia Perry per favorire l’energia da carbone e quella nucleare così da garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di energia elettrica sono state respinte dagli organismi di regolamentazione. I reattori nucleari e le centrali elettriche a carbone continuano a chiudere, vittime dell’abbondanza di gas naturale a basso costo e di energia solare ed eolica sempre più a buon mercato. Il consumo di carbone ha raggiunto il livello più basso dal 1979 e sta ancora diminuendo. La persistente crescita della produzione di petrolio e di gas statunitensi è dovuta principalmente a condizioni economiche e di mercato favorevoli.

Si può sostenere che le politiche perseguite dall’amministrazione Trump abbiano stimolato la crescita economica e quindi anche l’industria energetica, ma in realtà non hanno portato a grandi miglioramenti rispetto alla tendenza in atto durante la presidenza Obama. Allo stesso tempo l’agenda commerciale dell’amministrazione Trump potrebbe rappresentare un ostacolo, se non qualcosa di più, per l’economia statunitense e per quella globale, con un impatto negativo sulla rinascita energetica del paese. I dazi voluti da Trump sulle importazioni di acciaio e alluminio e il contingentamento delle importazioni vanno a tutto svantaggio del programma di dominio energetico. I dazi provocano un significativo aumento dei costi di oleodotti, terminali di LNG e altre infrastrutture dell’industria energetica. Alcuni componenti in acciaio fondamentali non sono prodotti negli Stati Uniti perciò il contingentamento delle importazioni potrebbe comportare ritardi significativi nella realizzazione dei progetti.

La minaccia dei dazi

Le esportazioni e la supremazia statunitensi in campo energetico sono minacciate a loro volta dai dazi e da altre restrizioni imposte dai partner commerciali. Con la Cina che presto sostituirà il Giappone come maggiore importatore di LNG, i contratti di lungo periodo con importatori cinesi di gas naturale e gli investimenti direttidella potenza asiatica potrebbero diventare fondamentali per l’assunzione delle decisioni finali d’investimento relative a progetti sull’LNG. La Cina può utilizzare la situazione per fare pressioni nell’ambito delle trattative commerciali con gli Stati Uniti. Le minacce di Washington contro la Cina e altri partner commerciali potrebbero favorire gli acquisti di energia statunitense, ma anche incrementare la percezione del rischio di fare affidamento sulle importazioni americane. Perciò nel lungo periodo l’impatto positivo della semplificazione degli obblighi normativi e degli sgravi fiscali sulle prospettive energetiche statunitensi potrebbe essere controbilanciato dall’incertezza politica e dei mercati dovuta alle tensioni commerciali.

Sul fronte diplomatico, il presidente Trump ha sostenuto a gran voce il dominio statunitense, dando al tempo stesso una chiara dimostrazione del perché il paese non ha raggiunto la supremazia energetica. Le sue richieste all’Arabia Saudita e all’OPEC di aumentare la produzione sembrano aver ottenuto l’effetto desiderato all’inizio dell’anno. Al tempo stesso, tuttavia, il comportamento di Trump evidenzia che gli Stati Uniti sono ancora ben lontani dall’esercitare il dominio in campo energetico e che solo i sauditi e pochi altri all’interno dell’OPEC controllano le capacità produttive inutilizzate in grado di fare rapidamente la differenza per gli equilibri del mercato e di influenzare i prezzi. Perciò sono questi paesi a detenere il vero potere nei mercati petroliferi. Il dominio rivendicato dal presidente Trump con i suoi ordini all’OPEC è più di natura geopolitica e basato su forze di varia natura, compresa quella militare, e su interessi comuni (per esempio l’opposizione all’influenza iraniana) che in grado di produrre l’effetto desiderato sulla produzione e sui prezzi del petrolio grazie alla supremazia energetica degli Stati Uniti. Se gli USA occupassero veramente una posizione di leadership non avrebbero bisogno dei sauditi e dell’OPEC.

Inoltre, il presidente Trump non controlla l’industria petrolifera e del gas statunitense, a differenza del presidente russo Putin, che può dirigere le compagnie russe, e del re saudita, che ha l’ultima parola sulle attività della compagnia petrolifera nazionale Aramco. Un rischio per il programma per il dominio energetico del presidente Trump è costituito dalla cancellazione indiscriminata delle norme per la sicurezza ambientale, e quindi anche di quelle sostenute da molte compagnie energetiche. I provvedimenti che l’amministrazione Trump sta proponendo o portando avanti per rendere meno stringenti le normative richiedono un’attenta analisi onde evitare che abbiano un impatto negativo sulla licenza sociale ad operare dell’intera industria, compromettendo così la produzione energetica. Un chiaro difetto dell’agenda presidenziale è il fatto che essa si concentri esclusivamente sull’incremento della produzione energetica interna, pur non essendo chiaro se il presidente può fare molto perché ciò accada, oltre a quello che le forze di mercato e il progresso tecnologico stanno già facendo. Rinunciare alla leadership in campi come il clima e le energie pulite minaccia di compromettere la forza energetica futura del paese. La Cina sta dominando nei settori dei pannelli solari fotovoltaici e delle turbine eoliche e punta chiaramente a controllare i mercati delle batterie e dei veicoli elettrici, mentre l’amministrazione Trump sta pensando di eliminare gli incentivi per i veicoli elettrici e le energie rinnovabili.

Gli Stati Uniti hanno forse intenzione di dipendere dalla Cina per le tecnologie energetiche fondamentali del futuro come ora dipendono dall’OPEC? Se vogliamo veramente imporre la nostra supremazia dobbiamo diventare leader anche nel campo delle energie pulite. In definitiva, in poco più di dieci anni gli Stati Uniti sono passati dal ruolo di superpotenza priva di sicurezze in campo energetico a quello di leader nel settore. Il dominio assoluto potrà forse essere oltre le nostre possibilità, ma l’energia è tornata a essere un asset strategico per il paese. Rimanere a questo livello, tuttavia, richiede una prospettiva e una visione più ampie rispetto al concentrarsi esclusivamente sulla produzione di combustibili fossili.

Energia e rapporti di forza: lo scontro USA-Russia si gioca in Europa

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Negli ultimi decenni la dipendenza energetica dell’Europa dal gas russo ha rappresentato un motivo di preoccupazione, nonché un driver di politica estera, per le diverse amministrazioni insediatesi alla Casa Bianca. Basta tornare indietro di qualche lustro con la memoria, per comprenderne le radici e rivisitare le prime mosse intraprese da Washington per arginare il potere energetico di Mosca nei confronti degli alleati europei.

La corsa alle risorse del Caspio – iniziata negli anni ’90 in concomitanza con il crollo dell’Unione Sovietica e materializzatasi con la firma del “Contratto del secolo” e la realizzazione dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan – è solo il primo tassello di una saga che ha visto le due ex-superpotenze affrontarsi, talvolta via proxy, sullo scacchiere energetico del continente europeo. Negli ultimi anni, grazie alla rivoluzione shale iniziata a metà degli anni 2008, le pressioni americane si sono intensificate fino a raggiungere il picco con la crisi scoppiata in Ucraina nel 2013/14, e le promesse dell’amministrazione Obama di nuovi ingenti volumi di gas naturale liquefatto a stelle e strisce per ridurre la dipendenza degli alleati da Mosca.

L’ombra energetica americana in Europa

Ma l’attenzione degli Stati Uniti nei confronti della dipendenza europea dal gas russo è antecedente al “boom” della rivoluzione shale e dei possibili interessi di Washington a esportare il proprio LNG verso il vecchio continente. Già nella prima metà degli anni 2000, con l’emergere delle preoccupazioni europee in materia di sicurezza degli approvvigionamenti, l’azione diplomatica di Washington si è concentrata sulla diversificazione degli approvvigionamenti di gas in Europa attraverso la realizzazione di rotte alternative rispetto alle forniture provenienti da Mosca.

La creazione, nel 2008, della figura dello U.S. Special Envoys for Eurasian Energy – affidata in prima battuta a C. Boyden Gray – e l’attivismo diplomatico del suo successore Amb. Richard Morningstar sono una chiara testimonianza dell’importanza del dossier per Washington. Un’importanza riconosciuta a livello bipartisan, va sottolineato, tanto dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush a quella democratica di Barack Obama, fino ad arrivare all’approccio odierno – seppur ambivalente nei confronti di Mosca – di Donald Trump. Un’azione, quella di Washington, che agli albori si è focalizzata soprattutto sulla promozione del Corridoio sud – network di gasdotti immaginato dalla Commissione europea per trasportare in Europa volumi di gas provenienti dal bacino del Caspio e dall’Asia Centrale – e sul supporto alla realizzazione del progetto Nabucco, miseramente fallito nel 2013 e oggi sostituito dal fratello minore (in termini di capacità di trasporto) TAP, a favore del quale gli ultimi due inquilini della Casa Bianca hanno investito un sostanziale capitale politico e diplomatico.

Gli incoraggiamenti di Donald Trump al Primo Ministro italiano Giuseppe Conte – in visita a Washington lo scorso luglio – per una rapida realizzazione della condotta trans-adriatica, sono solo l’ultima manifestazione dell’interesse americano verso l’apertura della rotta di approvvigionamento sud-orientale. Sempre guardando a sud-est dello scacchiere europeo, vanno evidenziati i tentativi di Washington di sbloccare lo stallo energetico nel Mediterraneo orientale. Con la scoperta, nel 2015, del mega-giacimento egiziano di Zohr – andato ad aggiungersi ad altre scoperte minori effettuate nei fondali israeliani e ciprioti – si è di fatto creata una nuova regione energetica ai confini (in realtà per una parte, Cipro, direttamente all’interno) del territorio europeo.

Il valore strategico del Mediterraneo orientale per gli obiettivi europei di diversificazione da Mosca non è ovviamente sfuggita a Washington che, forte anche dei legami con Israele e della presenza di major petrolifere a stelle e strisce nella regione, si è spesa in modo concreto per favorire la cooperazione tra i diversi attori coinvolti nella partita. In questo contesto, va sottolineata l’azione costante di Amos J. Hochstein, nominato da Obama U.S. Special Envoys for International Energy Affairs, con un chiaro mandato operativo nello scacchiere dell’East Med.

Scontro frontale sul piano geopolitico

Se le pressioni diplomatiche americane su questi due fronti hanno sollevato poco rumore a livello mediatico, l’opposizione di Washington nei confronti del progetto Nord Stream 2 ha ottenuto un’eco decisamente più significativa. Nel caso del Corridoio sud e del Mediterraneo orientale, infatti, le relazioni energetiche tra Mosca e i paesi europei vengono toccate soltanto in modo indiretto (e in un certo senso marginale) dall’azione americana, mentre la manifesta ostilità degli Stati Uniti verso Nord Stream 2 ha portato lo scontro con la Russia a un livello frontale. Le pressioni americane sul progetto, in particolare, si sono intensificate quando le due ex-superpotenze sono andate in rotta di collisione a causa della crisi in Ucraina e l’annessione della Crimea: il Presidente Obama in persona, il suo vice Joe Biden e lo stesso Hochstein si sono schierati apertamente contro la realizzazione del gasdotto proponendo all’Europa un rafforzamento degli interscambi energetici attraverso l’oceano Atlantico.

Con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, la retorica americana nei confronti di Mosca ha assunto sfumature ambivalenti. Ai tentativi di avvicinamento al Cremlino da parte del tycoon fanno infatti il paio le ferventi posizioni bipartisan contro la Russia all’interno del Congresso, che dopo l’esito delle elezioni di midterm e il ritorno sotto controllo democratico della Camera dei Rappresentanti (nel suo primo mese di lavori, la nuova camera bassa ha prontamente adottato una risoluzione contro la condotta russo-tedesca) potrebbe inasprire le azioni nei confronti di Mosca. La centralità del dossier Nord Stream 2 anche per l’amministrazione repubblicana era stata comunque confermata al summit NATO dello scorso luglio, durante il quale – con la sua solita retorica “colorita” – il Presidente Trump aveva sottolineato la pericolosa dipendenza della Germania dalle forniture di gas russo. Criticando la scelta di Berlino di procedere con il progetto, e mettendone in luce le implicazioni negative per alleati chiave della Casa Bianca in Europa centro-orientale quali Ucraina e Polonia, Trump ha mandato un chiaro messaggio ai partner europei. Seppur evitando una deflagrazione frontale dello scontro con Mosca, il Presidente ha messo sul tavolo una serie di incentivi all’import di LNG americano in Europa, in modo da aprire nuovi mercati per i produttori a stelle e strisce e al contempo limitare la penetrazione energetica russa nel vecchio continente.

In quest’ottica, la decisione di Berlino di realizzare un terminal di rigassificazione sulle proprie coste potrebbe rappresentare un gesto di distensione – come fatto intendere dal Ministro tedesco dell’Economia Altmeier – nei confronti degli Stati Uniti, a testimonianza della volontà di Berlino di aprire il proprio mercato all’LNG americano, pur non rinunciando al raddoppio della condotta baltica. Un esito che tutto sommato, a Trump potrebbe stare bene.

Le prospettive europee

Quando si parla del ruolo del gas russo in Europa, tuttavia, va chiarito che l’UE non ha un approccio univoco in materia. Anzi. Differenti profili energetici, e differenti sensibilità e percezioni nei confronti del potere esercitato da Mosca, determinano una molteplicità di approcci nazionali e regionali nei confronti della Russia difficilmente inquadrabili in un unico schema relazionale. Da un lato c’è, ad esempio, la Germania, target principale degli attacchi di Trump, che pur essendo fortemente dipendente dalle forniture di gas russo è al contempo il principale mercato di destinazione (e la maggiore fonte di revenues) per il Cremlino. In virtù della forte interdipendenza energetica e, di fatto economico-finanziaria, con la Russia, Berlino cerca di consolidare il proprio ruolo di attore energetico dominante in Europa e di interlocutore privilegiato di Mosca.

La realizzazione di Nord Stream 2 è un elemento strumentale per questa strategia tedesca di soft-power, in grado di offrire alla Germania una posizione di monopsonio su tutti i flussi di gas russi diretti in Europa (ad eccezione di quelli destinati a Polonia, Finlandia e baltici) che garantirebbe ai tedeschi non soltanto un massiccio capitale di natura geopolitica sul continente, ma anche (e soprattutto) una leva sul piano della competitività economico-industriale che le autorità tedesche non intendono farsi scappare. E che, a Washington, non possono di certo apprezzare. Un approccio intermedio è quello adottato dall’Italia, la cui storica partnership energetica con la Russia e la forte dipendenza nel settore gas non lasciano spazio ad atteggiamenti tolleranti nei confronti di Nord Stream 2. La realizzazione della condotta, in concomitanza con la potenziale sospensione della rotta ucraina post 2019, decreterebbe la totale dipendenza italiana dal gas in transito dalla Germania, con tutte le implicazioni commerciali e industriali del caso. Un esito ovviamente non gradito a Roma, che confida (anche) nell’azione del partner transatlantico per affossare Nord Stream 2 e i piani tedeschi di egemonia energetica in Europa, e per mantenere quantomeno in vita il transito di gas attraverso l’Ucraina.

Sull’altro fronte, invece, si trovano i paesi dell’Europa centro-orientale, capitanati dalla Polonia. Da un lato, il blocco centro-orientale teme il riemergere di un accerchiamento russo-tedesco di novecentesca memoria, seppur declinato sul piano energetico; dall’altro, vuole scongiurare le perdite finanziarie determinate dall’eventuale sospensione della rotta ucraina e della mancata riscossione delle tariffe di transito sul gas diretto verso ovest. Questi paesi, desiderosi di affrancarsi dalle importazioni di gas da Mosca – spesso unico fornitore per i loro mercati nazionali – hanno un chiaro interesse verso l’LNG americano come elemento di diversificazione e flessibilità degli approvvigionamenti. La realizzazione dei terminal di rigassificazione nel Baltico, al largo delle coste polacche, lituane e finlandesi, fanno esattamente da contraltare alla posa delle nuove condotte di Nord Stream 2 nello stesso bacino.

Ma se dal punto di vista geopolitico, la costruzione dei terminal LNG di Klaipeda e Tornio (pronti ad essere riforniti di gas americano) rappresenta un tassello importante per gli interessi di Washington nel vecchio continente poiché effettivamente in grado di ridurre la dipendenza energetica dell’Europa centro-orientale da Mosca, dal punto di vista commerciale/industriale – tanto cara all’amministrazione Trump – le implicazioni positive per gli Stati Uniti sono decisamente più limitate. Si tratta infatti di capacità e di mercati di dimensioni ridotte: poco più di 25 Mmc di consumi annui dalla Finlandia all’Ungheria, con una capacità di import via nave di poco superiore ai 10 Mmc. Niente a che vedere con il mercato da oltre 110 Mmc che Mosca attualmente detiene in Europa (Germania in primis, 54 Mmc) e che è pronta a consolidare con il raddoppio della capacità di Nord Stream (oggi pari a 55 Mmc). A questi limiti strutturali si devono aggiungere le contromosse russe, prime fra tutte la rinegoziazione al ribasso dei contratti di fornitura con i partner regionali – i prezzi in Lituania scesi del 20 percento – per provare a spiazzare i competitor americani via gasdotto, e soprattutto l’accelerazione nella realizzazione del terminal di liquefazione di Yamal, che permette anche alla Russia di rafforzare la sua presenza sul mercato globale LNG e – almeno potenzialmente – competere con gli Stati Uniti anche sullo scacchiere europeo.

Ritorno alle origini

Nonostante la retorica degli Stati Uniti sulle opportunità offerte dal loro LNG come strumento di diversificazione dalla Russia, e i tentativi (a quanto pare vani) di stoppare la realizzazione di Nord Stream 2 da parte di Washington, lo scenario strategico nello scacchiere nord-orientale appare ormai abbastanza delineato. Difficile pensare che i rapporti di forza cambino sostanzialmente, che l’asse Mosca-Berlino possa essere scalfito e che il gas americano possa avere grandi margini di penetrazione in quei mercati. In questo contesto, l’unica azione concreta da parte dell’alleato transatlantico è quella di continuare a supportare le alternative messe in piedi dai partner europei per diversificare, sia da Mosca, che da Nord Stream 2: il completamento del Corridoio sud e lo sviluppo del Mediterraneo orientale, ma anche lo sfruttamento dell’opzione Turkish Stream e il mantenimento in vita della rotta ucraina sono tutti dossier sui quali l’azione costruttiva di Washington può offrire un valore aggiunto.

Dal petrolio al gas, la strategia dei Paesi del Golfo per sopravvivere in un mondo a basse emissioni

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Quella che oggi appare ai più una questione di sopravvivenza, potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Si tratta della necessità di questi paesi – tutti fortemente dipendenti dalle rendite delle esportazioni petrolifere – di diversificare la loro struttura economico-industriale basata sul petrolio (ad eccezione del Qatar), e con essa le fondamenta del proprio settore energetico.

GCC – Paesi del Golfo

Il crollo dei prezzi del greggio nell’autunno del 2014 e il perdurante stato di incertezza e volatilità sui mercati petroliferi, che ha determinato l’incapacità dell’OPEC di rispondere ai cambiamenti in atto, rappresentano una sfida esistenziale per i paesi del GCC.

La storia degli ultimi cinque anni ha infatti imposto ai regimi del Golfo (così come agli altri grandi paesi esportatori) la necessità di intraprendere un serio sforzo di riforma per ridurre il peso delle rendite petrolifere sulle attività economiche e sugli equilibri politico-sociali interni. Da fine 2014, nel giro di tre anni, le entrate finanziarie derivanti dalle esportazioni di greggio sono crollate di 400 miliardi di dollari, mentre nel 2016 i sei membri GCC hanno sperimentato – dopo oltre un decennio di avanzi in media superiori al 10 percento del PIL – un deficit aggregato attorno al 12 percento.

Ovviamente, le performance macroeconomiche variano di paese in paese, sulla base del peso del petrolio nell’economia nazionale – in Kuwait, ad esempio, la contrazione è stata del 30 percento, in Arabia Saudita del 15 percento, mentre casi più virtuosi come gli Emirati Arabi Uniti sono riusciti a limitare i danni e contenere il deficit al 2,1 percento – ma il trend generale appare ineluttabile. In concomitanza con entrate finanziarie in calo, i paesi GCC hanno sperimentato un rallentamento sostanziale dei tassi di crescita economica, un aumento della disoccupazione, il crollo dei salari e la contrazione dei consumi pro-capite.

Ripensare il ruolo del petrolio

Ad oggi le grandi riserve finanziarie accumulate nei fondi sovrani del Golfo hanno garantito ai monarchi della regione un cuscinetto per far fronte ai momenti di turbolenza (e ripianare gli ingenti deficit pubblici). Essi, tuttavia, non sono e non possono essere la soluzione definitiva. Il ruolo del petrolio nella vita – politica, economica, e sociale – di questi paesi va necessariamente ripensato. Attualmente, infatti, la ripresa dei prezzi del petrolio (e quindi delle revenues) rappresenta l’unico fattore in grado di garantire la ripresa delle economie di questi paesi, una condizione che di fatto conferma la trappola nella quale le economie del Golfo sono attualmente imbrigliate. Se nel medio periodo è assolutamente necessario ridurre il peso del settore petrolifero sull’economia di questi paesi, nel breve diventa fondamentale gestire queste risorse in modo oculato e virtuoso sul piano interno.

L’uso intensivo e inefficiente del greggio e dei suoi derivati a livello domestico limita infatti in modo significativo la capacità di questi paesi di massimizzare le esportazioni, e con esse le entrate finanziarie. Negli ultimi due decenni i consumi energetici nel Golfo sono schizzati, e tra il 2000 e il 2014 il GCC ha fatto registrare la maggiore crescita della domanda a livello globale, seconda solo a quella cinese. Basti pensare che Arabia Saudita e Kuwait consumano internamente circa un terzo della loro (immensa) produzione, che in Oman la domanda interna assorbe quasi internamente l’output nazionale, mentre il Bahrein è addirittura costretto a importare greggio dal vicino saudita.

L’unico paese sostanzialmente non toccato da certe dinamiche è il Qatar, dove la maggior parte della produzione petrolifera è destinata alle esportazioni, avendo il paese abbracciato un sviluppo legato principalmente ai consumi di gas naturale. Alla luce dei trend demografici, dei tassi di elettrificazione e (una volta ripresa) della crescita economica, i consumi energetici interni sembrano destinati a espandersi ulteriormente, con i settori dei trasporti e della generazione elettrica sotto la lente d’ingrandimento per quanto riguarda la domanda petrolifera.

Ma se l’automotive rappresenta in un certo senso il cuore dei consumi di petrolio e derivati – a maggior ragione in paesi dove i prezzi della benzina sono largamente sussidiati, come nel caso dei GCC – la dipendenza del settore elettrico rappresenta un’anomalia e una criticità tutta del Golfo. Basti pensare che greggio, diesel e HFO contribuiscono al 40 percento della capacità di generazione elettrica nel GCC, concentrata in particolare in Arabia Saudita (75 percento della generazione nazionale) e Kuwait (65 percento), con un peso decisamente minore negli Emirati Arabi Uniti. Numeri impressionanti, che testimoniano la necessità dei governi locali di affrancarsi da un simile modello – nel tentativo di monetizzare rapidamente il valore di queste risorse – soprattutto alla luce di un mercato del petrolio destinato a diventare sempre più incerto e meno remunerativo nel lungo periodo.

Accelerare sul gas

Alla necessità di monetizzare lo sfruttamento delle risorse petrolifere fa da contraltare l’esigenza di valorizzare le riserve domestiche di gas naturale, di cui la regione è ricca, sebbene in proporzioni minori rispetto al greggio. La centralità dell’area del Golfo sul fronte petrolifero fa infatti spesso passare in secondo piano il potenziale dell’area nel settore del gas. Basti pensare che nei sei membri GCC sono localizzati 42 trilioni di metri cubi (Tcm) di gas, pari al 22 percento delle riserve scoperte a livello globale, mentre la produzione annua si attesa attorno ai 410 miliardi di metri cubi – quasi un terzo dei quali in Qatar – pari a ‘solo’ l’11 percento dell’output totale. Il già menzionato Qatar è senza dubbio il leader regionale del settore, con riserve stimate pari a 25 Tcm (terzo paese al mondo dopo Russia e Iran) e una produzione di 123 Bcm annui, la maggioranza dei quali destinati all’export.

Nei restanti membri del GCC, oltre a tassi di produzione decisamente inferiori rispetto al potenziale, va sottolineata la sostanziale assenza di una strategia orientata alle esportazioni. L’Arabia Saudita, secondo paese in termini di produzione, consuma sul mercato domestico tutti gli 84 Bcm di gas prodotti dai propri giacimenti, al pari di Kuwait e Bahrein. Gli Emirati Arabi Uniti, con un produzione annua di 81 Bcm, risultano importatori netti nonostante piccoli volumi (5 Bcm annui) venduti sul mercato LNG, mentre sempre via LNG l’Oman esporta 10 Bcm all’anno, circa un terzo dell’output nazionale. Nel contesto della transizione energetica, queste risorse possono giocare un ruolo essenziale sia a livello regionale che su scala globale.

Grazie ai suoi minori tassi di intensità di CO2 rispetto a greggio e carbone, il gas naturale è infatti universalmente riconosciuto come il combustibile fossile ‘ponte’ verso una completa decarbonizzazione dell’economia da raggiungere nei prossimi decenni per far fronte alle impellenti sfide del cambiamento climatico. Puntare da subito, e con decisione, sulla valorizzazione delle proprie riserve, può permettere ai paesi del GCC di raggiungere tre obiettivi essenziali, spalmati in base a diverse scadenze temporali. In primo luogo, permette di liberare risorse petrolifere utilizzate in modo inefficiente in ambito interno (soprattutto nelle attività di generazione elettrica), in modo da massimizzare le rendite da esportazioni prima che ulteriore volatilità e incertezza si imbattano sui mercati del greggio.

In secondo luogo, garantisce il posizionamento strategico dei paesi GCC sui mercati internazionali del gas, destinati a crescere in modo esponenziale – soprattutto in Asia – alla luce delle politiche globali di decarbonizzazione. In terzo luogo, assicura una transizione interna sostenibile, sia dal punto di vista economico che da quello ambientale, in linea con gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni fissati dall’Accordo di Parigi. In quest’ottica, attori istituzionali e settore privato sembrano più che mai orientati a cogliere le opportunità intrinseche nel settore del gas.

E se la scelta del Qatar – leader globale dell’LNG – di abbandonare l’OPEC per focalizzarsi sulla produzione e commercializzazione di gas appare inevitabile, l’annuncio di Saudi Aramco (compagnia energetica saudita e principale produttore di petrolio a livello internazionale) di investire massicciamente nel gas non poteva rimanere inosservata. Da un lato Amin Nasser, ministro dell’Energia saudita, ha lanciato la strategia del regime di aumentare la quota di gas nel mix energetico dal 50 al 70 percento grazie a nuova produzione domestica.

Dall’altro il gigante saudita ha deciso di investire 160 miliardi di dollari nello sviluppo dei giacimenti convenzionali e non-convenzionali localizzati nel paese, in modo da poter intercettare la crescente domanda di gas da parte di Cina e India. Anche il Kuwait si sta muovendo in questa direzione: in primis, ha in programma di aumentare le forniture esterne di gas attraverso i terminal LNG di Mina al-Ahmadi e al-Zour, in modo da ridurre la quota di petrolio nel settore elettrico; inoltre, sta rafforzando gli investimenti nel settore upstream interno, per raggiungere la produzione di 11 Bcm annui al 2023. In ultimo, va sottolineata la strategia degli Emirati Arabi Uniti, che in partnership con Eni e Wintershall puntano a sviluppare un megaprogetto upstream nell’area dei giacimenti Hail, Ghasha e Dalma, in grado – una volta a regime – di soddisfare il 20 percento della domanda interna.

Imparare dal passato, guardando al futuro

Lo sfruttamento dell’enorme potenziale del gas naturale non deve distrarre i governi del GCC da quelle che sono le priorità per i loro paesi, ovvero una transizione sicura e sostenibile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Gli investimenti in gas, in questo contesto, devono rappresentare il primo passo di una strategia di diversificazione su scala regionale, e non il passaggio verso una nuova forma di dipendenza da risorse energetiche, attraverso la progressiva sostituzione del greggio con il gas naturale.

A tal fine, lo sviluppo delle riserve di gas va necessariamente accompagnato da sforzi concreti nella promozione di nuovi strumenti in ambito energetico, dalla penetrazione delle rinnovabili a misure in materia di efficienza energetica e rimozione dei sussidi. Sforzi che hanno contraddistinto i governi nell’immediato post-crollo dei prezzi del greggio, ma che in realtà stanno vivendo una fase di stanca a partire dalla ripresa (seppur faticosa) dei mercati petroliferi. Ad esempio, l’Arabia Saudita è in procinto di avviare la realizzazione di 30 progetti tra solare ed eolico – per circa 9,5 di capacità installata – entro il 2023 nell’ambito del piano strategico 2023 Vision.

Anche gli Emirati Arabi hanno lanciato la loro iniziativa, con l’obiettivo di raggiungere il 50 percento dei consumi finali attraverso energia rinnovabile e di ridurre l’impatto del carbonio nel settore generazione. Si tratta di progetti ambiziosi, che – grazie all’evoluzione tecnologica da un lato, e alle caratteristiche meteorologiche/climatiche della regione dall’altro – possono portare i paesi dell’area a risultati davvero eccezionali.

Grazie alla combinazione tra il gas naturale abbondante nella regione e l’immenso potenziale rinnovabile, il GCC ha infatti la possibilità di scardinare una volta per tutte gli schemi di dipendenza (da petrolio) che ne hanno limitato, e ne limitano, lo sviluppo economico e socio-politico. Sebbene l’attuazione di queste strategie sia destinata a incontrare forti resistenze (con l’obiettivo di mantenere in vita l’ordine esistente, quantomeno fino al punto di non ritorno), va sottolineato come i primi passi mossi dagli attori regionali nel settore del gas lasciano sperare ancora in una transizione sicura, equa e sostenibile in tutta la regione.

Artico: lo scioglimento dei ghiacci è la sfida del secolo. Implicazioni ambientali, politiche e militari

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Non sappiamo ancora se Mike Pompeo, il segretario di Stato Usa, andrà o meno al prossimo Consiglio dell’ Artico in programma il 6 e il 7 maggio prossimi. Ma il semplice fatto che un funzionario dell’amministrazione Trump non lo abbia escluso riflette un realismo che va oltre le affermazioni di sapore ideologico; vuol dire non solo che gli Usa guardano a ciò che accade in quei luoghi, solo geograficamente remoti, ma anche che la Casa Bianca prende sul serio le argomentazioni sul cambiamento climatico.

Il Consiglio Artico, infatti, che dal 1996 raggruppa gli 8 paesi vicini al Polo Nord (Canada, Danimarca, Finlandia, Iceland, Norvegia, Russia, Svezia e Usa) ha raggiunto una maturità di ruolo impensabile solo qualche anno fa, divenendo uno dei punti di snodo delle politiche del clima, dell’energia ed anche del dominio militare degli scacchieri internazionali. Le implicazioni del clima sono difatti solo una piccola parte dei temi che impegnano oggi le cancellerie diplomatiche di tutto il mondo.

Spariscono i ghiacci eterni

Secondo l’Arctic Monitoring and Assessment Programme (Amac),  la calotta polare si è assottigliata di quasi due metri dal 1975 e sempre più spesso i ghiacci ‘eterni’ si sciolgono, creando le condizioni per una navigabilità impossibile nel tempo che ci ha preceduto.

Se lo scioglimento dei ghiacci proseguirà ai ritmi degli ultimi 5 anni, il passaggio di navi cargo da 3000 container dal Pacifico all’ Europa, che consentirebbe di risparmiare quasi 4000 chilometri rispetto alla rotta che passa per il Canale di Suez, potrebbe diventare una rotta possibile e consigliata, soprattutto dall’ Asia Orientale.

Non a caso la Cina, che gira il mondo per ripristinare la Via della Seta, sta creando le condizioni per garantirsi anche una Via della Seta polare, collaborando con la Russia, soprattutto nei giacimenti di gas naturale liquefatto, e rafforzando la sua presenza nella zona; lo fa corteggiando diplomaticamente i paesi minori del Consiglio Artico come la Danimarca, dopo aver guadagnato lo status di Paese Osservatore.

Tra scienza e sospetti

Fino a oggi il Consiglio dell’Artico ha avuto una grande apertura e ha associato diversi paesi che svolgono lavori scientifici o antropologici nei ghiacci perenni. Si stima che le lande ghiacciate del Circolo Polare Artico possiedano tra 15 e il 30 per cento dei depositi naturali di materiali per idrocarburi.

Ma da qualche tempo, il lavoro scientifico sul cambiamento di clima ha destato qualche sospetto di natura diplomatica e geopolitica. Se da un lato la ricerca ha portato alla luce animali preistorici come i Mammuth e ridestato l’attenzione mondiale dal punto di vista turistico per via del successo dei libri di noir scandinavo e di fortunate serie televisive come “Fortitude”, dall’altro ha però riversato una piccola massa critica di impegni economici dei paesi leader nell’ innovazione tecnologica per la presenza di materie prime particolari:  le cosiddette terre rare (Lantanio, Cerio, Terbio, Disprosio e Neodimio), molto richieste per  lo sviluppo digitale e tecnologico di prodotti ad alta innovazione tecnologica come macchine elettriche o schermi piatti, laser (di natura anche militare), illuminazione a LED o a risparmio energetico, convertitori catalitici, magneti per auto, lampade fluorescenti.

L’Artico, diversamente dall’Africa, presenta condizioni climatiche e sociali spesso estreme ma non irraggiungibili per paesi ad alta capacità tecnologica o militare. Pompeo, dunque, non è in contraddizione con la dottrina trumpiana sul cambiamento di clima, giacché fa i conti con uno scenario che impegna gli Usa, la Russia e la Cina su uno scacchiere, certo inedito, ma non inusuale nella geopolitica. Peraltro in una zona del mondo dove i rapporti di forza dipendono molto dalle condizioni ambientali e geografiche, che pongono la Russia in una situazione di partenza migliore di quella con cui abitualmente il paese di Putin deve fare i conti nel resto del mondo, l’ Unione Europea o i piccoli Stati del Nord Europa, ma anche il Canada , hanno una responsabilità diversa e possono muoversi solo con un uso della “moral suasion” molto accorta.

Quando è la tua casa a inquinare

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Efficienza e sicurezza energetica, sostenibilità ambientale e economia circolare: temi che interrogano anche la filiera dell’oil&gas nel delicato equilibrio tra costruito e ambiente. Perché è sempre più di attualità il dato che anche la casa inquina e una vera e propria rivoluzione dovrà interessare il patrimonio immobiliare e le opere infrastrutturali e avrà tra i suoi principali attori anche le società energetiche.

Esperti del settore, opinion leader, rappresentanti di Istituzioni e business community hanno analizzato gli aspetti principali legati all’innovazione energetica in Italia e in Europa. Dal miglioramento della qualità dell’aria attraverso l’efficienza energetica, all’importanza delle certificazioni energetiche degli edifici, per un’effettiva riduzione delle emissioni inquinanti, fino all’ultima analisi che evidenzia come le innovazioni tecnologiche, standard di consumo energetico elevati e strategie di azione coerenti possano contribuire a rigenerare il patrimonio immobiliare italiano.

Temi al centro del quinto focus “Rigenerare il patrimonio immobiliare: la rivoluzione energetica degli edificicurato dal gruppo di lavoro di The European House – Ambrosetti in collaborazione con l’“Osservatorio ENGIE dell’Innovazione Energetica”, che si concentra sugli edifici residenziali e, in seconda battuta, sugli edifici adibiti a uffici o dedicati al settore terziario senza considerare, se non marginalmente, gli edifici industriali.

Ne parliamo con il Project Leader, Lorenzo Tavazzi, Associate Partner e Responsabile Area Scenari e Intelligence di The European House – Ambrosetti.

Quali sono i punti chiave che emergono dall’Osservatorio dell’Innovazione energetica?

Il Rapporto ha messo in luce un aspetto spesso sottovalutato nell’analisi delle emissioni e dei consumi energetici italiani: il ruolo fondamentale che hanno gli edifici con il 40% dei consumi energetici di cui il 28% attribuibile al residenziale. Con oltre 12 milioni di edifici e circa 35 milioni di unità abitative adibiti a residenziale, in Italia l’incidenza di questo segmento è ai vertici in Europa (84% degli edifici esistenti sono residenziali a fronte del 76% francese e del 68% tedesco).

Non solo auto che inquinano ma anche case?

Esattamente: le emissioni provenienti dagli edifici sono estremamente significative. Inoltre, le recenti normative europee prevedono sì la definizione di edifici a energia quasi zero(i cosiddetti NZEB), ma tale categoria si applica solamente alle nuove costruzioni. Con un tasso di rinnovamento pari allo 0,7%, in Italia la chiave dell’efficientamento degli edifici passa quindi per il patrimonio esistente, in primis dei condomini urbani. Circa il 50% delle abitazioni insiste su edifici di oltre 40 anni, un tale dato sale a oltre il 75% nelle città metropolitane.

L’efficientamento del patrimonio immobiliare esistente passa anche attraverso le società energetiche. Quale può essere il loro ruolo?

Le società energetiche hanno un ruolo cruciale per rendere possibili gli interventi di efficientamento energetico nei grandi condomini, in quanto consentono di abbattere i costi di intervento iniziale attraverso l’acquisizione dei crediti d’imposta. Inoltre, per la parte di intervento non coperta da detrazione, le ESCo possono finanziare l’investimento che si verrebbe a ripagare con i risparmi generati dall’intervento stesso. In questo modo i costi per i condomini, vero ostacolo per l’approvazione degli interventi, possono essere ulteriormente ridotti.

La casa  4.0 che diventa un vero e proprio sistema integrato di filiere energetiche.

Quello che abbiamo definito “Casa 4.0” è esattamente un sistema integrato a livello orizzontale tra le diverse filiere, caratterizzato dall’interoperabilità dei vari dispositivi a esso connessi e capace di soddisfare i crescenti bisogni di vivibilità e sostenibilità che sono percepiti dai consumatori. È un concetto che riunisce il passaggio da “casa passiva” a “casa attiva”, l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili, smart grid e interoperabilità dei sistemi. Si tratta di un sistema integrato che si andrà ulteriormente a rafforzare con il dispiegamento della rete 5G che fa dell’interoperabilità e della connessione dei diversi dispositivi la propria chiave di sviluppo.

Le normative comunitarie per l’efficienza energetica degli edifici partono già dai primi del 2000 e l’Italia è ancora indietro. Cosa può mutuare dagli altri Paesi europei?

Ogni Paese ha le proprie peculiarità in termini di patrimonio immobiliare. Sicuramente priorità d’azione per l’Italia sono l’allineamento deglistakeholder pubblici(Stato, Regione e Comune) per un’azione di armonizzazione delle regole e la definizione di un piano pluriennale per l’efficientamento energetico degli edifici. Tali azioni sono già state sviluppate da parte di molti competitori europei; la Germania infatti ha lanciato un piano simile già nel 2015 ed è quanto mai opportuno che anche l’Italia si muova in questa direzione.

Investimenti, incentivi e un Fondo di garanzia possono aiutare questo percorso di transizione?

Nel rapporto è stata evidenziata l’importanza dei meccanismi che agevolano la finanziabilità degli interventi che, come detto in precedenza, costituisce il maggiore ostacolo per gli interventi nei condomini urbani fortemente inefficienti. La definizione delle modalità operative del Fondo Nazionale Efficienza energetica, arrivata a gennaio 2019 a distanza di 4 anni dalla sua istituzione, è certamente un segnale di attenzione da parte del Governo ai temi dell’efficienza energetica.

Ma non è solo un problema di fondi. Occorre sensibilizzare cittadini e imprese?

Assolutamente sì, manca ancora una piena consapevolezza circa i benefici che sarebbero ottenibili attraverso l’efficienza energetica. Per questo motivo nel nostro Rapporto abbiamo sollevato l’opportunità di adottare un vero e proprio “libretto di manutenzione della casa” che informi l’utente degli investimenti necessari per mantenere la casa su livelli prestazionali elevati e, possibilmente, poter pianificare gli interventi di manutenzione nel tempo. 

Ci parli di qualche caso di best practice internazionale.

Con riferimento ancora alla programmazione pluriennale, troppo spesso trascurata in Italia, si può citare il caso della Danimarca, che ha introdotto per prima misure di efficienza energetica per gli edifici. Tali misure sono state riviste progressivamente al rialzo preparando l’industria del settore con quasi dieci anni di anticipo rispetto all’introduzione dei nuovi requisiti. Anche la Francia è un buon esempio di standard progressivamente migliorati nel tempo, come testimoniano le ottime performance del Paese nella costruzione di edifici che oggi rispettano gli standard delle emissioni quasi zero.

Ci sarà un seguito nella ricerca? E quali saranno i punti oggetto di riflessione?

Nell’ambito delle attività che, come The European House – Ambrosetti, stiamo portando avanti in questo periodo, abbiamo diverse iniziative che riguardano la transizione energetica, anche alla luce del dibattito in corso sul Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. In questo senso, gli interventi per gli edifici sono un aspetto fondamentale per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di efficienza energetica fissati dal Paese.

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