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Dal petrolio del Venezuela al gas brasiliano, l’America Latina potrebbe sfidare gli USA

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Durante il secondo mandato della Presidenza Obama l’America Latina è finita sotto i riflettori come elemento portante di un “emisfero occidentale‘ integrato e autosufficiente in materia energetica. Grazie soprattutto alle immense riserve petrolifere del Venezuela, al potenziale dei giacimenti pre-salt nell’offshore brasiliano e alle prospettive non convenzionali in Argentina, l’America Latina avrebbe dovuto contribuire in modo decisivo all’emancipazione energetica del continente americano, trainato dalla rivoluzione shale in atto negli Stati Uniti e dallo sfruttamento delle sabbie bituminose canadesi.

Nonostante queste prospettive, il decollo della regione rimane frustrato dalla grande incertezza politica ed economica in alcuni Paesi chiave e dalle tendenze nazionaliste dei principali attori sudamericani, cronicamente restii verso forme di cooperazione energetica.

Grandi al bivio

Le profonde criticità del Venezuela sono davanti agli occhi di tutti: il più grande Paese al mondo per riserve petrolifere potrebbe dover progressivamente fare i conti con una debaclè molto grave. La produzione giornaliera di poco più di 2 milioni di barili al giorno – in costante declino dal 2014 – non solo non basta a evitare il terzo anno consecutivo di recessione, ma addirittura non garantisce gli approvvigionamenti interni di prodotti petroliferi. In questa situazione, il rischio di una paralisi del settore petrolifero venezuelano non soltanto rappresenta un elemento di grande incertezza per i mercati globali, ma ostacola anche qualsiasi tentativo di integrazione energetica a livello regionale.

Seppur in termini decisamente meno drammatici, anche in Brasile lo scenario politico ed economico non è dei più rassicuranti. Nonostante le problematiche che, in parte, hanno caratterizzato anche il settore petrolifero, negli ultimi mesi la produzione di greggio e gas naturale brasiliana ha fatto registrare importanti progressi (3.36 milioni di barili di petrolio equivalente alla fine del 2016, +11 percento rispetto all’anno precedente). Tuttavia, a causa delle difficoltà finanziarie del settore, aggravate dal crollo dei prezzi del greggio, lo sviluppo delle risorse pre-salt brasiliano non è andato secondo le iniziali (rosee) aspettative della IEA, posticipando la consacrazione del paese e limitandone il ruolo propulsivo a livello regionale.

Prospettive diverse, invece, per il Messico. Destinato a sprofondare verso un destino di anonimato energetico (alla luce della contrazione della produzione del 32 percento rispetto al picco del 2004), il paese centroamericano sembra invece aver trovato le contromisure per risalire la china. Grazie all’entusiasmo generato dalla rivoluzione shale oltreconfine, e a politiche attive di attrazione degli investimenti internazionali (in primis il superamento del monopolio ultradecennale di Pemex), il Messico ha ripreso a marciare. Niente a che vedere con i fasti di inizio ’900, ma certamente un esempio positivo per una regione ricca di risorse, ma ancora in cerca di un modello per sfruttarle adeguatamente.

Un potenziale da far emergere

Accanto a Venezuela, Brasile e Messico – che con un totale di 9 milioni di barili al giorno contribuiscono alla maggior parte della produzione sudamericana – un gruppo di Paesi sta tentando di sviluppare un proprio profilo energetico e di emergere nello scenario regionale e globale. Perù e Trinidad & Tobago sono attivi nel settore del gas naturale, che da qualche anno esportano sotto forma di LNG verso i mercati europeo ed asiatico, mentre Ecuador e Colombia operano principalmente sul mercato petrolifero. Il primo è un tradizionale esportatore e membro – seppur di seconda fascia – dell’OPEC, mentre la seconda, negli ultimi anni, ha sperimentato un sostanziale incremento della produzione, sostenuto da normative più favorevoli alle attività di esplorazione. Capitolo a parte merita l’Argentina: tradizionale produttore ed esportatore di idrocarburi, nonostante il grande potenziale di risorse shale e le prime attività estrattive avviate nel bacino di Nequen, nel 2015, il paese sudamericano è diventato importatore netto di gas naturale. Nonostante il potenziale a disposizione e alcune importanti complementarità tra gli attori regionali, l’America Latina rimane un’incompiuta a livello energetico. Basti pensare che ancora 22 milioni di cittadini non hanno accesso all’elettricità, con un tasso di elettrificazione dell’85 percento nelle aree rurali del continente, o che nonostante le abbondanti riserve di greggio, negli ultimi anni le importazioni di prodotti dagli Stati Uniti sono raddoppiate (per un costo di circa 50 miliardi di dollari annui) a causa di un settore della raffinazione completamente inadeguato.

Nazionalismi e frammentazione

Chiaramente, la tendenza al nazionalismo energetico ancora ampiamente diffuso a livello regionale, continua ad alimentare questa situazione. Infatti, sebbene il crollo dei prezzi del greggio abbia contribuito – come nel caso messicano – a smuovere le acque, troppi governi rimangono ancora barricati sulle loro posizioni protezioniste. D’altro canto, l’adozione di politiche eccessivamente liberiste da parte dei governi nazionali, rischia di esporre il settore energetico latinoamericano alla crescente volatilità dei mercati internazionali. Un equilibrio tra queste due posizioni estreme può essere raggiunto attraverso una maggiore convergenza e integrazione energetica regionale, che permetta di superare la frammentazione e sfruttare a pieno le complementarità tra i diversi attori dello scacchiere latinoamericano. Un processo di integrazione – fisica, normativa e regolatoria – che da un lato potrebbe garantire maggiori livelli di sicurezza energetica (soprattutto nel settore del gas) e un accesso all’energia più competitivo e sostenibile, e dall’altro assicurare maggiori ritorni economici per lo sfruttamento delle risorse locali. Si tratta però di scelte strategiche che garantiscono ritorni positivi soltanto nel medio-lungo periodo, tempistiche che purtroppo alcuni leader populisti dell’America Latina sembrano non avere la possibilità (e la volontà) di considerare.


Energie rinnovabili: il risparmio c’è e si vede. Tutti i numeri del settore

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Le energie rinnovabili guadagnano terreno e generano risparmio. Lo dicono i numeri: a dicembre dello scorso anno nel mondo erano installati 2.017 gigawatt di energia rinnovabile e pulita, dei quali ben 161 gigawatt di potenza installata nel solo 2016.

A tirare la volata il solare fotovoltaico: lo scorso anno nel mondo sono stati installati più di 75 gigawatt di energia fotovoltaica, in pratica, 31 pannelli solari ogni ora.

Un ritmo davvero impressionante che ha fatto vivere al fotovoltaico un’impennata del 47%, raggiungendo il totale di 303 gigawatt di potenza installata a livello mondiale. Così, per il quarto anno consecutivo, gli investimenti nelle moderne energie rinnovabili, energia idroelettrica compresa, sono stati circa il doppio di quelli nei fossili, toccando quota 249,8 miliardi di dollari. Lo dice l’ultimo rapporto annuale di REN21, ovvero dell’organizzazione istituita dalla Nazioni Unite per incentivare le rinnovabili e che unisce sotto il proprio ombrello organizzazioni internazionali, governi, associazioni del settore e Ong.

Energia rinnovabile: piace e conviene da un punto di vista economico – Come riporta il Renewables 2017 Global Status Report a partire dal 2015, l’energia rinnovabile e pulita ha soddisfatto il 19,3% del fabbisogno a livello mondiale. Attenzione all’ambiente? Anche, ma non solo. Dietro al sempre più positivo trend delle rinnovabili si nasconde, infatti, un calcolo economico tutt’altro che secondario che sposta l’ago della bilancia. In molti casi, infatti, il costo dell’energia rinnovabile e pulita si è abbassato al punto da essere davvero competitivo e anzi conveniente rispetto all’energia proveniente dalle fonti fossili o dal nucleare. Questo è successo soprattutto in Cile, in Argentina, in India, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, ma anche in Marocco e in Messico.

Promosso il settore elettrico, male trasporti e riscaldamento

A dare i segnali più incoraggianti, è il settore elettrico, dove l’energia rinnovabile e pulita ha messo la freccia. Non decolla invece nei trasporti, riscaldamento e sistemi di raffreddamento, dove la transizione sta avvenendo con un passo decisamente lento: a questo ritmo, gli esperti dell’Onu prevedono che non sarà possibile centrare i rispettivi obiettivi dichiarati durante la Cop 21 del dicembre del 2015.

La situazione in Italia

E in Italia come siamo messi? La quota italiana di energie rinnovabili nell’approvvigionamento energetico (15%) è superiore alla media del G20, e in anni recenti anche i tassi di riduzione delle emissioni di gas serra e di consumi energetici pro-capite sono stati molto alti. Ma se il nostro paese ha già superato l’obiettivo 2020 per le energie rinnovabili, il “percorso futuro non è chiaro perché la strategia energetica del 2030 è ancora in preparazione”. Sono le conclusioni sull’Italia del rapporto “Brown to Green Report 2017 – La transizione del G20 ad un’economia a basse emissioni di carbonio”, realizzato dall’organizzazione Climate Transparency. Nel rapporto si plaude alle iniziative sul clima della presidenza italiana del G7, ma gli autori criticano “una politica energetica” ancora “prevalentemente centrata sui combustibili fossili”.

Rinnovabili superano nucleare in Usa, è prima volta da 1984 – Per la prima volta in oltre trent’anni, negli Stati Uniti a marzo e ad aprile le fonti rinnovabili hanno generato più elettricità degli impianti nucleari. Lo ha reso noto l’Energy Information Administration (Eia), l’agenzia statistica indipendente del Dipartimento Usa dell’energia, secondo il superamento delle fonti verdi sul nucleare non si verificava dal luglio 1984.

L’evento, spiega l’Eia, dipende da due fattori: da un lato la crescita delle rinnovabili; dall’altro i programmi di manutenzione a cui vengono sottoposti gli impianti nucleari in primavera e autunno, quando la domanda elettrica complessiva è più bassa rispetto all’estate e all’inverno.

Una produzione record sia nell’eolico che nel fotovoltaico, insieme all’aumento registrato nell’idroelettrico grazie a piogge e nevicate più intense negli Stati occidentali degli Usa durante l’inverno scorso, hanno comportato una crescita della generazione elettrica rinnovabile in primavera, scrive l’Eia. Sull’altro fronte, la produzione di elettricità da centrali nucleari in aprile è stata la più bassa dal 2014. L’agenzia prevede tuttavia che in estate il nucleare tornerà a produrre più elettricità delle rinnovabili, e lo stesso varrà per l’interno 2017, come riporta l’Ansa.

Washington vs Mosca, passando per Bruxelles: gli interessi in gioco nella nuova Guerra Fredda

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La Russia non è soltanto al centro di uno scontro politico-istituzionale tra il Congresso e la Casa Bianca, ma rischia di diventare motivo di forti divergenze tra le due sponde dell’ Atlantico.

Il nuovo regime sanzionatorio proposto dal Senato, infatti, estende e inasprisce l’azione americana nei confronti del settore energetico russo. Ma a farne le spese, oltre a Mosca, potrebbe essere anche la sicurezza energetica europea, a testimonianza di un progressivo disallineamento delle priorità strategiche di Bruxelles e Washington in campo energetico (e climatico).

La lotta tra il Congresso e la Casa Bianca

Lo scorso 27 luglio il Senato americano ha deciso di incalzare il Presidente Donald Trump approvando un progetto di legge che pone nelle mani del Congresso il potere di contrastare atteggiamenti aggressivi di stati terzi, tra cui la Russia. L’atto – introdotto da un’alleanza bipartisan – ha l’obiettivo di scongiurare qualsiasi tipo di ravvicinamento tra la Casa Bianca e il Cremlino, accentrando nelle mani dell’organo legislativo il potere imporre sanzioni alla Russia e, di fatto, limitando il ruolo del Presidente (che, comunque, può sempre porre il proprio veto sul testo), considerato troppo morbido nelle sue relazioni con Mosca.

La nuova legge prevede ulteriori e più pesanti sanzioni per la Federazione Russa nei settori dell’intelligence e della difesa, dell’energia e, più in generale, nei confronti di iniziative di privatizzazione di asset pubblici russi.  Per quanto riguarda l’ambito energetico, l’estensione delle sanzioni ha come target principale le pipeline per l’esportazione di risorse energetiche dalla Russia. Il Congresso mira infatti a colpire tutte quelle aziende che forniscono tecnologia, servizi, investimenti o qualsiasi altro tipo di supporto a questi progetti. La nuova misura, in grado di danneggiare significativamente la politica energetica di Mosca, si aggiunge a quelle già in vigore – e decisamente meno invasive – nei confronti delle attività russe nel settore petrolifero non convenzionale e nell’Artico.

Non solo contro il Nord Stream 2

Se approvato, l’atto avrà chiare implicazioni anche per le relazioni energetiche tra Mosca e i suoi partner europei. Ovviamente, gran parte dell’attenzione pubblica si è focalizzata sull’impatto delle sanzioni americane sul futuro di Nord Stream 2, il gasdotto progettato da Mosca per eludere completamente (o quasi), dopo il 2019, il transito attraverso il territorio ucraino per il gas naturale russo destinato ai mercati europei. Le compagnie energetiche europee Engie, OMV, Shell, Uniper and Wintershall, sebbene abbiano deciso di non prendere parte all’azionariato del progetto, si sono comunque impegnate a garantire un finanziamento di lungo periodo al progetto, per una cifra di circa 950 milioni di euro ciascuno: nel contesto del nuovo regime sanzionatorio proposto dal Congresso, le cinque aziende finirebbero nella black list di Washington.

Ma il Nord Stream 2, già pomo della discordia energetica in Europa, non sarebbe l’unico progetto messo a rischio dall’iniziativa americana. A esso, infatti, si deve aggiungere TurkStream, gasdotto offshore promosso da Gazprom con l’obiettivo di trasportare gas russo direttamente sul territorio turco attraverso il Mar Nero (e potenzialmente all’Europa sud-orientale) e, soprattutto, una serie di progetti considerati ”minori’ ma con una rilevanza non trascurabile per la sicurezza energetica europea.

Tra questi, c’è la CPC pipeline che trasporta petrolio dal Caspio al Mar Nero (e da esso ai mercati europei), ma soprattutto la sezione ucraina del gasdotto Brotherhood, di proprietà di Gazprom e UkTransGaz: la condotta richiede significativi interventi di manutenzione e ammodernamento, che potrebbero tuttavia essere messi a rischio dalle nuove sanzioni americane.

Stati Uniti-Europa: ci eravamo tanto amati?

Rimane poi da valutare l’impatto delle sanzioni su progetti strategici per l’Europa in cui sono coinvolte aziende russe, tra cui la South Caucasus Pipeline (parte integrante del Corridoio Sud, alla quale partecipa la russa Lukoil) e il giacimento egiziano di Zohr, di cui Rosneft è proprietario di minoranza insieme a Eni. Il caso delle sanzioni al settore energetico russo sono l’ennesimo caso di divergenza strategica tra gli Stati Uniti di Trump e i partner europei. Dopo l’esito fallimentare (e la dichiarazione “disgiunta‘) del G7 Energia, dopo l’annuncio dell’uscita di Washington dal Trattato di Parigi – che ha portato a un’esplicita alzata di scudi a Bruxelles e nelle principali capitali europee – le proteste sulla sponda orientale dell’Atlantico non si sono fatte attendere. A prescindere dal giudizio di valore sul progetto Nord Stream 2 (il quale, più che accrescere il controllo di Gazprom sul mercato europeo del gas, creerebbe una pericolosa condizione di monopolio sul transito del gas russo in Europa nelle mani della Germania), ciò che preoccupa dell’atteggiamento americano è la totale unilateralità dell’iniziativa.

La mossa del Congresso, infatti, non prende minimamente in considerazione le condizioni strutturali del settore energetico europeo e l’innegabile interdipendenza con Mosca, che volenti o nolenti, è destinata a durare. Anzi, pone l’Europa tra due fuochi, nella difficile situazione di dover gestire la propria partnership energetica con la Russia senza incrinare i rapporti strategici che la legano agli Stati Uniti. E viceversa.

Un disallineamento energetico che non convince

In passato, la politica estera di Washington si è dimostrata attenta e funzionale alle necessità europee in materia di sicurezza energetica. Le iniziative volte all’apertura di nuove rotte commerciali dal Mar Caspio, all’inclusione della Turchia nell’architettura energetica regionale, e non ultimo alla creazione di meccanismi cooperativi del Mediterraneo orientale ne sono piena testimonianza. Portare l’Europa a uno scontro frontale con la Russia su questi temi, sui quali Bruxelles e Mosca negli ultimi anni hanno imparato a muoversi con grande cautela e circospezione, rappresenta un chiaro segnale di disallineamento energetico tra le due sponde dell’Atlantico.

La potenza cinese dietro la spavalderia di Kim. Tutte le relazioni tra i due paesi

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Il sostegno economico cinese alla Corea del Nord risale agli albori della guerra di Corea (1950-1953). A partire dal 2005 le esportazioni della Cina verso il Paese sono cresciute in modo significativo e i coreani parlano di “amicizia di sangue”. Nonostante questi presupposti, dopo i test nucleari la sicurezza e il mantenimento della stabilità nell’area restano le questioni primarie per Xi Jinping.

Le risorse della Corea del Nord

La Corea del Nord è ricca di risorse minerarie: possiede oltre 300 tipi di minerali, con oltre 200 tipologie utili. La Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC) è ricca anche di minerali metalliferi ed energetici, sufficienti per soddisfare il 70% del fabbisogno interno di materie prime industriali e combustibile, mentre possiede solo modeste quantità di petrolio e gas naturale; il paese è ricco di antracite e di lignite ma non possiede giacimenti di carbone da coke, necessario per l’industria dell’acciaio; la Corea del Nord è inoltre ricca di risorse idroelettriche.

La ricchezza è nel carbone

Al momento i minerali maggiormente estratti in Corea del Nord sono il carbone, i minerali ferrosi, il piombo, lo zinco e il calcare; sostanzialmente si tratta di prodotti primari venduti principalmente in Cina. Il carbone è il minerale più importante estratto in Corea del Nord.

Il paese possiede una riserva di 14,74 miliardi di tonnellate di carbone, costituita da 11,74 miliardi di tonnellate di antracite e 3 miliardi di tonnellate di lignite. Le condizioni attuali garantiscono una capacità estrattiva intorno ai 7,9 miliardi di tonnellate. Il carbone estratto in Corea del Nord si suddivide in antracite e carbone bituminoso; la prima proviene principalmente dalla provincia del Pyongan settentrionale, mentre il secondo è presente nelle province dello Hamgyong settentrionale e meridionale. Al momento, a livello centrale la Corea del Nord ha un totale di oltre 100 miniere di carbone, di cui più di 70 di antracite e più di 30 di carbone, mentre a livello locale le miniere di carbone sono oltre 500. Nel 2011 la Corea del Nord possedeva riserve di carbone per un ammontare stimato di 661 milioni di tonnellate, principalmente destinate all’esportazione in Cina, pari al 10% del prodotto interno lordo.

A causa della mancanza di petrolio e di gas e di fondi per sviluppare le risorse idroelettriche, in Corea del Nord il carbone è divenuto una risorsa chiave per la produzione di energia elettrica. Per risolvere il problema della scarsità di energia, la RPDC ha deciso di incrementare l’estrazione del carbone, costringendo i lavoratori del settore del carbone a dedicarsi all’esplorazione di miniere e all’estrazione. Ma il tasso di estrazione del carbone della Corea del Nord non è molto elevato, a causa del ridotto impiego di metodi estrattivi nuovi e di tecniche di brillamento avanzate.

Cina, il principale alleato

La Cina e la RPDC sono paesi confinanti che intrattengono rapporti cordiali. La prima ha necessità di importare risorse minerarie per favorire il proprio sviluppo economico, e la seconda ha bisogno di cibo, fertilizzanti, petrolio e gas per il sostentamento della popolazione, così le due parti continuano ad approfondire la cooperazione nel settore delle risorse minerarie.

Secondo il rapporto, la China National Gold Co., Ltd. ha stipulato un contratto con la RPDC per l’estrazione del rame della durata di 25 anni che prevede la gestione al 50% della più grande miniera di rame nordcoreana, denominata “Hyesan Copper‘ e situata nella regione di Ryanggang. L’investimento cinese ammonta a 8 milioni di euro. In precedenza il Dipartimento del Commercio della provincia cinese di Jilin aveva stipulato un accordo del valore di 7 miliardi di renminbi con il governo della Corea del Nord per l’estrazione di minerali ferrosi che gli assicura i diritti di sfruttamento della miniera di Musan, la più grande miniera nordcoreana di minerali ferrosi, per 50 anni.

Di conseguenza la Cina ha a disposizione 10 milioni di tonnellate di minerali ferrosi estratti dalla miniera di Musan ogni anno. Inoltre, la più grande azienda importatrice di risorse minerarie cinese, la CMC, ha pianificato di investire nelle più grandi miniere di carbone senza fumo, con una produzione annuale di 3 milioni di tonnellate. La Cina sta inoltre promuovendo lo sviluppo congiunto di miniere di molibdeno e del giacimento di petrolio nella Baia di Corea, non distante da Pyongyang.

Come sopperire alla mancanza di petrolio

La cosa interessante è che la Corea del Nord possiede pochi combustibili e ora si affida alle importazioni dalla Cina e dalla Russia. Secondo la U.S. Energy Information Administration la Corea del Nord non possiede riserve di petrolio e non produce petrolio né altri liquidi. Secondo il rapporto nel 1991, quando la Corea del Nord comprava il petrolio dalla Cina e dalla Russia a prezzi bassi, il consumo dell’oro nero nel paese ammontava a 7,6 milioni di barili al giorno. Nel 2013 il consumo era crollato a 1,7 milioni di barili, la capacità produttiva delle sue raffinerie di petrolio grezzo si attestava sui 640.000 barili al giorno, di cui solo il 20% veniva effettivamente utilizzato.

La Corea del Nord, inoltre, non ha alcuna capacità di esplorazione ed estrattiva. Benché il paese abbia sette bacini geologici completamente sfruttati, i pozzi scavati sono solo 22. Finora la joint venture HBO, gestita dalla compagnia di esplorazione petrolifera nordcoreana e dalla mongola HBOil, non ha condotto alcuna attività di esplorazione. Nel luglio 2014 la HBO ha pianificato di aprire la data room alle aziende straniere, sperando di attirare investimenti dall’estero. Ma a causa dell’esistenza di problemi ecologici, gli investitori occidentali non hanno mostrato interesse. Mentre la Corea del Nord cercava aiuti all’estero per sviluppare il proprio settore oil & gas, nessuna azienda straniera si è presentata per fare almeno un’esplorazione preliminare. Ciò è dovuto al fatto che la RPDC non possiede la tecnologia e le competenze per estrarre il proprio petrolio e il proprio gas, né ha denaro da dedicare a qualsivoglia progetto. Sebbene la China Railway Construction Investment Corporation abbia annunciato grandi investimenti in Corea del Nord, inclusi investimenti nel settore oil & gas, la situazione di tensione attuale dovuta alla questione nucleare rende semplicemente impossibile qualsiasi investimento su larga scala.

Le relazioni sino-nordcoreane dopo le sanzioni

Per quanto riguarda l’attuazione delle sanzioni previste dalla risoluzione 2321 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti della Corea del Nord, il 18 febbraio 2017 il Ministro del Commercio cinese e l’Amministrazione Generale delle Dogane hanno emanato un avviso pubblico in piena conformità con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con le leggi e i regolamenti statali vigenti, e dal 19 febbraio 2017 la Cina ha smesso di importare carbone dalla RPDC. La sospensione avrà durata annuale. Nel primo trimestre del 2017 la Cina ha importato 2.688 milioni di tonnellate di carbone dalla Corea del Nord, con un calo del 51,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; l’intera quantità è stata importata prima dell’annuncio.

Gli aiuti economici cinesi alla Corea del Nord risalgono agli albori della guerra di Corea, quando il governo cinese iniziò a fornire cibo ed energia alla RPDC, nonché assistenza gratuita. Nell’agosto del 1992 la Cina e la Corea del Sud stabilirono relazioni diplomatiche formali, mettendo in crisi i rapporti con la Corea del Nord, ma gli aiuti cinesi nel settore energetico non hanno subito interruzioni: la cooperazione economica è proseguita con il commercio di energia, carbone e petrolio e le due parti hanno gradualmente ripristinato normali relazioni in campo economico. A partire dal 2005 le esportazioni cinesi verso la Corea del Nord sono cresciute in modo significativo, e il surplus commerciale cinese con la Corea del Nord è aumentato dagli 810 milioni di dollari del 2007 a 1,3 miliardi nel 2008; una crescita davvero notevole rispetto ai 214 milioni di dollari del 2004.

Una questione di sicurezza

La Corea del Nord ha condotto diversi test nucleari suscitando del malumore in Cina, che ha votato a favore delle rigide sanzioni del Consiglio. Tradizionalmente le relazioni tra la Cina e la RPDC sono sempre state amichevoli, in Corea del Nord si parla di “amicizia di sangue‘, inoltre la Corea del Nord è considerata “una zona cuscinetto strategica‘ per la Cina nell’Asia settentrionale. Tuttavia i test nucleari condotti dalla Corea del Nord rappresentano una sfida all’ordine internazionale, e specialmente dopo il test della bomba all’idrogeno del 3 settembre 2017 la Cina è sembrata avere dei ripensamenti rispetto alla politica della RPDC. L’imposizione di misure drastiche per stimolare la RPDC, quali per esempio l’interruzione totale delle forniture di petrolio potrebbe causare reazioni estreme da parte della Corea del Nord, che potrebbero mettere in crisi la sicurezza delle regioni nord-orientali della Cina.

Il mantenimento della pace e della stabilità nelle aree circostanti è l’obiettivo primario della diplomazia cinese, ed è in linea anche con gli interessi nazionali del paese. Nel gennaio 2017, in un discorso presso la sede europea delle Nazioni Uniti a Ginevra il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che le armi nucleari dovrebbero essere completamente bandite e distrutte per costruire un mondo denuclearizzato. Per arrivare alla denuclearizzazione è necessario applicare il concetto di sicurezza comune nella penisola coreana. Perciò le relazioni tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord devono essere più stabili, e al contempo devono essere promosse relazioni internazionali in Asia settentrionale.

Credo che il governo cinese metterà certamente in atto la risoluzione delle Nazioni Unite, implementando un embargo ancora più rigido sul materiale per la costruzione di armi e su quello scientifico e tecnologico nei confronti della RPDC per mostrare a quest’ultima attraverso rigide sanzioni economiche il rischio di auto-immolazione, persuadendo gli studenti coreani che frequentano le università cinesi e chiudendo un gran numero di aziende cinesi in Corea del Nord. A partire dal marzo di quest’anno le autorità cinesi hanno avvisato le quattro istituzioni finanziarie nordcoreane che operano in Cina di condurre i loro affari nel rispetto delle ultime concessioni, altrimenti potrebbero incorrere in sanzioni. Inoltre la Cina potrebbe considerare di adottare restrizioni alle esportazioni di forniture e di energia che la RPDC potrebbe usare per scopi militari.

In generale la Corea del Nord è un vicino molto importante per la Cina. Due milioni di sino-coreani sono inestricabilmente legati alla RPDC, e nel momento in cui la situazione peggiorasse, anche loro sarebbero inevitabilmente colpiti. Ritengo che la Cina non possa proibire il contrabbando di risorse energetiche marittime; la Cina non interromperà completamente i commerci e l’assistenza alla Corea del Nord, a meno quest’ultima non punti dei missili sulla Cina.

La Cina eviterà di punire eccessivamente la Corea del Nord; gli aiuti umanitari e la fornitura di energia e di beni necessari alla vita sociale e l’assistenza dovrebbero proseguire, ma dovrà essere decisamente fermato lo sviluppo delle armi nucleari, perché il presidente Trump non vuole colpire la RPDC per primo.

La Cina garante della stabilità internazionale

In senso più generale, il fatto che il regime coreano dipenda dalla Cina è una garanzia di stabilità per tutta la comunità internazionale. Un gigante come la Cina che vuole sostituire gli USA nel ruolo di guida del mondo non permetterebbe mai alla Corea di scatenare la terza guerra mondiale.

Il ritorno del Petrolio, la vera cartina di tornasole degli equilibri internazionali

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L’inizio del 2017 ha dato incoraggianti segnali di ripresa per il settore petrolifero, confermati da un numero crescente di transazioni e acquisizioni per un totale di quasi 140 miliardi di dollari nella prima metà dell’anno.

Il leggero rimbalzo del prezzo del petrolio – determinato dalla fiducia innescata dall’accordo raggiunto dall’OPEC nel novembre 2016 – fanno infatti ben sperare i mercati e i principali player industriali. Tuttavia, sebbene l’industria petrolifera – dopo gli anni difficili del crollo dei prezzi e della forte volatilità dei mercati – abbia la necessità di un forte consolidamento, non si intravedono ancora i grandi spostamenti di asset e capitali che le nuove dinamiche nel settore Oil&gas globale potrebbero richiedere.

Ne emerge, piuttosto, la conferma delle tendenze in atto: la centralità nordamericana, il declino europeo, e mercati emergenti ancora in cerca di un’identità e di un punto di equilibrio.

America, centro del mondo

Come nel 2016, anche quest’anno l’industria non convenzionale nordamericana è stata al centro dei principali M&A del settore petrolifero. Con oltre i tre quarti di tutte le transazioni registrate nel segmento upstream globale (per un valore di circa 70 miliardi di dollari), i mercati di Stati Uniti e Canada si confermano i più dinamici e attrattivi per industria e investitori.

La leggera ripresa dei prezzi del greggio, in particolare, ha riattivato le strategie di rafforzamento del portfolio da parte degli operatori, con ingenti flussi di capitale nei grandi giacimenti produttivi statunitensi. Il solo Permian Basin, nel giro di sei mesi, è stato in grado di movimentare 20 miliardi di dollari di transazioni, con ExxonMobil pronta a versare 5,6 miliardi nelle casse di BOPCO per l’acquisizione di 250 mila acri all’interno del bacino tra West Texas e New Mexico. Il messaggio ai mercati provenienti dal settore americano appare quindi chiaro: vi è rinnovata fiducia nelle attività produttive non convenzionali, e i principali attori stanno consolidando i loro asset e le loro attività per sfruttare al meglio la loro posizione.

Il tutto, con forti implicazioni sulle dinamiche globali, sull’elasticità dell’offerta e sui prezzi, potenzialmente a discapito dei produttori tradizionali.

Europa ai margini?

Sull’altra sponda dell’Atlantico, l’Europa vive ormai un prolungato momento di stallo energetico. I dati relativi alla domanda e ai consumi europei di idrocarburi – nonostante timide prospettive di crescita nel segmento gas – non incoraggiano certamente investimenti in questo senso.

Dopo le difficoltà nel settore della raffinazione, anche il segmento upstream – soprattutto nel Mare del Nord – sta sperimentando l’uscita di attori importanti, in gran parte rimpiazzati da investimenti di private equity. Players di rilievo come Engie e Dong Energy hanno di recente abbandonato il Mare del Nord: la prima  ha venduto asset per 4 miliardi a Neptune, partecipata da banche americane e cinesi, la seconda ha ceduto in toto le sue posizioni all’azienda chimica britannica Ineos, che nel frattempo ha acquisito il sistema di gasdotti offshore Forties da BP. Anche Royal Dutch Shell, in linea con il suo massiccio piano di disinvestment (30 miliardi nell’upstream), ha ridotto la propria presenza operativa nell’area, ricavando 3,8 miliardi di dollari dalla cessione di giacimenti per 115mila barili al giorno a Chrysaor.

Infine è significativa (anche sul piano emotivo) l’uscita di Maersk dall’offshore danese, probabilmente tanto quanto la scelta di Total – in controtendenza con il resto delle transazioni in atto nella regione – di rilevare gli storici asset della gruppo di Copenaghen. Queste operazioni, non soltanto evidenziano la crescente marginalità dell’Europa per i grandi operatori globali, ma rappresentano anche un importante campanello d’allarme in chiave strategica. Senza investimenti di prospettiva, il vecchio continente rischia un’ulteriore contrazione della propria capacità produttiva, che mette a rischio la sicurezza energetica dell’intero blocco, già fortemente dipendente dalle importazioni dall’estero.

Asia ancora in cerca di identità

Resta ancora incerto il futuro nel continente asiatico. I fondamentali e le prospettive di mercato puntano, ovviamente, tutti verso oriente. Crescita demografica e dei consumi, rapidi tassi di urbanizzazione e motorizzazione: la ricetta perfetta per un incremento sostanziale della domanda di idrocarburi è chiaramente in Asia.

Tuttavia, nonostante basi solide e prospettive allettanti, un significativo consolidamento degli equilibri industriali nella regione deve ancora materializzarsi. Al momento le major occidentali detengono in Asia capacità e asset nel segmento Oil&gas per circa 40 miliardi di dollari, che sarebbero pronte a liquidare a fronte di adeguati introiti finanziari. Tuttavia, investimenti e transazioni nella regione sembrano puntare in modo deciso verso il segmento low-carbon: nel 2016 oltre metà delle operazioni nel settore energetico hanno riguardato energie rinnovabili – eolico, solare, idroelettrico e geotermico – e trasporto elettrico, in rapida crescita rispetto agli anni precedenti. Tornando al settore petrolifero, va sottolineato come i grandi produttori tradizionali – poco propensi ad investimenti regionali nell’upstream – si stiano muovendo per intercettare l’inevitabile crescita di consumi in atto nella regione. E se il non-convenzionale americano continuerà a farla da padrone sul lato dell’offerta, ecco alcune grandi compagnie petrolifere nazionali pronte a investire in raffinazione e downstream.

Facendo seguito alla mega operazione conclusa da Rosneft in India a fine 2016 (12 miliardi per l’acquisto di Essar Oil), a inizio anno Saudi Aramco ha siglato un accordo da 7 milioni di dollari con Petronas per l’acquisizione del 50 percento del progetto RAPID (Refinery and Petrochemical Integrated), in grado di processare 300 mila barili di greggio al giorno e produrre quasi 8 milioni di tonnellate di prodotti petrolchimici all’anno. Anche qui, infatti, c’è da vincere la crescente concorrenza dei prodotti petroliferi statunitensi, e solo massicci investimenti nella regione possono provare a limitare l’avanzata a stelle e strisce fuori dai confini americani.

Energia, come cambierà da oggi al 2040

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L’universo energetico è inesorabilmente interconnesso. Da questa premessa è partita la presentazione di Fatih Birol, Executive Director della IEA, l’International Energy Agency, del World Energy Outlook 2017.

Parlando nel quartier generale di Eni a Roma, venerdì 1 dicembre, alla presenza dell’Amministratore delegato di Eni, Claudio Desclazi, e dei ministri del governo italiano Carlo Calenda (Sviluppo economico) e Gian Luca Galletti (Ambiente), Birol ha esordito sottolineando come “Nessun paese è un’isola energetica a se stante, ed è influenzato da ciò che avviene in Africa, Cina, Stati Uniti. E così come sono correlati i paesi, lo sono le risorse energetiche, il cui sviluppo è spesso interdipendente”.

Entrando nel merito dell’Outlook, Birol ha sottolineato come il mondo dell’energia debba prepararsi, in prospettiva, ad affrontare quattro grandi sfide. “In primis – ha sottolineato Birol – gli Stati Uniti, che stanno diventando leader mondiale nella produzione di petrolio e gas, in termini di volumi. Una rivoluzione che la IEA per prima – ha rimarcato Birol – ha rilevato, quando ancora gli echi di questo cambiamento erano appena un bisbiglio. Il paese si prepara ad un cambio di rotta vertiginoso se pensiamo che nei prossimi 5 anni, secondo le nostre previsioni, l’80% della crescita globale del petrolio arriverà proprio da Washington”.

Energia solare e rinnovabili in pole position

Un’altra svota, da qui al 2040, sembra potersi profilare per quanto riguarda le rinnovabili e, in particolar modo, per l’energia solare. “Questa risorsa sta diventando sempre più economica anche a fronte della discesa dei costi di produzione e delle tecnologie ad essi legate – ha spiegato l’Executive Director di IEA – e stimiamo che il solare, insieme all’eolico e il gas, saranno le fonti energetiche che copriranno ben l’80% della crescita di domanda di energia nel mondo in futuro”. In questo quadro si inserisce anche il tema della sicurezza energetica. “Fino ad oggi questo concetto si coniugava quasi esclusivamente con quello di produzione petrolifera, ma oggi, proprio per l’avvento sempre più consolidato, delle energie rinnovabili, il mosaico diventa più complesso. Interpretare queste evoluzioni – ha chiarito Birol – può essere determinate per indirizzare gli investimenti, e chi sarà in grado di cogliere più velocemente questa tendenza potrà godere di una posizione maggiormente proficua sui mercati”.

L’avanzata della Cina e dell’India sullo scacchiere mondiale

Due Paesi stanno assumendo la guida in termini di domanda energetica: la Cina e l’India. Pechino sta letteralmente modificando i mercati energetici internazionali. Il carbone, che ha avuto un ruolo di assoluta preminenza negli anni scorsi, verrà gradualmente soppiantato da altre fonti energetiche così da contenere, in misura che si spera possa essere consistente, l’impatto sulle emissioni di gas serra che tanto pesano sulla salubrità ambientale nel Paese. “Un invito giunto direttamente dal presidente Xi Jinping – ha ricordato Birol – che nell’intervento tenuto nel corso del 19mo Congresso Nazionale del PCC ha sollecitati tutti i funzionari presenti ad adoperarsi affinchè i cieli della Cina tornino blu”. L’India sta assumendo sempre più un ruolo di primo piano sullo scenario energetico mondiale, a sostegno di una crescita economica che viaggia a ritmi serrati (7%), e cha sta mettendo in campo politiche molto stringenti affinchè, entro i prossimi anni, l’accesso all’energia elettrica possa essere esteso a una fetta di 500 milioni di indiani.

Accesso all’energia, un aiuto per oltre un miliardo di persone

Il mondo si elettrifica sempre di più. Secondo il WEO 2017 la produzione di energia elettrica aumenterà del 60% entro il 2040. Attualmente un miliardo e 100 milioni di persone non sono raggiunte dall’elettricità, soprattutto in India, Pakistan e Africa sub-sahariana. Se, come detto, in India si stanno ponendo in essere delle misure per colmare questo divario, molti problemi sussistono ancora soprattutto per l’Africa. In questo senso occorrerà, ha affermato Birol, assumere degli impegni precisi per far sì che tutti i Paesi contribuiscano a risolvere una condizione di scarso accesso all’energia elettriche in alcune regioni del mondo, affinchè si promuova nuovo sviluppo. Sul tema della lotta ai Cambiamenti Climatici, Birol ha ribadito come sia assolutamente fondamentale minimizzare gli effetti delle emissioni di CO2 ricorrendo sempre di più all’utilizzo del gas, che vede un massiccio sviluppo, in prospettiva, del GNL, e l’introduzione sempre maggiore di veicoli elettrici, anche pesanti, alimentati da energie rinnovabili. Sul tema della riduzione delle emissioni di metano, Birol ha plaudito agli accordi raggiunti recentemente, che coinvolgono anche le grandi compagnie energetiche mondiali.

Per Eni una trasformazione in corsa

Per l’Amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, “davanti alla trasformazione che abbiamo davanti, che non è ciclica ma strutturale, non dobbiamo cambiare linea di prodotto ma trasformarlo”. “Siamo nella situazione di modificare in corsa un veicolo – ha spiegato Descalzi – e la strategia dei prossimi tre anni deve guardare al breve, brevissimo, medio e lungo termine”. “Si tratta di miliardi investiti in infrastrutture – ha precisato l’Ad – e il primo passo è trasformare la parte hard dell’upstream”. Descalzi ha inoltre ribadito come la strategia di sviluppo di Eni si muova sul versante del gas, che raggiunge quasi al 70% delle riserve della società. “Andremo a superare i 10 milioni di metri cubi all’interno del piano sul GNL. L’ultimo punto strategico per produrre energia sono le rinnovabili”, ha concluso Descalzi, soprattutto per l’Africa dove permane una scarsità di elettricità.

L’obiettivo della Sen in Italia, fuori dal carbone entro il 2025

Intervenendo alla presentazione, il ministro italiano per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha sottolineato come ogni processo di transizione consti di tempi piuttosto lunghi. “Per questo il nostro governo, anche attraverso la nuova Strategia energetica nazionale (SEN) ha stabilito obiettivi a breve, medio e lungo termine”. Un traguardo tra quelli più importanti, ha ricordato Calenda, è l’uscita dell’Italia del carbone entro il 2025.  “Sicuramente, una risorsa che noi consideriamo funzionale al processo di transizione è il gas – ha rimarcato Calenda – e per questo potrebbe risultare ragionevole considerare la realizzazione di un ulteriore impianto di rigassificazione”. La Sen, ha ricordato Calenda, è un piano che vedrà progressive revisioni in base all’evoluzione dello scenario internazionale, delle nuove tecnologie e delle esigenze del Paese. Per il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti “L’Italia è sicuramente tra i Paesi in Europa messi meglio nella battaglia contro i cambiamenti climatici, noi siamo virtuosi a livello globale”. “Non faremo fatica a cogliere gli obiettivi di Parigi – ha evidenziato Galletti – avendo già fatto molto”. Per il ministro l’ambiente è diventato driver di sviluppo economico del Paese. “Oggi il problema è come gestire la transizione, ci sono state esperienze molto positive in questi anni, stiamo mettendo in campo strategie che hanno obiettivi ambientali”.

La Norvegia abbandona il petrolio per le rinnovabili?

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Quando si parla di energia, la Norvegia non è mai banale. Basti pensare che il primo paese europeo per riserve, produzione ed esportazioni di idrocarburi ha un mix di generazione elettrica basato quasi esclusivamente, il 98% tra idro ed eolico, su fonti rinnovabili.

Il governo norvegese, negli ultimi anni, ha inoltre investito massicciamente nel settore della mobilità alternativa, trasformando il paese scandinavo – grazie a ingenti sussidi – nel primo mercato al mondo per auto elettriche pro-capite: 100mila veicoli per una popolazione di 5 milioni di persone, il 40% delle nuove immatricolazioni nell’ultimo anno. Ora, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la proposta di Norges Bank – che gestisce per conto del governo il fondo sovrano norvegese (il Government Pension Fund Global, GPFG) – di svincolarsi dai propri investimenti nel settore petrolifero internazionale. Notizia che, a prima vista, suona stridente, se si considera che l’enorme dotazione finanziaria del fondo – 8.425 miliardi di corone, un trilione di euro – deriva proprio dai proventi delle esportazioni norvegesi di petrolio e gas naturale accumulati a partire dal 1966.

Le mosse finanziarie del GPFG

Grazie ad una saggia amministrazione delle proprie risorse (nel giro di dieci anni, dal 2007 al 2017, il suo valore è quadruplicato), il GPFG è diventato un attore finanziario di portata globale. Ad oggi investe in quasi 9mila società in 77 paesi al mondo, e controlla l’1,3% del capitale di tutte le società quotate a livello globale, il 2,3% in ambito europeo. Detiene quote di colossi internazionali nei settori più disparati, come Apple, Nestlè, Novartis e Amazon, ma anche capitale di player energetici di portata globale come Royal Dutch Shell, Exxon Mobil, Chevron, BP e Total. Che non devono aver preso a cuor leggere l’annuncio fatto da Egil Matsen, vice Governatore di Norges Bank, lo scorso 16 novembre. Attualmente, infatti, più del 6% degli investimenti del fondo sono indirizzati al settore petrolifero, per un valore di circa 60 miliardi di euro spalmati su oltre quasi 400 società.

Valori che secondo la banca centrale norvegese andrebbero progressivamente ridotti, per rendere il governo di Oslo (e quindi i cittadini scandinavi, che beneficiano degli ingenti proventi delle rendite petrolifere) “meno vulnerabile di fronte alla permanente riduzione dei prezzi del greggio e del gas naturale‘. Sebbene il Ministero delle Finanze norvegese debba ancora deliberare sull’implementazione di questa proposta – e presumibilmente non lo farà prima dell’autunno 2018 – il segnale per mercati e operatori del settore non è dei più rassicuranti.

Un clima di crescente incertezza

In primis, perché nella (a dire il vero, remota) eventualità in cui le previsioni di Norges Bank si materializzassero, i risvolti per un’industria petrolifera indebolita (e impoverita) dagli eventi degli ultimi anni sarebbero drammatici. Nonostante l’accordo tra OPEC e gli altri paesi produttori, il greggio fatica a superare la soglia dei 60 dollari al barile raggiunta dopo i picchi al ribasso del gennaio 2015, mentre il prezzo del gas rimane ai minimi a causa della massiccia produzione americana di shale. La possibilità di una “permanente riduzione dei prezzi‘, richiamata da Matsen per spiegare la nuova politica della banca centrale, implicherebbe un ulteriore bagno di sangue per un settore che tra 2015 e 2016 ha perso oltre 400mila posti di lavoro e registrato 170 miliardi di dollari di perdite nette. Ma, seppure uno scenario così catastrofico non dovesse concretizzarsi, le prospettive per le grandi compagnie energetiche internazionali rimarrebbero comunque incerte. Esse, infatti, vedrebbero uscire dal loro capitale un player finanziario globale, che per sua natura dovrebbe credere – sebbene con pragmatismo – nel futuro del settore. Ma se in realtà l’impatto diretto su aziende come Shell (di cui GPFG detiene il 3.4% delle azioni), Exxon Mobil (0.82%), Chevron (0,92%), BP (1,65%) e Total (1,62%) sarebbe limitato, il vero rischio è che la mossa norvegese possa piuttosto determinare un effetto domino tra i grandi investitori globali, tra cui la Kuwait Investment Authority e la Saudi Arabian Monetary Agency.

Le ragioni della scelta norvegese

Per valutare la credibilità di questi scenari, diventa quindi essenziale capire le ragioni della scelta della banca centrale, nonché i motivi di valutazioni così pessimistiche. In un certo senso, la diversificazione del proprio portfolio di investimenti rispetto al settore petrolifero rappresenta una decisione ragionevole per mitigare i rischi legati ai prezzi di greggio e gas naturale, la cui volatilità ha di per sé un effetto intrinseco sulleperformances del fondo. Basti pensare che, a causa del crollo dei prezzi, nel 2016 il governo norvegese ha effettuato per la prima volta dei prelievi dal GPFG, per un valore di 105 miliardi di corone (attorno agli 8 miliardi di euro). Necessità ripresentatasi nel 2017, durante il quale i prelievi del governo hanno raggiunto i 50 miliardi di corone, pari a circa 4 miliardi di euro. Se poi si aggiunge il momento di particolare difficoltà attraversato dal settore petrolifero norvegese, testimoniato dalla recente (fragorosa) uscita di Total dai giacimenti di Martin Linge e Garantiana per un valore di 1.2 miliardi di euro, la prudenza di Oslo appare quindi giustificata.

La nuova frontiera energetica della transizione

Di sicuro, il boom delle rinnovabili e l’incalzare della transizione energetica rappresentano variabili imprescindibili nelle valutazioni delle autorità norvegesi, alle quali si aggiungono le aspettative di un’opinione pubblica – particolarmente vigile sulle attività finanziate dal fondo – sempre più attenta ai temi dell’ambiente e della sostenibilità, al centro anche del dibattito per le elezioni dello scorso settembre. In questo contesto, anche Statoil – compagnia energetica nazionale norvegese – ha abbracciato un strategia industriale sempre più orientata ai temi della sostenibilità, con importanti investimenti nei settori della cattura e stoccaggio della CO2, e della generazione da turbine eoliche offshore. Sebbene scenari apocalittici siano al momento improbabili (e l’era degli idrocarburi sia dunque destinata a continuare a lungo), la lezione proveniente da Oslo è chiara: prestare maggiore attenzione alle dinamiche della transizione energetica e alle sfide della sostenibilità è ormai una priorità che, tanto a livello locale che su scala globale, l’industria petrolifera non può permettersi di sottovalutare.

300 miliardi di danni, si chiude l’anno nero per l’ambiente

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Il 2017 si è rivelato un anno nero per l’ambiente. Secondo le stime di Sigma, la società di ricerche e studi controllata dal gigante delle assicurazioni Swiss Re, quest’anno i disastri ambientali hanno causato danni economici per ben 306 miliardi di dollari, il 63 per cento in più rispetto ai 188 miliardi del 2016. Invariato, ma comunque elevato, il numero delle vittime: 11.000 persone.

Anche quest’anno è toccato agli Stati Uniti sopportare il peso maggiore. Colpa degli uragani Harvey, Irma e Maria che si sono abbattuti sulle coste americane nel secondo semestre dell’anno. Oltre a morti e distruzione, hanno lasciato dietro di sé danni economici stimati in 93 miliardi di dollari, quasi un terzo dei danni calcolati a livello globale. Da questo punto di vista, il 2017 è stato l’anno peggiore dopo il 2005 per gli Usa.

Per l’industria assicurativa, il bilancio è stato elevato in termini di perdite economiche, quantificate in 136 miliardi di dollari, oltre il doppio rispetto ai 65 miliardi dell’anno precedente. Su questo fronte, il 2017 si profila quindi come il terzo anno peggiore di sempre per il settore assicurativo. L’anno con la perdita più alta resta infatti resta il 2011 come conseguenza del terremoto in Giappone, seguito dal 2005, segnato dai disastri causati dagli uragani Katrina, Rita e Wilma che hanno colpito gli Stati Uniti.

Il comparto assicurativo ha imparato a fronteggiare le emergenze ambientali e ha dimostrato di riuscire a far fronte alle ingenti perdite. Privati, aziende e governi dovrebbero però equipaggiarsi meglio per evitare e contrastare queste catastrofi naturali.

Il dito è puntato soprattutto contro Washington. Gli Stati Uniti sono l’unico grande paese rimasto fuori dagli accordi sul clima di Parigi, sottoscritti da Obama e stracciati da Trump. Una decisione a cui il resto del mondo non riesce a rassegnarsi.

«Make Our Planet Great Again»: qualche settimana fa il presidente francese Emmanuel Macron ha cercato con questo slogan di inviare un messaggio forte a Trump in occasione del One Planet Summit, la riunione organizzata nella capitale francese per celebrare il secondo anniversario dell’accordo di Parigi sul clima. Macron ha infatti molto insistito sul fatto che, mentre l’industria globale sta cercando di muoversi compatta verso una produzione più sostenibile, gli Stati Uniti hanno deciso di andare per la loro strada.

Una decisione sostanzialmente politica, presa dall’alto, perché c’è comunque una larga fetta di americani che sull’ambiente e sul clima la pensa in maniera diversa dal proprio presidente, come testimoniato dalla presenza di Bill Gates, John Kerry, Michael Bloomberg, Arnold Schwarzenegger al summit di Parigi.

Tra gli annunci più importanti, quello della Banca Mondiale, che dal 2019 cesserà di finanziare le società che propongono l’esplorazione di nuovi territori per lo sfruttamento di petrolio e gas. Anche il gruppo bancario ING ha annunciato che entro il 2025 smetterà di finanziare progetti basati sull’uso del carbone, mentre il gruppo assicurativo Axa ha dichiarato che rinuncerà a stipulare polizze con le aziende coinvolte nella costruzione di centrali a carbone e investirà nove miliardi di euro in iniziative green entro il 2020.

Ma si tratta perlopiù di promesse, che inoltre avranno effetti sono nel lungo termine. Mentre, come ha ribadito Macron, sul clima «stiamo perdendo la battaglia, non procediamo abbastanza velocemente e questo è drammatico».


Il nuovo modello energetico cinese per dominare il mondo: sostenibilità e diplomazia

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Nel 2049 ricorrerà il centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Ma il 2049 è anche l’anno in cui, secondo il presidente Xi Jinping, la Cina diventerà una “nazione completamente sviluppata”.

Almeno questo è il suo intento. Un obiettivo estremamente ambizioso, con una miriade di implicazioni e, ancor più, di incognite e conseguenze impreviste. Una cosa però è certa: per raggiungere un obiettivo di tale portata la Cina ha bisogno di più energia e di nuovi metodi per procurarsela, distribuirla e utilizzarla. Xi lo sa bene. Effettivamente il presidente ha sottolineato a più riprese l’assoluta necessità della Cina di diventare una nazione più ecologica.

Per farlo, il Paese dovrà trasformare radicalmente le fonti di energia che alimentano il suo sviluppo. Nell’ottobre del 2017 Xi ha tenuto un importante discorso durante il diciannovesimo Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese. In quest’occasione il presidente ha affermato: “Tutto il partito e l’intero Paese sono determinati a conseguire uno sviluppo sostenibile… assumendo un ruolo di primo piano nella cooperazione internazionale in risposta al cambiamento climatico, la Cina partecipa e contribuisce in maniera essenziale, diventando una guida nell’impegno globale per la creazione di una civiltà ecologica“.

Il presidente cinese ha inoltre stabilito una tabella di marcia per raggiungere tale obiettivo. Entro il 2035 si registreranno significativi miglioramenti ambientali e entro la metà del secolo, ha dichiarato Xi, “il progresso ecologico toccherà livelli mai raggiunti”. Il presidente cinese ha promesso inoltre di “intensificare gli sforzi volti a stabilire un quadro giuridico e politico in grado di promuovere produzione e consumi sostenibili, nonché una struttura economica solida che favorisca uno sviluppo ecocompatibile e a basse emissioni di carbonio”. Tuttavia, data l’attuale situazione del settore energetico cinese, non sarà facile mantenere le promesse di Xi in materia di energia e sostenibilità.

Nonostante la Cina stia tentando di migliorare la qualità del proprio mix energetico e di variare i propri modelli di consumo, il percorso verso l’autosufficienza energetica e il rispetto dell’ambiente rimane irto di ostacoli. Sono almeno cinque gli aspetti dell’attuale situazione energetica cinese che influenzeranno in maniera significativa l’esito degli sforzi di Xi in tale ambito.

1 CONDIZIONI INIZIALI AVVERSE
Nonostante la Cina abbia compiuto progressi straordinari verso un modello energetico low-carbon, è ancora responsabile di circa il 29 percento delle emissioni che sono alla base del riscaldamento globale, il doppio degli Stati Uniti (14 percento) e quasi il triplo dell’Unione Europea (10 percento). Le previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) indicano che al 2035, tappa fondamentale nel programma di Xi, il Paese sarà ancora il principale responsabile delle emissioni di gas serra. Un risultato dunque deludente, nonostante il deciso aumento delle fonti più pulite e rinnovabili, che nel 2035 dovrebbero coprire un quarto del fabbisogno energetico cinese.

2 SPRECHI ENERGETICI
Oltre a utilizzare energia proveniente dalle fonti più inquinanti, la Cina ha un consumo energetico caratterizzato da inefficienze e sprechi. Per ogni punto percentuale di crescita economica, la Cina necessità, infatti, di una quantità di energia quattro volte superiore a quella della media dei Paesi OCSE e tre volte superiore a quella della media dell’America Latina. Le ragioni di questa enorme inefficienza energetica sono varie, complesse e difficili da contrastare. Il fattore principale è probabilmente la presenza di attrezzature e impianti industriali obsoleti altamente inquinanti, e questo vale soprattutto per le centrali elettriche, ma non solo: il consumo energetico delle grandi industrie, chimica, siderurgica, alluminio, cemento e vetro, è estremamente inefficiente. Inoltre, gli edifici cinesi, sia commerciali che residenziali, hanno un fabbisogno energetico per riscaldamento e climatizzazione superiore alla media.

3 DIPENDENZA DAL CARBONE PERDURANTE
Il terzo fattore è legato all’eccessiva dipendenza della Cina dal carbone, il più inquinante dei combustibili fossili. Il Paese è, in effetti, sia il principale consumatore, con quasi la metà del consumo globale, che il principale importatore di questa fonte. I bassi prezzi del carbone ne favoriscono l’uso su vasta scala. Modificare tali dinamiche sarebbe un’operazione politica altamente rischiosa per qualsiasi Paese, e la Cina non fa eccezione. I tentativi del governo di ridurre tale dipendenza, chiudendo alcune miniere di carbone, si sono scontrati con la resistenza dei minatori, scesi in strada per protestare contro il taglio di oltre un milione di posti di lavoro previsto dal governo. Inoltre, alcune politiche contraddicono gli sforzi del governo. L’esempio più evidente è che Pechino, pur volendo chiudere le miniere, ha in programma di costruire circa 700 centrali elettriche alimentate a carbone. L’attuale eccesso di dipendenza dal carbone evidenzia anche un costo elevato in termini di vite umane e di qualità ambientale. Un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2016 rivela come l’inquinamento atmosferico provocherà 1,3 milioni di decessi prematuri in Cina, rispetto alle 655.000 vittime dell’India, al secondo posto. Uno studio realizzato da Teng Fei, professore presso l’università di Tsinghua, mostra che più del 70 percento della popolazione cinese è esposta a livelli di inquinamento dieci volte superiori a quelli ritenuti sicuri. Una situazione così critica dovrebbe spingere la Cina a intensificare gli sforzi per ridurre la propria dipendenza dal carbone ma, nello stesso tempo, pone anche di fronte a decisioni politiche delicate.

4 BOOM DELLE IMPORTAZIONI DI ENERGIA INQUINANTE
Quarto fattore, la crescita delle importazioni energetiche cinesi, principalmente costituite da oli pesanti e carbone che, stando alle previsioni passeranno, dal 16 percento dei consumi totali nel 2015 al 21 percento nel 2020. La Cina importa attualmente circa 7,6 milioni di barili di petrolio al giorno, tra cui oltre un milione di barili al giorno di una miscela pesante di Ural blend dalla Russia e circa 300.000 barili al giorno di olio pesante venezuelano, entrambi altamente inquinanti. Se non verranno sostituite da fonti più pulite, queste importazioni si ripercuoteranno negativamente sugli obiettivi ambientali di Xi per il 2035.

5 NON È UNA QUESTIONE DI SCISTO, MA DI ACQUA
Secondo il World Resources Institute (WRI), la Cina possiede circa 1.200 trilioni di piedi cubi di gas di scisto, le riserve più grandi al mondo. Il problema è che per uno sviluppo su larga scala di queste risorse sono necessari ingenti volumi di acqua che il Paese potrebbe non avere. L’acqua è fondamentale per la fratturazione idraulica, la tecnica utilizzata per l’estrazione di idrocarburi dalle formazioni di scisto. Dal rapporto del WRI emerge che oltre il 60 percento di queste risorse di gas di scisto si trova in regioni aride della Cina, caratterizzate da carenza idrica. L’acqua utilizzata per la fratturazione idraulica viene sottratta all’agricoltura o ad altre attività, un difficile compromesso per qualsiasi Paese. In effetti, in Cina la fratturazione idraulica su larga scala potrebbe essere in conflitto con un altro obiettivo di Xi, ovvero “garantire la sicurezza alimentare della Cina” entro il 2050. Nonostante i dati sulla disponibilità dell’acqua siano ancora incompleti, è evidente che il pieno sfruttamento delle enormi riserve cinesi di petrolio e gas di scisto potrebbe essere limitato dall’insufficienza di risorse idriche. Negli ultimi decenni la Cina ha sorpreso il mondo con una continua crescita economica che si è tradotta in un’impressionante riduzione della povertà. Forse il Paese saprà stupirci anche con una rapida transizione da un modello energetico inefficiente e inquinante a un modello sostenibile e low-carbon. Si tratta di una svolta impegnativa e indispensabile, per la Cina e per l’intero pianeta.

L’italiana Eni ha sviluppato un diesel che riduce impatto ambientale e consumi

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Il nuovo Diesel Plus è un successo della ricerca italiana. Sviluppato dal Gruppo Eni nella bioraffineria di Venezia, grazie al 15% di componente green rinnovabile riduce l’impatto ambientale e i consumi fino al 4% rispetto al diesel tradizionale [Video-Post sponsorizzato].

E’ italiano il primo veicolo elettrico con batteria estraibile e si chiama Birò

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Birò è un’auto elettrica innovativa, il primo personal Commuter a 4 ruote con batteria estraibile. Prodotto dalla italiana Estrima, grazie alle sue dimensioni compatte può girare agilmente nel traffico urbano, accedere liberamente nelle zone a traffico limitato, parcheggiare nello spazio di uno scooter (l’unica auto elettrica che per dimensioni può parcheggiare negli spazi riservati alle moto) [Video-post sponsorizzato].

Europa e Cina: grazie a Trump mai così vicini

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Alla luce delle peculiari posizioni del Presidente americano Donald Trump sull’attuazione dell’Accordo di Parigi, una nuova singolare alleanza globale sembra aver ormai preso forma. L’Unione europea, first mover delle politiche globali per la lotta al cambiamento climatico, non è infatti mai stata così vicina alla Cina sui temi della decarbonizzazione e della sostenibilità.

Con soltanto l’8 percento delle emissioni globali di CO2 l’UE è certamente – tra le grandi potenze – quella che ha intrapreso la più solida e credibile traiettoria di riduzione del proprio impatto ambientale. L’Europa ha già ridotto del 22 percento le proprie emissioni rispetto al 1990, ed è quindi ampiamente in linea con gli obiettivi fissati dal suo Pacchetto 2020, mirando ora alla riduzione del 40 percento entro il 2030.

Nel lungo periodo, Bruxelles punta ad un abbattimento quasi totale delle proprie emissioni (tra 80 percento e 95 percento al 2050), target che tuttavia risulta ancora non del tutto in linea con le sue politiche climatiche e con le traiettorie attualmente in atto in Europa. Diametralmente opposta la situazione della Cina che, con oltre 10 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra (sorpassati gli Stati Uniti nel 2006), contribuisce a quasi un terzo di tutta la CO2 immessa nell’atmosfera. Quella cinese è una progressione stratosferica – emissioni raddoppiate nel giro di 10 anni – e, in un certo senso, ancora imprevedibile. Negli ultimi anni si sono susseguite diverse ipotesi di picco per le emissioni cinesi, con risultati macroscopicamente errati o contraddittori.

Il dato di fatto è che nel 2017 – dopo un paio di anni di moderatissimo declino – le emissioni di Pechino sono nuovamente cresciute di un significativo 3,2 percento (spingendo la CO2 globale a un +2 percento), alimentando lo scontento, ma soprattutto la preoccupazione, degli osservatori della lotta ai cambiamenti climatici. Un crescita che non sembra volersi arrestare, nonostante gli sforzi in atto per ridurre la propria impronta carbon, e il nuovo ruolo di player globale nelle politiche di decarbonizzazione e lotta al cambiamento climatico.

Sul piano internazionale, l’impegno cinese e la partnership con gli Stati Uniti di Obama nel 2015 hanno infatti contribuito al successo della COP21 e alla firma dell’Accordo di Parigi, e nonostante la successiva decisione di Washington (questa volta, con Trump) di non rispettare gli impegni internazionali sul clima, Pechino sembra più che mai pronta a mantenere – se non rafforzare – il proprio ruolo di leader. Una decisione, quella della Casa Bianca, che ha di fatto cementato la partnership climatica globale tra UE e Cina, pronte a ribadire – immediatamente dopo l’annuncio del Presidente americano – il loro impegno congiunto nei confronti dell’Accordo di Parigi.

Grazie infatti a un concomitante summit bilaterale organizzato a Bruxelles il 1 giugno, le parti hanno avuto modo di discutere e reiterare la loro volontà di proseguire sulla linea tracciata dalla COP21, nonostante la defezione americana. E se una serie di divergenze in materia commerciale hanno fatto saltare l’adozione di una dichiarazione congiunta che sancisse formalmente la completa adesione delle parti ai 29 articoli dell’Accordo e il mutuo impegno verso gli irreversibili processi di transizione energetica in essere, Cina e Ue non sono mai state così in sintonia nella lotta ai cambiamenti climatici.

Cambio di marcia: dal dialogo alla co-leadership?

In realtà, le relazioni bilaterali Ue-Cina sul clima datano ben prima della recente inversione a U di Trump, circa a metà degli anni ’90, quando le emissioni europee erano di un quarto maggiori rispetto a quelle cinesi (4000 milioni di tonnellate di CO2 vs. 3000 milioni). Il dialogo settoriale sulle politiche energetiche lanciato nel 1994 (dal quale è scaturita una biennale Energy Cooperation Conference) e quello sulle questioni ambientali del 1996 hanno gettato le basi per le prime interazioni tra istituzioni europee e cinesi, mentre a margine dell’EU-China Summit del 2005, Bruxelles e Pechino hanno firmato una Joint Declaration on Climate Change, nell’ambito della quale è stata formalizzata la partnership sul cambiamento climatico. Dopo di essa si sono susseguite una serie di iniziative (Joint Statement on Dialogue and Cooperation on Climate Change e EU-China Environmental Governance Program, 2010; EU-China Environmental Sustainability Program, 2012; EU-China 2020 Strategic Agenda for Cooperation, 2013; EU-China Joint Statement on Climate Change, 2015) che hanno progressivamente contribuito a rafforzare le relazioni bilaterali, pur sempre rispecchiando la necessità/volontà europea di includere Pechino come interlocutore credibile nell’arena internazionale.

Anche alla luce delle drammatiche condizioni ambientali interne, che alimentano crescenti proteste popolari nel Paese, negli ultimi anni il governo cinese ha avviato una seria revisione delle proprie politiche energetiche e climatiche, con l’obiettivo di trovare un modello di compromesso tra la necessità di mantenere alti i tassi di crescita della propria economia e quella di limitare le proprie emissioni.

In quest’ottica, l’esperienza dell’Unione europea rappresenta certamente un potenziale modello per i piani cinesi: l’Ue, infatti, ha creato il più sofisticato ed efficace modello di sviluppo sostenibile, che come sottolineato dal Commissario europeo per l’Energia e le Politiche Climatiche, Miguel Arias Canete, ha garantito, dal 1990, una crescita del PIL di oltre il 50 percento a fronte della riduzione del 22 percento delle emissioni di CO2.

Nonostante le sfide del carbon leakage e della delocalizzazione delle proprie attività industriali, l’Europa può contribuire in modo significativo agli sforzi cinesi in questo senso. L’Ue rappresenta il leader indiscusso delle tecnologie low-carbon, con oltre il 44 percento dei brevetti registrati nel suo territorio, e rappresenta quindi un interlocutore essenziale qualora Pechino volesse accelerare in modo credibile la propria traiettoria di decarbonizzazione. Al contempo, l’accesso all’immenso mercato cinese è un obiettivo chiave per le politiche di export dell’Ue e dei suoi attori industriale (si calcola che, dal 2009, 300mila tecnologie low-carbon siano state trasferite dall’Europa alla Cina), soprattutto in vista dell’ulteriore accelerata di Pechino sul fronte green. Ma la partnership sembra ormai andare oltre questa dimensione puramente bilaterale di apprendimento/trasferimento.

Grazie al cambio di marcia della Cina in preparazione della COP21, al suo ruolo fondamentale nel mobilitare e incoraggiare un approccio attivo e responsabile dei paesi in via di sviluppo, e agli immensi investimenti interni lanciati per far fronte a una situazione ambientale insostenibile, il rapporto fra Bruxelles e Pechino appare oggi più bilanciato e solido, e funzionale alla creazione di governance climatica globale più credibile ed efficace grazie al loro impegno congiunto.

Ue e Cina, infatti, si possono presentare come i garanti di un’alleanza trasversale nord-sud, tra paesi industrializzati e quelli “in via di sviluppo”, senza la quale ogni tentativo di implementazione dell’Accordo di Parigi rischierebbe di fallire. Un ruolo in grado di accrescere lo status internazionale di entrambi, di un’Europa che nonostante i grandi investimenti fatica ancora a incassare i “dividenti politici” della propria leadership climatica, e di una Cina che – come pilastro della transizione energetica – può finalmente proporsi come attore chiave (e credibile) nei meccanismi di governance mondiale. Una co-leadership che può certamente dare stimolo positivi alle politiche globali di decarbonizzazione, ma che alla luce delle sue forti implicazioni economiche e strategiche, potrebbe innescare alcune dinamiche competitive, se non addirittura conflittuali, tra Bruxelles e Pechino. La lotta al carbone al centro della cooperazione.

Il carbone è certamente il nemico comune numero uno di Ue e Cina. Il problema in Europa può essere riassunto con questi semplici dati: sebbene contribuisca a poco meno del 25 percento della generazione europea, contribuisce a oltre il 75 percento delle emissioni dell’Unione.

E se Bruxelles è in prima linea nella lotta al più inquinante dei combustibili fossili, va tuttavia notato come alcuni Stati membri ne sono ancora estremamente dipendenti nel settore elettrica, cui contribuisce per l’80 percento in Polonia, e oltre il 40 percento in Repubblica Ceca, Bulgaria, Grecia a Germania. Un problema, quello del carbone, di cui in Cina conoscono bene gli effetti devastanti su ambiente e salute. Nel Paese il carbone, che contribuisce ancora a quasi i tre quarti della produzione totale di elettricità con una capacità installata di oltre 900 Gigawatt (Gw), è la principale causa delle morti per inquinamento dell’aria: 86mila vittime causate dall’uso di carbone nella generazione, alle quali si aggiungono 55mila morti per il suo utilizzo nei processi industriali, e oltre 170mila decessi a causa dell’uso di carbone e biomasse a livello domestico. Numeri da brivido, per fronteggiare i quali il governo di Pechino ha annunciato il congelamento di cento nuovi impianti a combustibili solidi, da rimpiazzare con addizionale capacità di generazione da rinnovabili. Nonostante questi sforzi, per limitare l’impatto devastante degli impianti tuttora in funzione, la Cina necessita di nuove tecnologie per la cattura e lo stoccaggio della CO2, nonché di efficienti meccanismi “per prezzare” le emissioni e incentivarne la riduzione attraverso dinamiche di mercato.

Le iniziative congiunte China-EU Near Zero Emission Coal (NZEC) e soprattutto l’EU-China ETS Project – un progetto triennale per sostenere la progettazione e l’attuazione dello scambio di quote di emissione in Cina – rappresentano, in questo senso, importanti basi di cooperazione. In questo contesto, anche le città giocano un ruolo centrale nella lotta congiunta di Ue e Cina al cambiamento climatico. Proprio dalle città cinesi è partito il grido di allarme che ha portato il governo di Pechino ad accelerare la propria traiettoria low-carbon, e la collaborazione con i corrispettivi europei – attraverso la EU-China Low Carbon City partnership – può portare significativi vantaggi grazie al rafforzamento di dinamiche bottom-up ancor troppo difficile da implementare nel sistema socio-politico cinese.

Con lo sguardo puntato verso l’Africa

Nonostante la necessità di affrontare in modo congiunto (o quantomeno coordinato) le molteplici sfide innescate dai cambiamenti climatici, la luna di miele tra Ue e Cina potrebbe attraversare terreni particolarmente sdrucciolevoli. Infatti, oltre a essere un processo ineluttabile per garantire la vivibilità del pianeta terra, la transizione energetica ha anche una forte dimensione economico-industriale, che può innescare elementi di competizione geopolitica. Alla luce del valore degli investimenti previsti per l’implementazione dell’Accordo di Parigi – 23 trilioni di dollari al 2030, secondo le stime della Banca Mondiale – quella della decarbonizzazione può diventare una partita particolarmente appetibile per Bruxelles e Pechino. Con 170 paesi (sui 197 firmatari) che hanno già ratificato l’Accordo, e sono quindi pronti a intraprendere misure di mitigazione e adattamento per rispettare i Nationally determined contributions (NDCs) sottoscritti a Parigi, il potenziale di intervento è immenso.

Sia Cina che Ue vorranno pertanto farsi trovare pronte – la prima sfruttando principalmente la propria leva finanziaria, le secondo grazie al suo primato tecnologico – per entrare con le proprie industrie in questi immensi mercati. L’Africa è senz’ombra di dubbio una di quelle aree dove la transizione energetica e i processi di decarbonizzazione potranno prendere piede in modo più sensazionale. A guardare i dati dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), si capisce chiaramente quanto il potenziale low-carbon del continente sia immenso: 300mila Gw di capacità solare, 7mila Gw di eolico.

In una regione dove ancora 600 milioni di cittadini non hanno accesso all’energia, questo potenziale rappresenta un’eccellente opportunità industriale per le aziende low-carbon europee e cinesi. Ottenere un accesso privilegiato a mercati così ampi, e in rapida espansione, rappresenta un importante driver per le esportazioni di tecnologie, know-how e servizi in paesi e regioni che stanno creando praticamente da zero il loro settore energetico.

Bruxelles e Pechino sono già fortemente presenti nel continente, con sforzi diplomatici (tanto bilaterali quanto multilaterali) che si sovrappongono a iniziative industriali e azioni di cooperazione allo sviluppo. Ma la penetrazione tecnologico-industriale nel settore low-carbon – in Africa come altrove – potrà anche avere chiare implicazioni di natura geopolitica e strategica. Infrastrutture, tecnologie e processi per affrontare la transizione energetica e renderla sempre più efficiente e sostenibile diventeranno infatti strumenti e fattori di cooperazione politica, in grado di determinare orientamenti, scelte e posizionanti “di campo” di diversi attori all’interno dell’arena globale. In quest’ottica, l’Ue ha tutta l’intenzione di massimizzare gli sforzi (economici, ma anche sociali) intrapresi nel decennio passato per assicurarsi un ruolo guida all’interno della transizione. La crescita esponenziale della Cina in questo ambito – nel 2015 Pechino ha speso due volte e mezzo in più dell’Ue in clean energy, e negli ultimi cinque anni gli investimenti in Ricerca e Sviluppo sono cresciuta del 73 percento contro il 17 percento di quelli europei – rischiano di annullare in tempi brevissimo il gap accumulato in questi anni da Bruxelles. Una notizia certamente positiva per la sostenibilità del pianeta, forse un po’ meno per la crescita industriale e le ambizioni strategiche dell’Europa.

 

Il futuro dell’energia tra domotica, intelligenza artificiale e digital divide

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L’Internet dell’Energia esiste ormai da molti anni ma molti non lo concepiscono come tale. Quando una nave di ricerca invia un sonogramma tramite Internet agli uffici di una compagnia di trivellazione con sede a Houston da un posto qualsiasi davanti alle coste dell’Africa siamo in presenza di un’applicazione di Internet dell’Energia.

Lo scambio di dati tra computer al fine di valutare il flusso dell’energia è un’altra forma di questo fenomeno. Un ulteriore esempio è costituito dalle e-mail o altre forme di messaggi che gli operai inviano tramite Internet dai giacimenti di gas di scisto alla sede centrale della loro azienda.

Lo sviluppo delle smart grid richiede l’invio di grandi quantità di dati da molte zone di tali reti. Perfino le microreti, e in particolare le microreti smart, richiedono un flusso di informazioni rilevante. Quando una spider Tesla invia dati sul consumo della batteria e su altri aspetti relativi all’energia siamo di fronte a un ulteriore esempio.

Le case e gli uffici “intelligenti” sono dotati di apparecchiature e dispositivi smart per l’illuminazione, il raffreddamento e il riscaldamento e di computer che condividono le informazioni con diverse stazioni di controllo o il dispositivo di controllo installato in casa. Anche le aziende ad alto consumo energetico possono condividere i dati con società energetiche, quali le aziende produttrici e distributrici di elettricità e gli operatori di sistema locali, regionali o indipendenti, quando è necessario procedere a una riduzione di carico o nel caso di un’asta relativa al prezzo dell’energia. Tra non molto tempo i contatori smart presenti nelle abitazioni e negli edifici saranno considerati obsoleti.

L’energia “intelligente” sarà la rivoluzione del futuro

Nel 1999 Kevin Ashton affermò che “l’Internet delle cose consiste nel fare in modo che i computer… possano vedere, percepire gli odori e sentire i suoni che li circondano”. Mentre l’intelligenza artificiale sta prendendo piede in molti aspetti dell’economia, della società e dei sistemi non energetici, potrebbe essere necessario applicarla anche ai sistemi energetici, per tenerli al passo con i tempi. Simili sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale possono portare anche a un aumento della sicurezza e dell’efficienza energetica, a una riduzione delle sostanze inquinanti e dei gas serra, a una mitigazione dei cambiamenti climatici e possono contribuire a sviluppare approcci al consumo dell’energia più sistematici e basati sui dati. Ciò richiederà l’utilizzo di quantità di dati enormi, addirittura strabilianti.

Entro il 2030 il 60% della popolazione vivrà nelle città. Attualmente le città producono circa il 75-80% dei gas serra a livello mondiale. E consumano circa il 75% dell’energia da fonti non tradizionali. Questa è la situazione attuale. Pensiamo a cosa potrà succedere nel 2030, 2050, 2100 e oltre. Chiaramente, uno degli obiettivi per lo sviluppo dell’Internet e dell’intelligenza artificiale dell’energia è la città. Nei centri più piccoli in espansione normalmente il consumo di energia pro-capite è più elevato rispetto a quello delle grandi megalopoli, dotate di infrastrutture, sistemi energetici e di trasporto più maturi.

Le città più smart danno un maggiore contributo alla riduzione del consumo di energia pro-capite rispetto a quelle meno smart. Ciò può avvenire anche nei paesi e nelle cittadine più piccole, ma non su così vasta scala. Tuttavia i centri più piccoli non dovrebbero essere ignorati da questi cambiamenti. Le nazioni più ricche e sviluppate avranno maggiori possibilità di sviluppare l’Internet e l’intelligenza artificiale dell’energia. È probabile che ciò porterà a un aumento della disparità nei consumi energetici, che potrebbe verificarsi anche tra aree urbane e aree rurali, e tra grandi città e città di dimensioni più modeste. Si tratta di un fenomeno che dovrà essere seguito con attenzione nel processo di sviluppo e di crescita dell’Internet e dell’intelligenza artificiale dell’energia. Inoltre, città nuove, in crescita e in fase di sviluppo potrebbero essere in grado di sfruttare le nuove idee e tecnologie meglio delle città più vecchie, che fanno molto affidamento su una serie di sistemi più tradizionali. Spesso le autorità cittadine non capiscono il concetto di “costi irrecuperabili” e l’importanza di procedere a dei cambiamenti nel sistema energetico e nelle infrastrutture.

In questo senso i vecchi sistemi elettrici di alcune città americane sono emblematici. Una delle ragioni principali per cui l’uragano Sandy ha avuto conseguenze così devastanti risiede nel fatto che i sistemi elettrici non erano in grado di rispondere con prontezza, erano basati su idee vecchie ed erano privi di qualsiasi capacità di resilienza derivante dall’applicazione dell’Internet dell’energia o dell’intelligenza artificiale a reti di piccole dimensioni facenti parte di reti più ampie che possono essere scollegate nei momenti di grande stress.

Il New Jersey sta già lavorando a una tale soluzione. Sarà interessante vedere che piega prenderanno le cose. Lo sviluppo di sistemi per l’immagazzinamento dell’energia e di Energy Information System efficienti costa molto. Difficilmente a Kibera, in Kenya, dove le autorità non riescono a garantire servizi igienico-sanitari validi, una rete idrica efficiente e programmi alimentari per i residenti che vi vivono in condizioni di povertà, verrà sviluppato un Internet dell’energia. Inoltre le società meno avanzate sul piano culturale difficilmente riusciranno a sfruttare i benefici dell’Internet dell’energia e dell’intelligenza artificiale.

Come si può chiedere a persone che sanno a mala pena leggere, se non del tutto analfabete, di gestire dei sistemi elettrici intelligenti? Tuttavia questi ultimi due esempi dimostrano i vantaggi che simili sistemi potrebbero portare nelle parti più povere del mondo al di là dello sviluppo di reti energetiche efficienti. Pensiamo al settore dell’istruzione, all’addestramento e alle capacità che potrebbero essere sviluppate, con l’aiuto di terzi, in queste comunità e in questi paesi, e agli enormi benefici per le popolazioni. Talvolta le potenzialità maggiori si nascondono nei luoghi più poveri del pianeta. Sicurezza e resilienza energetica possono fare una grande differenza nella vita di molte persone, e l’Internet e l’intelligenza artificiale dell’energia possono dare il loro contributo se applicati, anche solo in parte, nella maniera corretta.

Dalla Rete un sostegno per efficientare il sistema energetico mondiale

Sicurezza energetica significa avere una fornitura a prezzi competitivi e alla portata di tutti. Significa anche che l’energia è accessibile e disponibile. E significa infine avere una fornitura affidabile e ininterrotta. La resilienza è una parte importante di tutti questi aspetti della sicurezza energetica.

L’Internet e l’intelligenza artificiale dell’energia possono accrescere notevolmente la sicurezza energetica. Attraverso una maggiore disponibilità di informazioni e l’analisi di queste ultime, un maggiore controllo dei sistemi e compromessi più efficaci tra consumo energetico, prezzi e produzione, lavorazione, trasmissione e distribuzione dell’energia. E questo è solo l’inizio per quanto riguarda i possibili utilizzi dell’Internet dell’energia. E con ciò intendo in tutti i sistemi energetici (petrolio, gas, carbone, nucleare, energie rinnovabili, elettricità, gestione della domanda, immagazzinamento, e perfino cose che ancora nemmeno immaginiamo) all’interno di un sistema economico, tra sistemi economici diversi ed eventualmente in tutto il mondo, e perfino nell’atmosfera e nello spazio.

Un maggiore sviluppo dell’Internet e dell’intelligenza artificiale dell’energia migliorerebbe la capacità di analisi e di controllo di sistemi energetici spaziali e satellitari e molto altro ancora. Le potenzialità in questo campo sono sbalorditive. Normalmente, in una qualsiasi nazione ben oltre il 50% dell’energia che entra nel sistema viene sprecata. Tale spreco di energia produce delle esternalità, quali la produzione di gas serra, particolato e inquinamento idrico e atmosferico. Ciò significa che in molte parti del mondo la presenza della maggioranza delle sostanze inquinanti non dipende dal consumo effettivo dell’energia che le produce. Che incredibile spreco di risorse! L’Internet e l’intelligenza artificiale dell’energia potrebbero ridurre notevolmente questi sprechi e aiutare tutti noi a controllare meglio le emissioni inquinanti e di gas serra.

Inoltre l’Internet e l’intelligenza artificiale dell’energia possono contribuire a ridurre alcuni rischi nell’ambito della catena di fornitura, le perdite e gli sprechi dei sistemi energetici. I vantaggi derivanti dall’impiego di questi nuovi sistemi possono andare ben oltre l’aumento della sicurezza energetica. Considerando che i sistemi energetici sono collegati ad altri sistemi a loro volta facenti parte o legati ad altri sistemi ancora, l’applicazione dell’Internet e dell’intelligenza artificiale anche a questi ultimi potrebbe portare a un miglioramento esponenziale o logaritmico nei consumi idrici, nel settore dei trasporti, in ambito economico e finanziario, nei settori delle comunicazioni, dell’istruzione e sanitario, nell’utilizzo delle risorse naturali, umane e ingegneristiche e in molti altri ambiti.

Internet e l’intelligenza artificiale di vari sistemi collegati tra loro possono portare a notevoli miglioramenti in molti aspetti se in fase di sviluppo, applicazione ed esecuzione si tiene sempre bene presente il quadro d’insieme.

Aumentare i livelli di cyber security

Tutto questo ha però anche degli aspetti negativi. Uno di essi è rappresentato dalla minaccia latente di attacchi informatici o fisici a tali sistemi intelligenti così strettamente collegati tra loro. È quindi necessario sviluppare dei metodi di sorveglianza, controllo e disconnessione. In futuro sarà necessario concentrarsi sull’implementazione di sistemi autoriparanti.

Mano a mano che vengono individuati non solo i vantaggi, ma anche i costi, i possibili problemi e le implicazioni relativi all’uso di questi sistemi basati sull’intelligenza artificiale e collegati tramite Internet dovranno essere sviluppate nuove leggi, norme e politiche. In futuro potrebbero profilarsi anche problemi relativi alla privacy. In questa fase di sviluppo sono richiesti apprendimento, addestramento, comunicazione strategica e leadership. Sarebbe meglio non lasciare tutto nelle mani delle affascinanti scienze informatiche e ingegneristiche. È necessario proteggere e sviluppare i sistemi naturali e umani nel corso dell’intero processo.

Senza dimenticare che l’eventuale sviluppo di computer quantistici porterebbe una rivoluzione nell’Internet e nell’intelligenza artificiale dell’energia e praticamente in ogni aspetto della nostra vita. Il futuro ha in serbo molte sorprese positive ma anche molti potenziali rischi e problemi, che devono essere studiati e analizzati in maniera sistematica e olistica. È necessario considerare anche gli aspetti morali, etici e legislativi legati a tutti questi cambiamenti. Si profilano all’orizzonte molte sfide per le autorità a diversi livelli, ma pensiamo a quello che potrebbe riservarci il futuro. Potremmo essere davvero a un punto di svolta nel settore dell’energia e in molti altri sistemi, ma è necessario procedere correttamente.

Eni ha scoperto giacimenti in Egitto, Venezuela e Mozambico grazie ai Big Data

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Il Gruppo Eni è costantemente a caccia di nuove riserve di idrocarburi e sta utilizzando Big Data e super computer in modo massiccio. Sta cercando nelle acque egiziane intorno al giacimento super-giant di gas Zohr, scoperto nell’agosto del 2015. E poi in Alaska, in Messico, in Marocco, nel Golfo di Guinea, in Angola, Costa d’avorio, Indonesia e al largo dell’Oman.

Perché se è vero che la decarbonizzazione è l’obiettivo del futuro attraverso lo sviluppo delle fonti rinnovabili, dopo gli accordi sul Clima di Parigi, è anche vero che l’agenzia internazionale dell’energia prevede da qui al 2040 una crescita della domanda di energia del 30% che sarà soddisfatta in parte ancora dalle fonti tradizionali: il consumo di gas naturale aumenterà, secondo le stime, del 45%.

Dal 2008 c’è stata un’evoluzione, anche tecnologica, nell’esplorazione. Da allora il gruppo guidato da Claudio Descalzi ha scoperto una piattaforma del giacimento di Zohr, davanti all’Egitto: il più grande giacimento di gas nel Mediterraneo miliardi di barili di risorse, un risultato che posiziona il gruppo controllato al 30% dal Tesoro davanti alle altre oil company nell’esplorazione.

Negli ultimi anni Eni ha individuato tre campi giant e supergiant a gas in Venezuela (Perla), Mozambico (Mamba Coral) e in Egitto (Zohr) e ha compiuto importanti scoperte a olio in Congo, Ghana , Angola e Norvegia, cui vanno aggiunte quelle più piccole. Ma a rappresentare una svolta strategica è stata l’adozione del «dual exploration model», che prevede da un lato di aumentare le riserve di idrocarburi e dall’altro di monetizzare anticipatamente gli investimenti attraverso la vendita di quote di minoranza.

Emblema di questa strategia sono l’area4 in Mozambico, di cui lo scorso anno Eni ha ceduto il 25% a Exxon Mobil, e il super giacimento Zohr, di cui ha trasferito il 30% a Rosneft e il 10% a Bp. Tra la scoperta e l’avvio alla produzione del primo gas egiziano sono passati meno di due anni e mezzo. Un successo che è anche frutto dell’utilizzo dei Big Data, che hanno permesso di ridurre il margine di errore nell’esplorazione. Le operazioni di ricerca iniziano con la prospezione geofisica, che serve a individuare le cosiddette trappole, cioè i serbatoi di rocce che consentono la formazione e l’accumulo di idrocarburi. Ora anche grazie al nuovo supercalcolatore Hpc4 sarà più facile ridurre il rischio di errore. La digitalizzazione permette di interpretare meglio i dati anche dei giacimenti che si trovano sotto stratificazioni complesse come nell’off-shore. Eni non è l’unica compagnia a servirsi di un calcolatore, è una tecnologia che usa anche Total, benché la sua sia meno potente. E poiché «aprire un pozzo è un impegno di decine di milioni di euro», come ha spiegato Descalzi, l’uso dei big data risulta fondamentale.

Il riflesso dei risultati nell’esplorazione è rappresentato dalla produzione, che ha registrato lo scorso anno numeri record. Il 2017 è stato archiviato dall’Eni con «risultati eccellenti», prendendo in prestito le parole di Descalzi, che il 16 febbraio presenterà a Londra la nuova strategia del gruppo petrolifero basata sul «dual exploration model».

L’attività di esplorazione presenta delle criticità legate non solo alla conformazione del sottosuolo ma anche al contesto geopolitico delle aree in cui i potenziali giacimenti si trovano. In dicembre Descalzi ha spiegato che non ha intenzione di abbandonare le attività in Venezuela nonostante la situazione di crisi che sta vivendo il Paese.

E più di recente ha dovuto gestire l’emergenza nelle acque di Cipro. La scorsa settimana Eni ha fatto rientrare la nave Saipem 12000 che aveva affittato per l’esplorazione nelle acque al largo di Cipro. Era stata bloccata per alcuni giorni da cinque navi militari turche e Descalzi aveva anticipato che se la situazione non si fosse sbloccata avrebbe rinviato l’esplorazione spostando la Saipem 12000 verso altre destinazioni. Alla fine la nave è stata costretta a rientrare. Gli sforzi diplomatici di Cipro e della Ue non sono riusciti a rompere lo stallo con Ankara.

La traiettoria energetica dei Balcani, snodo strategico del gas europeo

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La recente visita del Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini nell’abito del Western Balkans Tour ha (ri)acceso i riflettori sull’ultimo angolo di continente ancora esterno al processo di integrazione europea.

Quei Balcani occidentali, usciti vent’anni fa dal doloroso e sanguinoso processo di disintegrazione della Jugoslavia, sono tuttora focolaio di tensioni politiche mai sopite – si pensi al Kosovo e alla Repubblica di Macedonia – ma anche mercato energetico in evoluzione e crocevia strategico per il flussi verso il vecchio continente.

La (lunga) strada verso l’integrazione

L’Ue – questo è il messaggio chiave emerso dal recente tour dei leader europei – è la destinazione naturale per Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Repubblica di Macedonia e Serbia, i paesi dei Balcani occidentali ancora fuori dall’Unione. E la loro strada verso l’integrazione europea – più o meno rapida in base ai diversi casi – sarà definita e delimitata da una serie di riforme di natura politica, economica, sociale ed istituzionale, messe nero su bianco dalla Commissione nell’ambito della Strategia “UE-Balcani occidentali” pubblicata a inizio febbraio.

Le priorità di Juncker e soci riguardano in particolare il rafforzamento dello stato di diritto e delle istituzioni democratiche, la lotta alla corruzione, la tutela dei diritti umani, il consolidamento di un’economia competitiva e di mercato e, più in generale, la risoluzione di una serie di dispute bilaterali tra i paesi della regione. Abbastanza deboli, per non dire assenti, i messaggi dei leader europei in materia di energia, nonostante la strategia ponga una certa enfasi soprattutto sull’estensione dell’Energy Union alla regione, e l’integrazione del mercato elettrico dapprima sul piano regionale, e in seguito a livello europeo.

Mercato in trasformazione?

Nonostante la partecipazione dei sei paesi all’Energy Community, gli sviluppi energetici nell’area balcanica passano spesso sottotraccia, mentre i dati e le statistiche a disposizione rendono difficili valutazioni approfondite delle traiettorie energetiche in atto nella regione. Un’analisi dei dati macro ci dice che i Balcani occidentali rappresentano un mercato energetico di dimensioni ancora limitate, ma con grandi margini di trasformazione in ottica low carbon.

I consumi primari di energia a livello aggregato si attestano infatti, dati 2015, attorno alle 30mila tonnellate di petrolio equivalente – circa un quinto dei consumi annuali di un paese come l’Italia o un decimo di quelli della Germania – e sono rimasti sostanzialmente stabili nel quinquennio 2010-15. Particolarmente rilevante è la composizione del mix energetico regionale: i Balcani occidentali sono infatti una regione che, sostanzialmente, va ancora a carbone e lignite – in gran parte di produzione autoctona – che coprono oltre il 50% dei consumi totali. Ad essi si aggiunge, oltre ai tradizionali consumi petroliferi, l’importante contributo di biomasse e rifiuti, che si attestano attorno all’11% della domanda primaria.

Grande assente dalla scena energetica balcanica è il gas naturale, che si attesta al 6% dei consumi totali, praticamente concentrati tutti in Serbia, grazie al ruolo di Oil Industry of Serbia (NIS), la cui maggioranza è controllata dal gigante russo del gas Gazprom. Per il resto, il livello di gasificazione della regione risulta sostanzialmente nullo, al pari del livello di penetrazione delle rinnovabili non-idriche, settore nel quale i tentativi di attrarre investimenti, incoraggiati anche dalle istituzioni europee, rimangono in larga parte inattesi.

La trasformazione del mercato energetico regionale è certamente un elemento chiave per il futuro europeo dei Balcani occidentali, che nell’ambito nell’Energy Community hanno sottoscritto impegni in materia di decarbonizzazione, e che una volta entrati nell’Unione dovranno necessariamente allinearsi con le politiche elaborate da Bruxelles, aprendo importanti prospettive di mercato per fonti low-carbon come rinnovabili e gas.

Snodo strategico

La disponibilità di questi approvvigionamenti, soprattutto per quanto riguarda il gas naturale, è però tutto fuorché certo. Se infatti la regione necessita, da un lato, di una infrastruttura interna di trasporto – possibilmente integrata – che richiede pianificazione strategica e importanti investimenti finanziari, dall’altro risulta fondamentale per i sei paesi – tutti importatori netti di energia – l’accesso sicuro, stabile e competitivo alle fonti di approvvigionamento provenienti da paesi terzi.

Fino ad ora, tuttavia, i Balcani hanno principalmente giocato un ruolo nelle strategie di diversificazione degli approvvigionamenti energetici e delle rotte per l’UE; considerata nel suo insieme, l’area balcanica è stata – e tuttora rimane – infatti al centro delle principali iniziative energetiche internazionali dell’Unione europea. L’ormai defunto progetto Nabucco sarebbe dovuto passare per Bulgaria e Romania, mentre il gasdotto TAP – pietra angolare del Corridoio meridionale del gas promosso da Bruxelles – trasporta gas azero in Italia passando da Grecia e Albania.

In ottica di accesso regionale alle risorse, a TAP si potrebbe connettere la Ionian Adriatic Pipeline (IAP), con la quale il consorzio transadriatico ha già siglato un Memorandum of Understanding nel 2016. Il progetto IAP – a supporto del quale l’UE (attraverso il Western Balkan Investment Framework, WBIF) ha stanziato una cifra di 2,5 milioni di euro – ha l’obiettivo di estendere le forniture di gas del Corridoio sud – qualora disponibili – a Montenegro e Bosnia Erzogovina (con destinazione finale Croazia), e favorire la gasificazione dei due paesi riducendo l’impatto del carbone nei rispettivi settori energetici.

Ma anche la realizzazione di TurkStream, lanciato da Gazprom per sostituire South Stream e bypassare completamente il transito ucraino, potrebbe aprire nuove opzioni per soddisfare i consumi balcanici. Per ora è previsto che il progetto approvvigioni inizialmente il mercato turco con 15,5 bcm annui, ma Mosca non ha certo fatto mistero delle sue intenzioni di raggiungere l’Europa. E se da un lato l’Italia rappresenta una destinazione appetibile – attraverso il progetto IGI Poseidon – dall’altra il Cremlino potrebbe provare l’ingresso nei Balcani occidentali, sfruttando anche la sua posizione nella roccaforte serba e le difficoltà di reperire ulteriori risorse attraverso il Corridoio sud.


Gas, Siria e nucleare: le “convergenze parallele” di Russia, Iran e Turchia

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Lo scorso 4 aprile si sono incontrati ad Ankara il presidente russo, Vladimir Putin, e i suoi omologhi iraniano, Hassan Rouhani, e turco, Recep Tayyip Erdogan. Al centro dei colloqui tra i tre leader c’è stato non solo il futuro della Siria, ma anche il ruolo che gli Stati Uniti hanno nella soluzione dei conflitti regionali.

Questo incontro è avvenuto alla vigilia della decisione che sarà presa a maggio dal Congresso degli Stati Uniti e dal presidente Donald Trump in merito all’accordo sul nucleare iraniano. Gli USA potrebbero decertificare il rispetto dell’intesa da parte iraniana. Tutto questo avviene in un contesto di completa distensione nelle relazioni bilaterali tra Russia e Turchia, che hanno interessi convergenti nel conflitto in Siria. Questo nuovo corso sta accelerando il progetto di realizzazione del Turkish Stream che potrebbe avere un impatto significativo sull’economia regionale.

Iran, Siria e nucleare

I presidenti dei tre paesi si sono impegnati a garantire l’«integrità territoriale» della Siria. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, è stato particolarmente critico nei confronti degli Stati Uniti. La nomina di Mike Pompeo a guida della Segreteria di Stato, e di John Bolton, come nuovo consigliere alla Sicurezza nazionale, hanno duramente minato la futura partecipazione di Washington all’accordo di Vienna sul nucleare iraniano aprendo la strada ad un possibile muro contro muro nei confronti delle autorità iraniane e la potenziale imposizione di nuove e più dure sanzioni contro Teheran. “Gli americani cambiano idea ogni giorno e non sono affidabili”, ha dichiarato Rouhani durante i colloqui di Ankara.

La Casa Bianca ha poi annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di ritirare le proprie truppe dal Nord della Siria. La volontà di un disimpegno dal conflitto in corso era emersa già in seguito all’avvio dell’operazione “Ramoscello di Ulivo” lo scorso 20 gennaio. L’attacco turco contro l’enclave curda di Afrin non aveva trovato alcuna forma di resistenza da parte delle truppe della coalizione internazionale, guidata da Washington e vicina ai curdi siriani, impegnata a combattere contro lo Stato islamico (Isis). L’ipotesi di un ritiro permanente delle truppe USA dal Nord della Siria ha trovato non poche resistenze anche a Washington. Secondo alcuni analisti questa eventualità potrebbe ulteriormente favorire gli interessi russi e iraniani nella regione.

E così, a garantire la centralità iraniana per la stabilizzazione della Siria e il rispetto dell’accordo di Vienna sul nucleare è ancora una volta Mosca. Fin qui Vladimir Putin si è mostrato tra i più integri sostenitori del ruolo iraniano nella regione e della validità dei termini stabiliti dai paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania (P5+1). I colloqui per la stabilizzazione della Siria continueranno ad Astana con la partecipazione dei tre paesi che si sono incontrati al vertice di Ankara. I tre leader si erano già riuniti a Sochi lo scorso novembre. In parallelo si svolgono anche a Ginevra i summit per la soluzione del conflitto e la ricostruzione in Siria. «Non si tratta di colloqui alternativi. Il nostro unico obiettivo è la ricostruzione della Siria», si legge in una nota. In particolare, Iran e Turchia si erano divisi in merito alla figura del presidente siriano Bashar al-Assad, appoggiato dai primi e contrastato da Ankara. Ma le divisioni appaiono superate.

Turchia, Russia e Turkish Stream

Grazie alla nuova intesa sulla Siria, Turchia e Russia stanno rafforzando i loro legami commerciali, dopo anni di tensioni. Il primo effetto è il completamento della prima fase di realizzazione del progetto russo per il gasdotto Turkish Stream. I lavori erano stati bloccati in seguito all’abbattimento del Sukhoi russo Su-24 nell’inverno del 2015, ma sono ripresi dopo l’incontro tra Erdogan e Putin a San Pietroburgo del 9 agosto 2016. Gazprom ha completato la costruzione del tratto marino del gasdotto Turkish Stream nel territorio russo nel 2017. A fine marzo è stata realizzata la prima linea del gasdotto con una capacità di 15,75 miliardi di metri cubi. Mosca è interessata a portare avanti sia il progetto di South Stream sia il Turkish Stream. Furono le autorità bulgare a fermare la realizzazione del South Stream nel dicembre 2014 in seguito alle richieste della Commissione europea in relazione alle restrizioni imposte dal Terzo Pacchetto Energia dell’Unione Europea. Con l’interruzione del passaggio bulgaro, il presidente russo annunciò la realizzazione del Turkish Stream per bypassare i limiti imposti dall’Ue.

Il vertice di Ankara tra Turchia, Iran e Russia ha sancito una volta di più l’asse tra i tre paesi. L’obiettivo, da una parte, è avvantaggiarsi del ruolo che i leader dei tre paesi vicini hanno avuto in Siria e, dall’altra, affermare due risultati strategici essenziali per le tre potenze regionali. Il primo è il rispetto dell’accordo sul nucleare iraniano, osteggiato dagli Usa di Trump; il secondo è il completamento del progetto Turkish Stream, già in fase avanzata di realizzazione.

Gli interessi energetici sono alla base delle divergenze politiche tra Europa e Stati Uniti

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L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha portato la politica estera americana in parziale rotta di collisione con quelle che sono le priorità e gli interessi europei sullo scacchiere globale. Tra le varie cause delle divergenze a livello transatlantico, le diverse priorità (e traiettorie) energetiche di Washington e Brussels rappresentano un elemento importante per capire le rispettive posizioni di politica internazionale, soprattutto nei confronti di attori quali Russia, Iran e Arabia Saudita.

A livello macro, balza immediatamente agli occhi come la crescente dipendenza europea dalle importazioni di approvvigionamenti energetici, faccia il paio con l’eccezionale espansione della produzione di petrolio e gas naturale negli Stati Uniti, e il progressivo affrancamento di Washington dalle forniture internazionali di idrocarburi.

Basti pensare che dal 2007 al 2016 la produzione americana di greggio è cresciuta del 76 percento (da 5 a 8,8 milioni di barili al giorno, Mb/d), mentre le importazioni si sono contratte del 22 percento, con una significativa riduzione anche delle forniture proveniente dal Golfo persico (-28 percento). Numeri impressionanti anche nel settore del gas naturale, dove nello stesso periodo la produzione nazionale è aumentata del 45 percento (da 560 a 815 miliardi di metri cubi, Bcm), a fronte di un crollo delle importazioni del 35 percento (da 130 a 85 Bcm).

Al contrario, l’Unione europea vede crescere la propria dipendenza energetica dall’estero, seppur a tassi moderati determinati da una serie di politiche di efficienza e degli strascichi della crisi economica del 2008-2009. Alla luce del progressivo esaurimento delle riserve ‘interne’ localizzate soprattutto in Olanda, nel periodo considerato, il contributo delle importazioni sui consumi totali di gas è passato dal 57 al 69%, mentre nel settore petrolifero la dipendenza dall’estero è passata dall’81 al 90 percento. Queste differenti situazioni, ovviamente, a livello transatlantico cambiano le percezioni e i rapporti nei confronti di grandi paesi produttori come Russia, Iran e Arabia Saudita.

I rapporti con la Russia

Se i primi carichi di LNG russo partiti dalla penisola di Yamal lo scorso gennaio e arrivati a Boston hanno avuto un forte eco mediatico, le relazioni energetiche tra Stati Uniti e Russia rimangono ancora a livello embrionale. Ben diversa, invece, sull’asse Mosca-Bruxelles, con l’UE che importa 153 Bcm, il 36 percento del suo gas, e 1,2 Mb/d, il 32 percento del suo greggio, dal vicino orientale, primo fornitore energetico in assoluto del blocco europeo.

Iran e i suoi idrocarburi

E proprio nell’ottica di ridurre la propria dipendenza da Mosca, l’UE ha lavorato in modo incessante per riprendere le relazioni (politiche, ma al contempo energetiche), con l’Iran. Il paese è il primo al mondo per riserve di gas e il quarto per riserve di greggio, e rappresenta un obiettivo allettante per le politiche di diversificazione energetica europea. Ad oggi l’Unione importa il 3 percento dei suoi approvvigionamenti petroliferi dall’Iran, e punta a connettere gli immensi giacimenti iraniani di gas con il Corridoio sud (e attraverso questo con i mercati europei): il ritorno di Teheran nell’arena internazionale potrebbe facilitare il rafforzamento delle relazioni energetiche a livello bilaterale. Un obiettivo completamente differente rispetto a quello degli Stati Uniti, che non hanno alcuni tipo di interscambio energetico con Teheran, ma che addirittura vedono gli idrocarburi iraniani come possibili competitor di quelli americani sui mercati internazionali.

Arabia Saudita, alleato o no

Completamente differente la situazione dell’Arabia Saudita, storico alleato (e fornitore energetico) degli Stati Uniti nell’area mediorientale, che ancora oggi, nonostante l’espansione della produzione shale, è il primo fornitore di petrolio di Washington e contribuisce al 7 percento delle importazioni americane. Un contributo simile a quello all’import dell’UE (7 percento), che però ha un ampio ventaglio di forniture che – oltre alla Russia – includono Norvegia (12 percento), Iraq (8 percento) e Kazakhstan (7 percento): ciò permette a Bruxelles di mantenere un approccio equidistante e più equilibrato tra le diverse potenze del Golfo, al contrario dell’alleato transatlantico chiaramente schierato al fianco della dinastia al Saud.

Dal petrolio alle rinnovabili: la (lunga) transizione energetica del Golfo Persico

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Il rapido mutamento del panorama energetico ha vaste implicazioni per le industrie energetiche di tutto il mondo e per i suoi protagonisti, tra cui le compagnie petrolifere e i paesi esportatori di petrolio. Nonostante la transizione energetica sia ricca di incognite, l’aumento della quota delle rinnovabili nel mix energetico sembra, stando alle più accreditate previsioni, un dato di fatto acquisito.

In effetti, la recente deflazione dei costi dell’energia rinnovabile ha rappresentato una vera e propria rivoluzione per il settore energetico globale. Cinque anni fa i costi dell’eolico statunitense erano di 11 centesimi di dollaro/kWh e quelli del solare di 17 centesimi di dollaro/kWh, considerando tutti i costi diretti e indiretti, compresi quelli del capitale per le infrastrutture.

Senza il supporto dei sussidi, nessuna delle due energie sarebbe stata commercializzabile. Stando alle stime dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), il costo medio globale di eolico e solare onshore è ora sceso rispettivamente a 5 centesimi/kWh e 6 centesimi/kWh. Per quanto riguarda il solare, il record toccato negli EAU, nel 2016, con l’offerta da 2,4 centesimi/kWh  è stato battuto a ottobre 2017 un’ulteriore offerta da 1,8 centesimi/kWh da parte di Masdar ed EDF per l’impianto da 300 MW di Sakaka, in Arabia Saudita. Anche l’energia eolica ha fatto registrare una sensibile flessione dei costi, in attesa che un’ulteriore ribasso possa arrivare a toccare i 4 centesimi/kWh entro il 2020. Di conseguenza, a livello di impianto ed escludendo i costi legati all’intermittenza, l’eolico e il solare si stanno affermando, globalmente, come fonti di energia fortemente competitive.

Con la transizione energetica che dovrebbe produrre cambiamenti strutturali sui mercati energetici di tutto il mondo, compagnie petrolifere e paesi esportatori di petrolio si troveranno ad affrontare sfide impegnative. Le prime assisteranno a una disruption dei propri modelli di business e dovranno trovare il modo per integrare le risorse a basso tenore di carbonio nel proprio portfolio. Dal canto loro, i paesi esportatori di petrolio con un rapporto R/P (Riserve/Produzione) consolidato da anni, dovranno riuscire a monetizzare la propria ampia base di riserve, andando probabilmente incontro ad un calo dei proventi delle esportazioni, il che, data la forte dipendenza dagli introiti del petrolio, potrebbe alterarne il benessere socio-economico. Dunque la domanda fondamentale è la seguente: che posizione dovrebbero assumere le compagnie petrolifere e i paesi esportatori di petrolio nell’era della transizione per assicurarsi di partecipare alla “rivoluzione” delle rinnovabili e garantirsi stabilità a lungo termine?

Una transizione energetica dal ritmo incerto

La transizione energetica consiste in una trasformazione radicale del sistema energetico, che passa da un modello esistente a un nuovo paradigma. Si tratta dunque di un fenomeno complesso, ben oltre la semplice sostituzione di una fonte di energia con un’altra. In sostanza, la transizione energetica comporta cambiamenti rispetto a tre dimensioni tra loro correlate: (i) gli elementi fisici del sistema energetico, ovvero tecnologia, infrastrutture, mercato, impianti di produzione, modelli di consumo e catene di distribuzione; (ii) gli attori e il loro comportamento, ovvero nuove strategie e modelli di investimento, cambiamenti di coalizioni e capacità; (iii) le regolamentazioni socio-tecnologiche, ovvero norme e politiche formali, istituzioni, mentalità e sistemi di credenze, discorsi e visioni relative alla normalità e alle pratiche sociali. La transizione è dunque multidimensionale, complessa, non lineare, non deterministica e altamente incerta e, sebbene venga spesso valutata sulla base della rapidità dei cambiamenti nella dimensione tangibile, è un processo stratificato e gremito di molteplici attori.

Poiché l’esito della transizione sarà il risultato dell’interazione tra tecnologia, istituzioni, società e protagonisti, è difficile prevederne accuratamente l’andamento e, a maggior ragione, il ritmo, parametro fondamentale con importanti implicazioni per la strategia commerciale degli attori del settore energetico. In genere, per comprendere il comportamento futuro di un fenomeno si fa affidamento ai dati storici. Tuttavia, se applicati al ritmo della transizione, tali elementi risultano incerti. La storia infatti abbonda sia di casi di transizioni lente che di transizioni avvenute rapidamente. Inoltre, il ritmo della transizione differisce a seconda dei settori e delle regioni e presenta molteplici livelli, rendendo difficile trarre conclusioni certe su scala mondiale. Volendo tentare di attingere informazioni o dati dal passato, si trascura anche un altro importante aspetto: le spinte per l’attuale processo di transizione sono profondamente diverse da quanto già accaduto. Le precedenti trasformazioni del settore energetico sono state infatti determinate dalle innovazioni, dai progressi tecnologici e/o dalle preferenze dei consumatori, mentre in quella attuale sono le politiche a svolgere un ruolo di primo piano, almeno nel breve e medio termine, finché il mercato non prenderà pienamente il sopravvento. I dati storici relativi alle precedenti transizioni offrono spunti importanti, ma non necessariamente in grado di prevedere l’andamento della transizione futura.

Quando si parla della dimensione temporale della transizione entra poi in gioco anche una componente soggettiva, in quanto i concetti di “veloce” o “lento” non sono definiti rigidamente (ad esempio, 30 anni costituiscono un ritmo lento o veloce?). Per di più, il ritmo della transizione energetica risente del costante cambiamento delle priorità dei governi, dei cicli elettorali e delle competizioni politiche.

Inoltre, da un punto di vista evolutivo, le transizioni avvenute nel corso della storia riguardavano principalmente lo sviluppo di varianti (tecnologie) in un frangente di carenza, mentre la transizione verso regimi a più basse emissioni di carbonio riguarda più che altro l’adattamento dei contesti di selezione nell’era dell’abbondanza (tramite politiche, norme e incentivi che determinano i mercati), influendo sull’equilibrio di domanda e offerta. In un contesto di carenza energetica e di aumento della domanda è possibile che si verifichi una sostituzione lenta e parziale delle fonti attualmente dominanti, le quali manterrebbero comunque un prezzo premium e potrebbero soddisfare la domanda marginale in presenza di una nuova fonte di energia più economica e dal maggiore contenuto calorifico (ad esempio il caso del legno rispetto al carbone). Tuttavia, lo scenario potrebbe assumere contorni molto diversi in un contesto di offerta abbondante e stagnazione della domanda. In questo caso è possibile che una nuova fonte di energia sostituisca completamente quella attuale. In un tale scenario, le fonti oggi dominanti non possono mantenere un prezzo premium se desiderano detenere una quota di mercato significativa.

Integrare le rinnovabili nei progetti basati sugli idrocarburi

I paesi le cui entrate statali dipendono dalla produzione di petrolio e gas sono estremamente vulnerabili ai cambiamenti del panorama energetico. Ciò vale in certa misura anche per le compagnie petrolifere. Tuttavia, tra le grandi società petrolifere e i paesi esportatori di petrolio sussistono due differenze fondamentali in relazione alla transizione energetica. Se il problema principale delle compagnie petrolifere è infatti la disruption dei modelli di business esistenti, la principale sfida dei paesi esportatori di petrolio è, oltre alla perdita di proventi essenziali per la propria economia, la capacità di monetizzare la propria vasta base di riserve. Ciò è determinato in gran parte dal fatto che il rapporto R/P accertato delle compagnie petrolifere internazionali è normalmente di circa otto-dieci anni, mentre è dell’ordine di diversi decenni per alcuni dei paesi ricchi di risorse, dunque superiore a qualsiasi previsione del picco della domanda. Nel caso dell’Arabia Saudita, dove i proventi del petrolio rappresentano il 90 percento circa del bilancio statale, è ad esempio di oltre 63 anni. L’incapacità di monetizzare la propria base di riserve costituisce dunque un rischio per questi paesi.

L’altra importante differenza è che, diversamente dalle compagnie petrolifere che potrebbero incorrere in rischi spostando il proprio core business sulle rinnovabili, per i paesi esportatori di petrolio efficienza statica e dinamica non sono in contrasto quando si tratta di ricollocarsi verso la transizione energetica. In effetti, investire nelle rinnovabili potrebbe contribuire ad aumentare ulteriormente le entrate a breve termine dei paesi esportatori di petrolio, in quanto le risorse di idrocarburi verrebbero destinate all’esportazione (purché i prezzi internazionali siano superiori al prezzo di pareggio). Grazie alle loro peculiari caratteristiche, per i paesi esportatori di petrolio la logica alla base degli investimenti nelle rinnovabili risulta assolutamente stringente. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un aumento della domanda energetica e stanno attraversando una fase di sviluppo nella quale la crescita economica è legata al consumo di energia. Inoltre, stando alle previsioni, l’aumento della domanda energetica dovrebbe mettere a dura prova la loro capacità di esportazione. In effetti, alcuni di loro, come Kuwait e EAU, sono già importatori netti di gas naturale.

L’economia delle rinnovabili, nei paesi esportatori, dipende dal “costo opportunità” del consumo nazionale di petrolio e gas, che si riflette sul prezzo internazionale delle risorse fossili. Secondo un rapporto del 2016 della Energy Information Administration (EIA), generare 1 MWh di elettricità richiede 1,73 barili di petrolio o 10,11 mcf (migliaia di piedi cubi) di gas naturale. I prezzi d’asta ai minimi storici per il solare fotovoltaico (FV) di Dubai, Messico, Perù, Cile, Abu Dhabi e Arabia Saudita hanno dimostrato che, nelle giuste circostanze, è possibile raggiungere un LCOE (costo livellato dell’elettricità) di 3 centesimi di dollaro/kWh. L’IRENA prevede inoltre che il costo medio globale del solare fotovoltaico si aggirerà attorno ai 6 centesimi/kWh. Se si considera la fascia inferiore (più vicina ai costi del solare nella regione), i prezzi di pareggio di petrolio e gas sarebbero rispettivamente di 17,34 dollari/b e 2,96 dollari/mcf, ben al di sotto dei livelli internazionali. Se invece prendiamo in considerazione i costi medi globali del solare (piuttosto costante nella regione), i prezzi di pareggio aumenteranno raggiungendo 34,68 dollari/b e 5,93 dollari/mcf, il che significa che saranno comunque inferiori al prezzo internazionale del petrolio, ma leggermente superiori al prezzo medio del gas naturale. Anche aggiungendo i costi legati all’intermittenza dell’energia solare (circa 5 dollari/MWh), l’economia delle rinnovabili trionfa comunque sulle risorse tradizionali in questi paesi e verrà potenziata tenendo conto degli introiti derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas non più destinati al consumo nazionale. Ciò evidenzia l’importanza per i paesi esportatori di petrolio di integrare le rinnovabili nell’attuale mix di produzione basato sui combustibili fossili.

La diversificazione rimane fondamentale

Nei paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente, che dipendono fortemente dai proventi del petrolio, gli investimenti nelle rinnovabili sono finalizzati alla massimizzazione delle entrate statali nel breve termine destinando gli idrocarburi all’esportazione, ma non garantiscono la sostenibilità a lungo termine. Nel lungo periodo la diversificazione delle economie rimane la principale strategia di adattamento che questi paesi devono perseguire. Le rinnovabili potrebbero sostituire le risorse fossili nel mix energetico nazionale, ma non nel bilancio statale, in quanto investire nelle rinnovabili non garantisce gli elevati introiti derivanti dal settore oil & gas.

Inoltre, pur essendo parte della strategia di diversificazione, il settore delle energie rinnovabili da solo non è in grado di soddisfare i bisogni reali di queste economie, come la creazione di nuova occupazione e il maggiore benessere dei cittadini. Durante la transizione l’industria del petrolio e del gas continuerà dunque a svolgere un ruolo chiave in queste economie, generando gli introiti necessari per espandere alcuni comparti dell’economia produttiva, quali industrie manifatturiere, agricoltura e servizi (con particolare riguardo a quei settori in cui godono di un vantaggio comparato), per aumentare la quota di prodotto interno lordo non derivante dal petrolio e, di conseguenza, diversificare le fonti di introito statale. In effetti, il settore Oil&gas potrebbe partecipare al processo di diversificazione attraverso la creazione di nuove industrie e al rafforzamento dei rapporti a monte e a valle della filiera. In un contesto in cui il ritmo della transizione rimane altamente incerto, ciò rappresenta una strategia di flessibilità per massimizzare i benefici derivanti dal capitale che genera rendite (ovvero riserve di petrolio e gas) e prepara al contempo il paese per un’era che potrebbe essere contraddistinta da stagnazione o diminuzione della domanda di petrolio. Durante il periodo di transizione, gli introiti delle esportazioni costituiranno inizialmente la maggior parte delle entrate statali, ma diminuiranno se la diversificazione procederà come previsto.

Tuttavia, raggiungere una diversificazione economica non è affatto semplice, in quanto comporta ampi cambiamenti all’interno del sistema economico, con implicazioni per il benessere dei cittadini e per la distribuzione del reddito nazionale. I paesi esportatori di petrolio devono, ad esempio, attuare dolorose riforme fiscali che porteranno alla riduzione o eliminazione dei sussidi (ad esempio carriere sottopagate nel settore energetico) e all’introduzione di tasse, come l’imposta sul reddito e quella sul valore aggiunto. Tali questioni sono, per loro natura, complesse, data la rigidità di strutture politiche e istituzioni esistenti e l’implicito contratto sociale per via del quale la mancanza di partecipazione politica viene compensata con la distribuzione dei proventi degli idrocarburi. Per questo, nonostante la possibilità di attuare riforme graduali e su piccola scala e di introdurre misure di mitigazione, non bisogna attendersi rapide trasformazioni delle economie dei paesi esportatori di petrolio.

Inoltre, resta la possibilità (non irrilevante) che questi paesi non riescano a diversificare la propria economia, con ripercussioni sul ritmo della transizione energetica globale. In altre parole, non solo la transizione energetica globale determinerà il panorama politico ed economico dei paesi esportatori di petrolio, ma l’andamento della transizione dei principali paesi esportatori determinerà a sua volta la transizione energetica globale. È una strada a doppio senso.

La dinamica di conseguenze innescata dai paesi esportatori si farà sentire anche se essi riusciranno a espandere la propria economia produttiva o se il mercato mondiale del petrolio passerà dall’attuale modello orientato alla scarsità a un mercato basato sul costo marginale nel quale gli idrocarburi non possono mantenere un prezzo premium. Ad esempio, se questi paesi riuscissero a realizzare i propri obiettivi di diversificazione, potrebbero attuare una strategia più aggressiva di monetizzazione delle proprie riserve, che determinerebbe un calo dei prezzi del petrolio e forti variazioni dei prezzi relativi dei combustibili. Ciò si ripercuoterebbe sul ritmo della transizione, a meno che tali variazioni dei prezzi relativi non venissero regolate da tasse sul carbonio, aprendo nuove questioni legate al coordinamento e alla distribuzione internazionali. D’altro canto, se la transizione non dovesse avvenire agevolmente e si traducesse in possibili interruzioni della produzione e in una volatilità eccessiva dei prezzi del petrolio, l’intero processo di transizione energetica ne risentirebbe. Tali ripercussioni contribuiscono ad aumentare l’incertezza della già complessa questione della transizione energetica attuale.

La disinformazione sulle auto elettriche prolunga il business delle auto tradizionali

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I tentativi sempre più crudi dell’industria petrolifera ed automobilistica di diffondere disinformazione sui veicoli elettrici sono un tentativo di proteggere un modello di business sempre più riconosciuto ogni giorno come dannoso per il pianeta e per ognuno di noi. La disinformazione comprende anche l’affermazione che i veicoli elettrici siano più inquinanti dei veicoli convenzionali. Ciò è stato ripetutamente smentito, soprattutto perché sempre più nazioni stanno generando la loro elettricità da fonti sostenibili. E anche quando l’elettricità è prodotta a partire da combustibili fossili, l’uso di automobili elettriche significa ancora una volta una notevole riduzione dell’inquinamento atmosferico nelle nostre città.

Oltre un terzo delle emissioni inquinanti

Un’altra falsità è che i trasporti non siano il vero problema e che le vere cause dell’inquinamento siano il riscaldamento e/o le emissioni industriali. La verità è che le automobili ed i camion sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni inquinanti, una buona parte delle quali avviene proprio nei luoghi in cui viviamo e/o lavoriamo. Pertanto, è molto probabile che qualsiasi riduzione abbia un effetto positivo sulla nostra qualità di vita. Molti dicono anche che i veicoli elettrici siano troppo costosi o generino ansia nei conducenti, un’idea confutata dalla crescente domanda di veicoli elettrici, che si sta già avvicinando o addirittura superando quella dei loro omologhi basati sui combustibili fossili. Mercedes ha affermato che il suo prossimo veicolo elettrico avrà un range di autonomia di 500 chilometri, ed alcune Tesla, come la prossima Roadster, dovrebbero averne uno di circa 1.000 chilometri. Anche se questi esempi non sono precisamente automobili che potrebbero permettersi le persone comuni, la tendenza è chiara. Con il progressivo aumento della densità delle batterie, queste cifre possono evolvere solo in un modo: verso l’alto.

Batterie

Le batterie sono anche l’obiettivo di altre campagne di disinformazione. Alcuni dicono che si basino su fonti minerali, quindi si suppone siano scarse e non possano essere riciclate. Invece, le batterie possono essere riciclate ed i loro elementi sono perfettamente riutilizzabili e, contrariamente a quanto molti pensano, non si degradano con l’uso o nel tempo. Rigorosi studi scientifici mostrano una degradazione della batteria di circa l’1% ogni 30.000 chilometri, rendendola molto più efficiente di quelle a combustione interna. Con la produzione di un maggior numero di batterie, la tecnologia sta migliorando ed i prezzi diminuiscono, mentre altre tecnologie, come le batterie allo stato solido, offrono un potenziale ancora maggiore. Altri sono perplessi sull’incapacità di generare elettricità a sufficienza per ricaricare tutte quelle auto elettriche. Questa affermazione è già stata smentita dall’associazione britannica dei fornitori di energia, la quale afferma che i suoi membri saranno più che in grado di soddisfare la domanda dei diversi milioni di veicoli elettrici che si prevede arriveranno nei prossimi anni.

Manutenzione

E poi c’è la questione della manutenzione. I motori a combustione interna hanno più di 10 parti mobili che devono essere lubrificate permanentemente e sostituite periodicamente. Come ogni automobilista sa, la sostituzione dei pezzi di ricambio è estremamente costosa. Un tipico veicolo elettrico ha, invece, circa 18 parti mobili, con degradazione molto bassa e necessità di manutenzione drasticamente inferiore rispetto ai veicoli con motori a combustione interna. Insomma, il mondo si sta muovendo verso l’elettrico e nessuno riuscirà a fermarlo.

Mar Caspio: accordo storico tra Russia, Iran, Kazakistan, Azerbaijan e Turkmenistan. Cosa cambia

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Dopo decenni di stallo e negoziati fallimentari, il 12 agosto ad Aktau, in Kazakistan, i cinque stati rivieraschi del Mar Caspio – Azerbaijan, Iran, Kazakistan, Russia e Turkmenistan – hanno raggiunto uno storico accordo (seppur ancora parziale) sulla giurisdizione del bacino internazionale.

Si tratta di un accordo che, nonostante la sua rilevanza strategica e l’interesse generato nell’opinione pubblica occidentale, ha tuttavia ancora una valenza non univoca e lascia aperte molte questioni – incluse quelle energetiche – legate agli interessi europei.

Un’intesa storica ma non completa

L’accordo ha certamente una portata storica perché, dopo oltre due decenni, ha portato a convergere attorno ad un unico tavolo i cinque stati rivieraschi del Mar Caspio che hanno finalmente definito un quadro legale per il bacino basato sui principi della sovranità nazionale, dell’integrità territoriale, del principio di eguaglianza fra gli stati e del rifiuto dell’uso della forza.

Un quadro ibrido – il Caspio non viene riconosciuto dall’accordo né come un mare interno, né come un lago internazionale – che stabilisce per la prima volta i criteri per la definizione dei limiti delle acque territoriali dei cinque firmatari, localizzate entro le 15 miglia dalla costa (al posto delle 12 vigenti), e delle zone di sfruttamento esclusivo (ulteriori 10 miglia). La definizione dei confini delle singole aree è stato tuttavia rimandato ad una fase successiva, grazie ad accordi siglati di volta in volta dai governi su base bilaterale. Rimane inoltre inalterata – e quindi disciplinata secondo le ormai obsolete convenzioni del 1935 e del 1940 tra Unione Sovietica e Iran – la gestione dei fondali e delle acque oltre queste 25 miglia: esse continuano ad essere considerate aree comuni sulle quale i cinque stati coinvolti esercitano un controllo congiunto. Il rischio, come in passato, è che questa condizione contribuisca a bloccare iniziative non condivise da tutti e cinque i paesi.

La dimensione energetica

Soprattutto, rischiano di rimanere in sospeso una serie di attività strategiche in ambito energetico. Com’è noto, infatti, il bacino non soltanto ospita nei suoi fondali ingenti risorse di petrolio e gas naturale, ma rappresenta anche un ostacolo fisico – fino ad oggi insormontabile – al transito di idrocarburi prodotti nei giacimenti onshore dell’Asia Centrale e diretti verso i mercati occidentali, Turchia e UE in primis.

Senza un regime legale che permetta di risolvere in modo definitivo le dispute territoriali in essere, e di stabilire chiaramente i confini dei fondali degli stati rivieraschi (l’accordo, come detto, rimanda tutto a successivi negoziazioni bilaterali) lo sviluppo dei giacimenti di petrolio e gas nel Mar Caspio – si parla, rispettivamente, di riserve per 48 miliardi di barili e 9 trilioni di metri cubi – rischia di non decollare. Le dispute, in particolare, riguardano aree contese da Azerbaijan e Iran attorno al giacimento Araz-Alov-Sharg – riserve stimate attorno a un miliardo e mezzo di barili di greggio e 400 Bcm di gas, e tra Azerbaijan e Turkmenistan, presso il giacimento Serdar/Kapaz, con riserve attorno ai 360mila barili. In questo contesto rimane incerta anche la realizzazione dell’ormai fantomatica Trans-Caspian Pipeline (TCP).

La condotta sottomarina di circa 300 chilometri, dovrebbe collegare la costa occidentale del Caspio, in Turkmenistan, con quella orientale in Azerbaijan, permettendo al gas turkmeno di essere finalmente commercializzato in Europa (inclusa la Turchia) attraverso il Corridoio meridionale del gas e le condotte TANAP e TAP. Per un paio di decenni il gasdotto è infatti stato bloccato a causa dell’indefinito status legale del bacino – in virtù del quale Mosca ha costantemente esercitato il proprio veto sul progetto) – nonché della già menzionata disputa tra Baku e Ashgabat sulla sovranità sul giacimento Serdar/Kapaz. L’accordo di Aktau, lasciando entrambe le questioni ancora aperte (in particolare, la gestione delle acque condivise al di là delle 25 miglia), non fornisce chiare indicazioni sul futuro della TCP, con buona pace dei consumatori europei.

Una iniziativa a carattere regionale

L’accordo, seppur accolto con grande interesse dall’opinione pubblica occidentale (soprattutto alla luce dei suoi possibili risvolti energetici) sembra avere piuttosto una forte connotazione regionale. Esso, infatti, sancisce il tentativo di chiusura da parte dei paesi caspici – guidati dall’asse tra Mosca e Teheran – nei confronti delle potenze internazionali interessate alla regione, Stati Uniti, UE e Cina in primis. Siglato in concomitanza con le prese di posizione della presidenza Trump nei confronti di Russia e Iran, l’accordo suona come un monito alla non ingerenza americana – diretta o attraverso la NATO – nell’area, considerata di influenza esclusiva da parte dei due leader regionali. Non è un caso che, tra gli elementi salienti contenuti nell’accordo, figurino l’accesso esclusivo al bacino alle forze armate dei paesi rivieraschi – garantito proprio dalla Caspian Flotilla russa, la riaffermazione della sovranità esclusiva sulla stazione aerea, e la formale esclusione di qualsiasi altro attore non-regionale con buona pace di Washington, che sin dalla frantumazione dell’Unione Sovietica ha provato a estendere la propria proiezione strategica nell’area. Qualcosa, dunque, si sta muovendo nel Caspio. Ma non è detto che sia necessariamente a favore, degli interessi europei.

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