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Petrolio: più unità per favorire la cooperazione tra i produttori

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sceicco  petrolio“Solo Allah può determinare il destino dei prezzi del petrolio”. Questa, la ”sentenza’ del ministro del Petrolio saudita Ali al-Naimi, a dimostrazione che lo stato di salute dell’OPEC – misurabile in base alla capacità del cartello di condizionare il prezzo internazionale del greggio – non è ancora dei migliori. Le difficoltà interne all’alleanza dei Paesi esportatori – divisi da crescente diffidenza politica e da divergenze di natura strategica – alimentano forti speculazioni sulla reale rilevanza, attuale e soprattutto futura, dell’OPEC. Se non affrontata con pragmatismo da tutti gli attori in gioco, questa situazione rischia di determinare un periodo di elevata volatilità dei prezzi del petrolio, con possibili ripercussioni sugli scenari di sicurezza, in particolare nella regione mediorientale.

La capacità di abbattere i costi di produzione

La scelta saudita di abdicare al suo tradizionale ruolo di swing producer – nel tentativo di far crollare deliberatamente il prezzo del petrolio, difendere la propria quota di mercato e spiazzare buona parte della produzione non-convenzionale statunitense – sembra infatti non dare i frutti desiderati. Dopo il crollo iniziato nel giugno dello scorso anno, che ha portato il petrolio sotto i 40 dollari al barile a marzo, il rimbalzo dei prezzi è stato finora soltanto parziale. A far tremare i membri del cartello è soprattutto la straordinaria capacità dei produttori non-convenzionali americani di abbattere i costi di produzione e migliorare la loro competitività. A dimostrazione di ciò, sebbene con il crollo dei prezzi si sia effettivamente registrata una significativa riduzione degli impianti di trivellazione attivi sul territorio statunitense, la produzione shale non ha praticamente risentito di questo rallentamento. E con i prezzi attestatisi attorno ai 60 dollari al barile, i frackers americani sembrano già intenzionati a riprendere nuove trivellazioni ed espandere l’offerta globale con l’obiettivo di sottrarre ulteriori quote di mercato ai produttori tradizionali.
La dinamicità degli operatori americani e la loro capacità di intensificare o rallentare la produzione in base al livello dei prezzi e ai segnali provenienti dalla domanda, non soltanto li rende più flessibili ed efficienti delle grandi compagnie energetiche nazionali dei Paesi OPEC, ma potrebbe contribuire a trasformare gli Stati Uniti nel nuovo perno del sistema petrolifero globale.

La minaccia del ribasso dei prezzi

La combinazione tra prezzi relativamente bassi e guida americana del mercato petrolifero potrebbe trasformarsi in un incubo per buona parte dei membri dell’OPEC. Per capirlo, basta dare una rapida occhiata ai prezzi necessari per mantenere in pareggio i budget dei principali esportatori di petrolio, quasi tutti ben oltre la soglia di profitto dei produttori non-convenzionali americani. Questa situazione rischia di mettere a dura prova le casse dei petro-stati, forzandoli a una drastica revisione delle generose politiche di welfare, ponendoli di fronte a concrete minacce alla loro stabilità interna e agli equilibri geopolitici in aree critiche come quella mediorientale. In passato, infatti, al crollo dei prezzi del petrolio sono seguiti processi di destabilizzazione all’interno dei Paesi dell’OPEC. Ne è un esempio l’Algeria, che in seguito al contro-shock del 1986 è sprofondata in una drammatica crisi politica che ha portato – nell’ordine – alla vittoria elettorale dei partiti islamisti, al colpo di stato militare e a quasi un decennio di guerra civile. Anche l’invasione del Kuwait, da parte dell’Iraq, può essere letta come il risultato dell’instabilità interna, creata da un periodo protratto di prezzi bassi (e dagli strascichi della guerra con l’Iran), che hanno contribuito a spingere Saddam Hussain verso una politica aggressiva nei confronti del piccolo emirato per far fronte alle forti difficoltà finanziarie interne. Oggi la regione è già potenzialmente esplosiva, alla luce della crescente rivalità tra sunniti e sciiti, che si ripercuote nelle tensioni tra Arabia Saudita e Iran (acuite dalla possibilità che Teheran raggiunga un accordo con la comunità internazionale sul suo programma nucleare), ma anche nei conflitti in Siria, Libia e Yemen, e nella più generale avanzata dello Stato Islamico nel quadrante mediorientale.

La necessità di rispondere alle sfide

Tuttavia, proprio la necessità di affrontare tali minacce potrebbe innescare una spinta unitaria all’interno dell’OPEC, e più in generale tra i tradizionali esportatori di petrolio. Il futuro dell’Iran, in questo contesto, avrà un ruolo fondamentale nel ribilanciare gli attuali (dis)equilibri. In caso di accordo internazionale sul nucleare e di progressiva riduzione delle sanzioni sul settore petrolifero nazionale, infatti, il greggio iraniano potrà trovare la via dei mercati internazionali, contribuendo a ingrossare ulteriormente l’offerta globale e (potenzialmente) a far cadere il prezzo del petrolio al di sotto della soglia attuale. Per far fronte alle ripercussioni catastrofiche di un simile sviluppo, Riyadh e Teheran, con il resto dei membri OPEC al seguito, dovranno cercare un accordo interno al cartello, nonché stabilire un più ampio framework di cooperazione politica nella regione per circoscrivere le cause di attrito e gestire in modo comune una serie di dossier geopolitici sui quali i due Paesi si sono affrontati direttamente e indirettamente negli ultimi mesi. La necessità di rispondere, in modo coerente, a tali sfide rappresenta un’opportunità per istituzionalizzare meccanismi di cooperazione tra l’OPEC e i paesi esportatori non appartenenti al cartello, prima fra tutti una Russia uscita malconcia dalla combinazione tra sanzioni economiche, crollo dei prezzi del greggio e svalutazione del rublo. Mosca, infatti, non soltanto ha tutto l’interesse nel veder risalire significativamente il valore del greggio, ma gioca anche un ruolo chiave per gli equilibri dello scacchiere geopolitico regionale, grazie – ad esempio – ai legami con il regime di Bashar al-Assad in Siria, sul cui destino il Cremlino è interessato a poter dire l’ultima parola (fonte: ABO)


Le nuove regole per la certificazione energetica degli immobili

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Il 1° ottobre è entrato in vigore il nuovo modello di attestato energetico APE, e sarà necessario farsi trovare preparati. L’Attestato di Prestazione Energetica (APE) è la carta di identità riportante tutte le informazioni sulle prestazioni e sul consumo di energia di un edificio, di un’abitazione o di un appartamento, una certificazione che con la nuova norma sembra ritornare ad essere un prodotto decisamente professionale: prevede una maggiore responsabilizzazione del certificatore, un forte incremento delle informazioni da produrre e nuove metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche.

certificazione energetica

Lo scopo è quello di determinare meglio i consumi facendo capire al cittadino qual è il suo consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell’involucro e degli impianti.

La certificazione energetica nel nostro paese debutta solo nel 2005.
L’Italia è stata bacchettata più volte dall’UE in merito ai ritardi e al mancato recepimento di alcune norme europee sull’argomento, tanto che era stata aperta ad aprile una procedura di infrazione da parte di Bruxelles sul recepimento della direttiva 27/2012 sull’efficienza energetica. Con la nuova legge il nostro paese punta ora a superare le molteplici criticità sulla certificazione energetica del patrimonio edilizio: con la redazione di un documento unico a livello nazionale, con la facilità dei controlli e con l’applicazione di adeguate sanzioni.

Inoltre uno degli ambiziosi progetti contenuti nella nuova norma è quello di arrivare, entro il 31 dicembre 2020, alla costruzione di nuovi immobili “a energia quasi zero“, con fabbisogno energetico quasi nullo, coperto in misura significativa da fonti rinnovabili prodotte all’interno dell’edificio.

L’approvazione delle nuove “linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici” comporta profonde modifiche nella redazione dell’attestato sia nella forma che nella sostanza. Ma vediamo le principali novità all’esordio tra pochi giorni.

Che cos’è l’APE e a chi occorre

L’APE è un certificato che attesta l’efficienza energetica di un immobile che viene rilasciato da un tecnico abilitato. Il documento prende in considerazione l’efficienza dei servizi presenti all’interno dell’edificio quali climatizzazione invernale, qualità dei serramenti, acqua calda, ecc. e dal 1° ottobre comprenderà anche climatizzazione estiva, ventilazione e illuminazione. Importante anche l’ubicazione dell’appartamento che a seconda del piano può avere una diversa dispersione di calore. Tutti questi dati vengono raccolti dal certificatore energetico che li inserisce in un programma e, con un apposito sistema di calcolo, ricava la classificazione dell’immobile assegnando una lettera che va da “A4” a “G”.

La certificazione deve essere allegata a tutti gli atti di compravendita e di locazione e va rinnovata in caso di ristrutturazioni che modifichino le prestazioni energetiche.

Stiamo cercando un nuovo affittuario o un potenziale acquirente del nostro appartamento?

Prima di tutto ricordiamoci che è obbligatorio indicare nella pubblicità di vendita l’IPE indice di prestazione energetica (informazione contenuta nell’APE) poi, durante le trattative dovremo rendere disponibile agli interessati l’Attestato di Prestazione Energetica che in caso di perfezionamento del contratto andrà consegnato obbligatoriamente all’eventuale conduttore o acquirente.

Attenzione a questo passaggio perché, nonostante la sanzione di nullità del contratto sia stata cancellata c’è il rischio, in caso di mancata allegazione del documento, di essere puniti con sanzioni amministrative salatissime che possono arrivare fino a 18.000 euro.

APE unico nazionale

La principale novità è che l’APE, superando frammentazioni geografiche e locali, sarà un documento unico a livello nazionale, e rispetterà una metodologia di calcolo omogenea, anche in quelle regioni che hanno un proprio sistema di rilascio, ed in più sarà semplificata per edifici di dimensioni ridotte e prestazioni energetiche di entità modesta al fine di ridurre i costi a carico del cittadino.

Nuove classi di spreco energetico

Cambia la scala di classificazione della prestazione energetica degli immobili, formata da 10 classi, e non più da 7, che vanno da “A4” la migliore, a “G” la peggiore. Le classi energetiche, così come l’indice di prestazione energetica globale, dal 1° ottobre 2015 saranno determinate da tutti i servizi presenti nell’edificio.

Secondo la nuova legge l’attestato dovrà risultare uno strumento valido per valutare la convenienza economica dell’acquisto o della locazione di un’unità immobiliare in relazione ai consumi energetici, valido anche per consigliare degli efficaci interventi di riqualificazione energetica. Per questo nell’APE dovranno essere indicate anche delle proposte di miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio e dovranno essere fornite le informazioni sugli incentivi finanziari necessari per realizzarle.

Una nuova professione: il certificatore energetico

L’attestato, che sarà valido 10 anni, deve essere redatto da un professionista abilitato. Il certificatore energetico è di solito un tecnico, come l’architetto, il geometra e l’ingegnere, abilitato alla progettazione di edifici ed impianti. E’ la figura più importante di tutto il processo di certificazione: in caso di un nuovo edificio deve verificare che le opere vengano realizzate in conformità alle indicazioni progettuali e che il progetto sia conforme a quanto indicato in termini di prestazione energetica; viene interpellato inoltre in caso di vendita di immobili o di riqualificazione energetica dell’edificio per effettuare certificazioni energetiche su edifici ed abitazioni esistenti.

Con la nuova norma sono stati stabiliti alcuni requisiti fondamentali del certificatore energetico: deve essereindipendente (assenza di conflitto di interessi) e qualificato (laurea e iscrizione all’ordine e collegio professionale di riferimento).

A carico del certificatore, in caso venga redatto un attestato di prestazione energetica non corretto, pesa anche una sanzione che va da 700 a 4.200 euro.

Il catasto energetico: il SIAPE

Altra importante innovazione portata dal decreto è la realizzazione, da parte dell’ENEA, del SIAPE un sistema informativo comune per tutto il territorio nazionale, da istituire entro il 2015, che raccoglierà tutti i dati relativi agli attestati di prestazione energetica e che verrà aggiornato e incrementato ogni anno da Province e Regioni. Includerà i dati relativi agli APE, agli impianti termici e alle ispezioni e ai controlli, che potranno essere consultati telematicamente, sia dai cittadini, sia da Regioni, Province Autonome e Comuni in base alla loro area geografica di competenza.

Il SIAPE sarà raccordato ai catasti regionali degli impianti termici e successivamente verrà integrato anche con il catasto degli edifici.

Considerazioni

L’entrata in vigore del nuovo APE potrà avere ripercussioni sul cittadino per quanto riguarda il lato economico e l’organizzazione: i costi probabilmente lieviteranno considerato l’aumento del carico di lavoro da parte dei tecnici abilitati, in più potrebbero verificarsi ritardi da parte degli stessi professionisti per apprendere l’uso dei nuovi software ed assimilare le nuove procedure.

In conclusione ci piace ricordare che quest’anno i lavori e le ristrutturazioni riguardanti il risparmio energetico degli edifici possono usufruire della percentuale di detrazione fiscale pari al 65% delle spese sostenute e che la legge di Stabilità 2016, per ora solo annunciata dal governo Renzi, sembra intenzionata a prorogare le agevolazioni anche per il prossimo anno nella stessa misura prevista per il 2015.

Rifiuti, l’energia nascosta dell’Africa

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L’Africa ha un potenziale nascosto che le permetterebbe di produrre energia, ottenere ricavi, garantire benessere: la gestione dei rifiuti. In un continente dove la disponibilità di energia elettrica è il tallone d’Achille per molti territori, soprattutto nelle zone più remote e nei villaggi, proprio gli “scarti‘ prodotti dalle città e dalle comunità potrebbero rivelarsi un’ottima fonte di approvvigionamento energetico, minimizzando anche l’impatto ambientale del cosiddetto Municipal Solid Waste (MSW). E si tratta di tecnologie da portare sul territorio come l’incenerimento dei rifiuti e lo sfruttamento dei “landfill gas”, i gas di discarica.

General view of the Tourah Portland Cement factory in Cairo

Secondo lo studio “Evaluation of energy potential of Municipal Solid Waste from African urban areas‘, pubblicato sulla rivista internazionale “Renewable and Sustainable Energy Reviews‘, infatti, l’elettricità derivante dal trattamento dei rifiuti nel continente africano potrebbe passare dai 62.5 TWh registrati nel 2012 ai 122.2 TWh nel 2025, a fronte di un consumo energetico che nel 2010 in Africa era pari a 661.5 TWh. Mentre se si rimanesse ai livelli odierni di “waste management‘, si passerebbe dai 34.1 TWh del 2012, agli 83.8 TWh stimati nel 2025. Se adeguatamente sfruttato, dunque, nel 2025 il trattamento dei rifiuti potrebbe rispondere alle esigenze energetiche di oltre 40 milioni di abitazioni.

Il mercato è in mano alle Ong

L’Africa è un continente che – a fronte della sua popolazione – oggi ha anche il minor numero al mondo di impianti per il trattamento dei rifiuti. Basti pensare che nel 2010 c’erano oltre 600 impianti per ricavare energia dai rifiuti, di questi 472 in Europa, 100 in Giappone e 86 negli Stati Uniti. In Africa il numero di impianti tutt’ora è minimo e dimostra come l’occasione derivante dal “waste management‘ sia un’opportunità ancora tutta da cogliere, sia per i governi municipali e nazionali che per le aziende. Tra gli Stati che più di tutti avrebbero bisogno di sviluppare questo tipo di tecnologie, secondo i ricercatori, la Repubblica Centraficana, il Burundi, la Guinea-Bissau, il Mali, la Sierra Leone, il Rwanda e la Somalia. Territori spesso critici anche dal punto di vista della stabilità politica e sociale.

“Il trattamento dei rifiuti – spiega Nicolae Scarlat, ricercatore scientifico alla Commissione europea, tra i coordinatori dello studio – è certamente un sistema costoso per la maggior parte delle città africane, che oggi usano il 20-50% del loro budget per il cosiddetto ”waste management’, a fronte di una forbice tra il 20 e l’80% di rifiuti poi effettivamente raccolti. Alcune aziende locali, cooperative, Ong sono coinvolte nel trattamento dei rifiuti e alcune associazioni internazionali hanno sponsorizzato il compostaggio su piccola scala‘. Ma si tratta comunque di interventi spot o limitati a pochi territori, non in grado di essere messi a sistema per generare energia in modo continuativo, a fronte di un potenziale comunque molto alto.

Le potenzialità di riconversione delle discariche

“I centri urbani – spiega ancora Scarlat – trattano i rifiuti in modo minimo il che ha come conseguenza livelli molto bassi di differenziata. Questo dipende da una mancanza di risorse in termini di uomini, tecnologie, processi e investimenti‘. La maggior parte delle città in Africa hanno un sistema di gestione dei rifiuti che rientra sotto il dipartimento sulla Salute. E gli unici finanziamenti che le città ricevono derivano dal governo centrale.  “Ci sono poi diverse attività che possono essere incrementate attraverso una gestione efficace dei rifiuti – sottolinea Scarlat – possiamo citare per esempio l’Egitto, l’Uganda, il Ghana, la Nigeria, il Sudafrica, la Tunisia, e lo Zambia che stanno riconvertendo i siti delle discariche in luoghi sanitari‘.

Tra gli esempi migliori sul fronte del waste management, infine, secondo Scarlat c’è il Sudafrica, dove la raccolta dei rifiuti cresce del 2-3% ogni anno, in parallelo a una legislazione ambientale che ricalca quelle europee. Un primo esempio di best practice che – se venisse seguito da tutto il continente e messo a sistema in modo organico – potrebbe condurre l’Africa verso un approvvigionamento sempre più “in house‘ dell’energia, trasformando un problema in opportunità di crescita (fonte: ABO).

Gli Stati Uniti alla sfida del clima: analisi e prospettive

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Non sarà sicuramente il tema chiave dello scontro elettorale per la guida della Casa Bianca a fine 2016, ma di certo la questione della lotta ai cambiamenti climatici è entrata del dibattito politico americano in vista delle primarie presidenziali che avranno inizio tra pochi mesi. Buona parte del merito per la crescente sensibilizzazione degli Stati Uniti va attribuita all’azione del Presidente in carica Barack Obama, primo inquilino della Casa Bianca in grado di mobilitare buona parte del paese – cittadini, media, istituzioni – sui temi ambientali. Il resto l’ha fatto la Conferenza delle Parti (COP21) di Parigi, le cui implicazioni e ripercussioni a livello internazionale – volente o nolente – non potevano lasciare indifferente una potenza globale come quella americana.

USA clima

L’eredità di Barack

Sul piano interno l’amministrazione Obama, soprattutto a partire dal secondo mandato, ha dato una forte sferzata alla politica americana in materia di cambiamenti climatici. Il suo pro attivismo è costato al Presidente forti attacchi da parte delle ali conservatrici dello schieramento politico a stelle e strisce, supportate dalle lobby dei produttori di combustibili fossili, e in particolare dalle nicchie operative nel settore del carbone e degli idrocarburi non-convenzionali.

Con il President Climate Action Plan del giugno 2013, seguito dal Clean Power Plan dell’agosto 2015, il governo ha fissato obiettivi storici per il paese verso una maggiore sostenibilità. Il secondo, in particolare, ha definito gli obiettivi americani in vista della COP21, gettando le basi per un’ambiziosa e irreversibile trasformazione del settore energetico nazionale. In materia di emissioni, il piano di Obama ha come obiettivo per il 2030 la riduzione del 32% dei livelli di CO2 rispetto ai valori del 2005. Inoltre, per la prima volta nella storia americana, vengono fissati a livello federale stringenti standard per la produzione di CO2 da parte delle centrali elettriche statunitensi, che contribuiscono al 40% delle emissioni nazionali di CO2. Nel 2030 quest’ultime, il 37% delle quali è ancora alimentato a carbone, dovranno ridurre del 90% le loro emissioni di diossido di zolfo e del 72% quelle di ossido di azoto rispetto ai livelli del 2005. Per raggiungere tali obiettivi sarà fondamentale il ruolo delle rinnovabili, che nel 2030, secondo i piani dell’amministrazione, dovranno contribuire al 30% della generazione elettrica nazionale. Le linee strategiche fissate da Obama, ovviamente, non potevano non prendere in considerazione le performances energetiche della  stessa amministrazione federale, attualmente il maggiore consumatore di energia a livello nazionale.

Sulla base del Clean Power Plan entro il 2030 gli Stati Uniti dovranno tagliare del 40% le emissioni di CO2 generate dal governo federale rispetto ai livelli del 2008, e aumentare del 30% il contributo delle rinnovabili nel mix dei consumi elettrici governativi.

Verso la COP21: un mini G-2 con la Cina sul clima

Con l’avvicinarsi della COP21 di Parigi, il consolidamento delle politiche interne sul clima va di pari passo con una significativa accelerazione dell’azione dell’amministrazione americana in ambito internazionale. Obiettivo primo della diplomazia climatica di Obama non poteva che essere la Cina, contraltare degli Stati Uniti sulla scena globale e di gran lunga il maggiore contributore al mondo in termini di emissioni di CO2.

Dopo lo US-China Joint Announcement on Climate Change del novembre 2014 – con il quale per la prima volta il governo cinese ha riconosciuto il proprio ruolo (e le proprie responsabilità) nella lotta al cambiamento climatico, impegnandosi a ridurre le proprie emissioni – la Casa Bianca ha rafforzato l’intesa bilaterale con la Cina in vista dell’appuntamento parigino attraverso lo US-China Joint Presidential Statement on Climate Change del settembre 2015. Nell’occasione, oltre a reiterare il contenuto dell’accordo del 2014, i Presidenti dei 2 paesi hanno dettato le linee guida congiunte per l’appuntamento della COP21, riaffermando l’impegno verso un ambizioso accordo universale basato su responsabilità comuni ma differenziate, alla luce delle diverse esperienze ed esigenze nazionali. In particolare, l’annuncio presidenziale ha incoraggiato l’inclusione, all’interno dell’accordo finale, di meccanismi di controllo che assicurino la trasparenza e la fiducia reciproca, sostenendo l’introduzione di un sistema di reporting e di revisione condiviso che garantisca l’attuazione universale delle scelte fatte a Parigi. Nell’occasione la Casa Bianca ha anche riaffermato il proprio contributo di 3 miliardi di dollari al Green Climate Fund, l’istituzione creata allo scopo di canalizzare i fondi resi disponibili da parte dei Paesi sviluppati a favore dei Paesi in via di sviluppo. In questo ambito, la leadership americana è fondamentale a garantire un adeguato sostegno finanziario al processo di transizione energetica globale, anche se il livello dell’impegno degli Stati Uniti non è unanimemente considerato adeguato e sufficiente alla luce della capacità finanziaria del paese.

Presidenziali USA e la governance climatica globale

Ovviamente, infatti, nonostante i reali sforzi messi in atto dall’amministrazione nella lotta al cambiamento climatico, le iniziative di Obama si sono spesso scontrate con le dinamiche interne all’establishment politico (e non solo) americano, spesso critico nei confronti di una leadership globale degli Stati Uniti in materia. Pertanto, oggi il dibattito politico è più che mai acceso, e ha iniziato a caratterizzare anche le posizioni degli aspiranti Presidenti post-Obama. Durante il primo dibattito tra i candidati Democratici organizzato dalla CNN lo scorso 13 ottobre, la tematica climatica ha assunto un ruolo considerevole. Durante il loro intervento di presentazione in 4 su 5 – Hillary Clinton, Bernie Sanders, Martin O’Malley e Lincoln Chafee – hanno fatto chiaro riferimento alla lotta ai cambiamenti climatici come obiettivo prioritario del loro mandato. E se il Governatore del Maryland O’Malley ha inserito le sfide climatiche in cima alla lista delle minacce alla sicurezza americana – subito dopo Iran e ISIS, e prima della Russia, l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton non ha mancato di sottolineare il suo ruolo attivo nella diplomazia climatica avviata dal Presidente Obama. Sui temi climatici si è concentrato anche il dibattito tra gli esponenti del partito Repubblicano. Senza grandi sorprese, tuttavia, i candidati alla Casa Bianca hanno utilizzato la questione soprattutto come pretesto per criticare le scelte dell’amministrazione Obama – e con essa tutto il fronte democratico – in materia di lotta ai cambiamenti climatici. All’interno del partito, infatti, è ancora prevalente l’opposizione al dialogo costruttivo sul tema, che viene letto quasi esclusivamente in chiave di costi economici e perdita di competitività del sistema industriale americano. Proprio su questa frattura tra i 2 schieramenti politici si giocherà il futuro ruolo degli Stati Uniti nella governance climatica globale, sebbene in caso di successo internazionale durante la COP21, anche i repubblicani oltranzisti saranno probabilmente costretti, quantomeno, a riflettere su come affrontare in modo costruttivo la questione.

La Russia spezza il monopolio di Wall Street sul prezzo del petrolio

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putin lukoilLa Russia ha appena compiuto passi significativi rompendo l’attuale monopolio di Wall Street sul prezzo del petrolio, almeno per una parte enorme del mercato mondiale del petrolio. La mossa è parte di una strategia a lungo termine per dissociare l’economia russa, e soprattutto la notevole esportazione di petrolio, dal dollaro, tallone d’Achille dell’economia russa.

A novembre il Ministero dell’Energia russo annunciava la negoziazione di un nuovo punto di riferimento del petrolio russo. Anche se questo potrebbe sembrare poca cosa a molti, è enorme. In caso di successo, e non vi è alcuna ragione che non accada, i futuri contratti di riferimento del greggio russo negoziati in borsa russa saranno in rubli e non più in dollari USA. Rientra nella de-dollarizzazione che Russia, Cina e un numero crescente di altri Paesi hanno iniziato. L’imposizione del prezzo di riferimento del petrolio è al centro del metodo utilizzato dalle grandi banche di Wall Street per controllare i prezzi mondiali del petrolio.

Il petrolio è il più grande dei prodotti del mondo in dollari. Oggi, il prezzo del greggio russo fa riferimento a ciò che viene chiamato prezzo del Brent. Il problema è che il Brent, insieme ad altri importanti giacimenti di petrolio del Mare del Nord, è in grave declino, il che significa che Wall Street può usare un punto di riferimento evanescente controllando quantità di petrolio di gran lunga superiori. L’altro problema è che il contratto Brent è controllato essenzialmente da Wall Street i cui derivati sono manipolati da banche come Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP MorganChase eCitibank.

La scomparsa del ‘petrodollaro’

La vendita del petrolio in dollari è essenziale per sostenere il dollaro USA. A sua volta, il mantenimento della domanda di dollari delle banche centrali mondiali per le riserve valutarie, necessari al commercio estero di Paesi come Cina, Giappone o Germania, è essenziale affinché il dollaro degli Stati Uniti resti la principale valuta di riserva mondiale. Questo status di valuta di riserva principale del mondo è uno dei due pilastri dell’egemonia statunitense dalla fine della seconda guerra mondiale. Il secondo pilastro è la supremazia militare mondiale.

Le guerre degli Stati Uniti finanziate dai dollari degli altri

Poiché tutte le altre nazioni devono acquisire dollari per l’importazione di petrolio e della maggior parte delle altre materie prime, Paesi come Russia o Cina investono in genere il surplus commerciale delle aziende che guadagnano dollari, sotto forma di titoli di Stato degli Stati Uniti o simili. L’unico altro candidato abbastanza grande, l’euro, dalla crisi greca del 2010 è visto più rischioso. Il ruolo di riserva principale del dollaro USA, dall’agosto 1971, quando si staccò dall’oro, ha sostanzialmente consentito al governo degli Stati Uniti di avere deficit di bilancio apparentemente senza fine e senza doversi preoccupare dell’aumento dei tassi di interesse, avendo un credito scoperto permanente nella vostra banca, permettendo a Washington di creare un debito federale da 18600 miliardi di dollari senza grande preoccupazione. Oggi il rapporto tra debito pubblico e PIL degli Stati Uniti è del 111%. Nel 2001, quando George W. Bush salì al potere e prima che migliaia di miliardi fossero spesi per la “Guerra al Terrore” afghana e irachena, il rapporto debito e PIL era solo la metà, il 55%. L’espressione tipica di Washington è che “il debito non ha importanza”, per il presupposto che il mondo, Russia, Cina, Giappone, India, Germania, ne comprerà sempre il debito con i loro dollari del surplus commerciale.

La capacità di Washington di detenere la valuta di riserva principale, priorità strategica di Washington e Wall Street, è vitale essendo legata alla determinazione dei prezzi mondiali del petrolio. Fino alla fine degli anni ’80 i prezzi mondiali del petrolio erano decisi soprattutto da domanda e offerta quotidiane reali. Dipendeva da acquirenti e venditori di petrolio. Allora Goldman Sachs decise di acquistare la piccola intermediaria in materie prime di Wall Street J. Aron, guardando al traffico di petrolio scambiato sui mercati mondiali. Fu l’avvento del “petrolio di carta”, negoziati dei contratti futures di petrolio, indipendentemente dal commercio del greggio fisico, più facile per le grandi banche da manipolare secondo voci e derivati ingannevoli sul mercato, essendo una manciata di banche di Wall Street a dominare i futures sul petrolio, e sapendo chi deteneva quali posizioni, un conveniente ruolo da insider raramente menzionato dalle società educate. Iniziò la trasformazione del commercio del petrolio in un casinò dove Goldman Sachs,Morgan Stanley, JP MorganChase e poche altre banche giganti di Wall Street mandarono in rovina i corsi.

All’indomani dell’aumento del prezzo del petrolio OPEC, nel 1973, di circa il 400% nei primi mesi successivi alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973, il Tesoro degli Stati Uniti inviò un alto emissario a Riyadh, in Arabia Saudita. Nel 1975, l’assistente del segretario al Tesoro statunitense, Jack F. Bennett, fu inviato in Arabia Saudita per garantire l’accordo con la monarchia saudita a che il petrolio dell’OPEC venisse negoziate solo in dollari statunitensi, non in yen giapponesi o marchi tedeschi o altro. Bennett divenne poi alto dirigente dell’Exxon. I sauditi ebbero maggiori garanzie ed equipaggiamenti militari in cambio e da allora, nonostante i grandi sforzi dei Paesi importatori di petrolio, il petrolio viene venduto sui mercati mondiali in dollari ed il prezzo è fissato da Wall Street tramite il controllo delle borse dei derivati futures, come Intercontinental Exchange o ICE di Londra, la borsa sullo scambio delle merci NYMEX di New York, o il Dubai Mercantile Exchange, punti di riferimento dei prezzi del greggio arabo e tutti di proprietà di un gruppo affiatato di banche di Wall Street, Goldman Sachs, JP MorganChase, Citigroupe altre. L’allora segretario di Stato Henry Kissinger avrebbe dichiarato: “Se si controlla il petrolio, è possibile controllare intere nazioni“. Il petrolio era al centro del sistema del dollaro dal 1945.

L’importanza del punto di riferimento russo

Oggi i prezzi delle esportazioni di petrolio russo sono decisi dal prezzo del Brent quotato a Londra e New York. Con il lancio della borsa della Russia, si avrà un cambiamento probabilmente molto drammatico. I nuovi contratti sul greggio russo in rubli, e non dollari, saranno negoziati dalla International Mercantile Exchange di San Pietroburgo (SPIMEX). Il contratto di riferimento Brent sono utilizzati attualmente per il prezzo non solo del greggio russo, ma anche per decidere il prezzo di oltre due terzi del petrolio sul mercato internazionale. Il problema è che la produzione del Mare del Nord della miscela Brent è calata oggi a soli 1 milione di barili, fissando il prezzo del 67% del petrolio internazionalmente scambiato. I contratti sul petrolio in rubli russi potrebbero intaccare notevolmente la domanda di dollari, una volta accettati. La Russia è il maggiore produttore di petrolio del mondo, quindi la creazione di una borsa del petrolio russo, indipendente dal dollaro, è significativa, per usare un eufemismo.

Nel 2013 la Russia ha prodotto 10,5 milioni di barili al giorno, un po’ più dell’Arabia Saudita. Poiché il gas naturale è utilizzato principalmente in Russia, il 75% del petrolio può essere esportato. L’Europa è di gran lunga il principale cliente del petrolio della Russia, acquistando 3,5 milioni di barili al giorno o l’80% del totale delle esportazioni petrolifere russe. La miscela degli Urali, una miscela di varietà di petrolio russo, è il principale tipo di petrolio esportato dalla Russia. I principali clienti europei sono Germania, Paesi Bassi e Polonia. Mettendo in prospettiva la mossa della Russia, gli altri grandi fornitori di greggio dell’Europa, Arabia Saudita (890000 barili al giorno), Nigeria (810000 barili al giorno), Kazakistan (580000 barili al giorno) e Libia (560000 barili al giorno), sono molto indietro rispetto alla Russia. Inoltre, la produzione nazionale di greggio in Europa è in rapido declino. La produzione di petrolio dell’Europa è scesa appena sotto i 3 Mb/g nel 2013, a seguito del costante calo nel Mare del Nord, base del parametro di riferimento del Brent.

La fine dell’egemonia del dollaro è un bene per gli Stati Uniti

La mossa russa sul prezzo in rubli delle grandi esportazioni di petrolio sui mercati mondiali, in particolare l’Europa occidentale, e sempre più verso Cina e Asia attraverso l’oleodotto ESPO e altre vie, con la nuova borsa del petrolio russo International Mercantile Exchange di San Pietroburgo, non è l’unica grande mossa per ridurre la dipendenza dei Paesi dal dollaro sul petrolio. All’inizio del prossimo anno, la Cina, secondo maggiore importatore di petrolio al mondo, prevede di lanciare il proprio contratto di riferimento petrolifero. Come i russi, il punto di riferimento della Cina sarà denominato in yuan cinesi, e non in dollari, e sarà negoziata dall’International Energy Exchange di Shanghai. Passo dopo passo, Russia, Cina e altre economie emergenti adottano misure per ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense, la “de-dollarizzazione”.

Il petrolio è il maggiore prodotto commerciato al mondo e quasi interamente in dollari. Se alla fine sarà così, la capacità del complesso militare-industriale degli Stati Uniti di finanziare guerre infinite sarà nei guai. Forse aprirà alcune porte a idee più tranquille, come spendere i dollari dei contribuenti per la ricostruzione delle terribilmente deteriorate infrastrutture economiche basilari degli USA. L’American Society of Civil Engineers nel 2013 stimava in 3600 miliardi di dollari di investimenti necessari per le infrastrutture degli Stati Uniti nei prossimi cinque anni. Indicava che un ponte su 9 negli USA, più di 70000, è deficitario. Quasi un terzo delle strade principali degli Stati Uniti sono in cattive condizioni. Solo 2 dei 14 principali porti della costa orientale possono accogliere le supernavi da carico che presto attraverseranno il Canale di Panama recentemente ampliato. Vi sono oltre 14000 miglia di ferrovie ad alta velocità nel mondo, ma alcuna negli Stati Uniti. Questo tipo di spesa per le infrastrutture sarebbe fonte economica di gran lunga più vantaggiosa in posti di lavoro e gettito fiscale reale negli Stati Uniti, delle guerre infinite di John McCain. Gli investimenti in infrastrutture, come visto nei precedenti articoli, hanno effetto moltiplicatore creando nuovi mercati. Le infrastrutture creano efficienza economica ed entrate fiscali pari a 11 per ogni dollaro investito per rendere più efficiente l’economia. Un drammatico declino del ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, assieme a una ridefinizione nazionale di tipo russo, della ricostruzione economica interna statunitense, piuttosto che l’esternalizzazione, sarebbe un modo notevole di riequilibrare un mondo impazzito con la guerra.

Paradossalmente, la de-dollarizzazione, negando a Washington la capacità di finanziare guerre future con l’investimento nel debito del Tesoro USA da parte di acquirenti di obbligazioni cinesi, russi e altri, sarebbe un prezioso contributo alla pace mondiale. Non sarebbe un bel cambiamento?

Clima: ripartire da Parigi

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L’Accordo di Parigi è stato salutato con grande entusiasmo sia dai governi firmatari, che da buona parte dell’opinione pubblica internazionale, a lungo preoccupata per un possibile fallimento della COP21 dopo gli insoddisfacenti risultati di Copenaghen, Cancún e Durban.

Cop21 Parigi

L’accordo universale tra le parti segna un momento di svolta senza precedenti, dettato in gran parte dal riconoscimento collettivo della necessità di agire con urgenza contro il cambiamento climatico. Parigi, tuttavia, non può essere considerata un punto d’arrivo. Anzi.

Per quanto considerati positivi e incoraggianti, gli obiettivi di lungo termine fissati a Parigi sono infatti soltanto una base di partenza – certamente più solida che in passato – per l’inizio di un credibile percorso globale verso la decarbonizzazione, la sostenibilità e la lotta al cambiamento climatico. Per far si che ciò accada, nei prossimi anni sarà necessario un chiaro cambio di passo nelle politiche energetiche degli stati firmatari, nonché una radicale trasformazione dei consumi energetici nei processi produttivi e nei comportamenti quotidiani della comunità globale.

Accordo storico

Quanto sottoscritto a Parigi, almeno sulla carta, va ben oltre le più rosee aspettative. L’ambizioso obiettivo di limitare l’aumento delle temperature di 1,5°C rispetto ai livelli del 1990 – di mezzo grado inferiore dell’obiettivo di 2°C proposto in vista della Conferenza – e l’impegno a raggiungere quanto prima il picco delle emissioni, alimentano effettive speranze sull’impegno dei leader globali per un’azione di lungo periodo post-COP21.  L’accordo, tuttavia, non ha quella forza vincolante annunciata con entusiasmo alla fine della Conferenza. Infatti, sebbene gli obiettivi sottoscritti da ciascun firmatario verranno trascritti in registri pubblici internazionali accessibili alla comunità globale, in realtà gli Intended Nationally Determined Contributions (INDC) manterranno una natura volontaristica e, pertanto, non potranno essere presi a riferimento per sanzionare traiettorie climatiche non conformi a quanto stabilito a Parigi. Per far fronte a questa eventualità, ogni 5 anni gli obiettivi nazionali verranno comunque rivisti (in caso, per renderli più ambiziosi) e sarà al contempo effettuata una valutazione dei progressi ottenuti. L’accordo, infine, riconosce la necessità di rafforzare i meccanismi di Loss & Damage per assistere quei paesi particolarmente vulnerabili di fronte agli effetti del cambiamento climatico (seppur escludendo in modo esplicito il riconoscimento di responsabilità giuridica o la possibilità di compensazioni), e incoraggia la definizione di una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno – da qui al 2020 – per il finanziamento di politiche ambientali in paesi in via di sviluppo.

Ancora tanto da fare

Di fronte al testo dell’Accordo di Parigi si nota immediatamente che l’attuazione delle misure previste per il suo effettivo funzionamento prenderà necessariamente del tempo, e che sarà fondamentale la volontà dei singoli stati perché ciò avvenga. L’assenza di meccanismi sanzionatori e, quindi, la dipendenza da procedure di governance non vincolanti per garantire il monitoraggio delle politiche climatiche e dei risultati raggiunti a livello nazionale, impongono ancora un certo livello di cautela nel giudizio. Proprio la preparazione alla Conferenza di Parigi dimostra che la solidità dei criteri di trasparenza, in questo ambito, giocherà un ruolo fondamentale. E non soltanto a livello internazionale, dove le politiche climatiche verranno collegate a meccanismi di reporting condivisi nel quadro delle Nazioni Unite, ma soprattutto a livello nazional e locale, dove il rispetto degli obiettivi fissati dagli INDC sarà sotto la lente di ingrandimento di un’opinione pubblica e di una cittadinanza sempre più esigente e attenta ai benefici diretti e indiretti (es. qualità dell’aria, sicurezza energetica) della politica climatica. Questione spinosa, ma essenziale per assicurare il committment dei paesi in via di sviluppo, è quella del sostegno finanziario alla lotta contro il cambiamento climatico. L’Accordo di Parigi, infatti, si basa su un sottile equilibrio tra le posizioni dei due gruppi di paesi, e sulla promessa che i costi delle politiche climatiche future verranno distribuiti anche in base alle traiettorie passate, senza impattare pesantemente sui processi economico-industriali dei paesi in via di sviluppo. Questo, ovviamente, richiede l’effettivo funzionamento dei meccanismi di finanziamento internazionale, una questione sulla quale i paesi industrializzati – nonostante gli annunci – sembrano ancora mostrare una certa riluttanza ad agire con forza.

Una rivoluzione di tutti

Nonostante i punti ancora aperti, l’ambizione e la visione di lungo periodo emerse dalla COP21 offrono – a differenti livelli – importanti elementi per la pianificazione e l’attuazione della necessaria transizione energetico-climatica. Basti considerare, ad esempio, la reazione dei principali attori finanziari internazionali, che sembrano credere nel percorso delineato a Parigi dichiarandosi pronti a cogliere le opportunità di investimento che politiche le globali e nazionali saranno in grado di offrire.  Un ruolo chiave, in questo contesto, verrà giocato dal tessuto economico-industriale, nelle cui mani è affidata buona parte della transizione climatica lanciata dalla COP. Infatti, per quanto i governi saranno chiamati a fornire policies e garanzie regolatorie chiare e stabili, il settore privato dovrà investire in tecnologie e processi in grado – contemporaneamente – di migliorare le proprie performances economiche e ridurre il proprio impatto ambientale. Si pensi ad esempio, al settore dell’agricoltura, che ad oggi contribuisce a 1/4 delle emissioni globali di CO2: il potenziale dell’innovazione tecnologica in questo ambito può portare a risultati eccezionali, a vantaggio anche della sicurezza alimentare di milioni di persone. Infine, certo non per minore importanza, vanno promossi sviluppi nel settore della generazione elettrica, che attualmente pesa per un altro 25% sulle emissioni globali. La rivoluzione smart, già in atto nelle aree industrializzate del pianeta, offre grandi possibilità da questo punto di vista. Se abbinata al crescente ricorso all’autoproduzione di elettricità (attraverso le rinnovabili) e alla generazione distribuita, la penetrazione di tecnologie smart comporterà – grazie alla progressiva responsabilizzazione dei piccoli consumatori e dei cittadini – una trasformazione senza precedenti nei consumi energetici (e nelle relative emissioni) globali. Proprio nelle scelte di quest’ultimi, la cui partecipazione nella preparazione della COP21 è stata straordinaria e senza precedenti, si innesterà l’azione per vincere la sfida climatica.

In definitiva, va dato atto alla Conferenza di Parigi di aver gettato le basi per un futuro climatico più roseo. Ora sta a tutti gli stakeholder coinvolti – dal Capo di Stato al piccolo pescatore della Micronesia, passando l’Amministratore della multinazionale – fare si che la trasformazione lanciata con la COP21 possa effettivamente materializzarsi.

Emettere bond per finanziare la bonifica della Terra dei Fuochi. La proposta di Luigi De Falco

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Luigi De FalcoNel 2014, quando il problema della Terra dei Fuochi esplose in tutta la sua drammaticità a livello nazionale, l’imprenditore Luigi De Falco, Presidente del Gruppo H2biz e fondatore di questa testata, aveva proposto di emettere dei bond per finanziare la bonifica ambientale.

Sono passati due anni, le bonifiche non sono ancora partite per carenza di fondi e la proposta dei “Bond Terra dei Fuochi” torna d’attualità. Abbiamo incontrato Luigi De Falco a Ginevra, a margine dei festeggiamenti per i cinque anni di Outsider News, e gli abbiamo chiesto di spiegarci la sua proposta.

Sono passati due anni dalla sua idea dei “Bond Terra dei Fuochi”. Purtroppo, nulla è cambiato, le bonifica è ancora al palo. Ci descrive nel dettaglio la sua proposta? 
Secondo gli ultimi dati, per la bonifica servirebbero tra i sei e i dieci miliardi di euro, una cifra difficile da reperire nel bilancio statale senza aumentare il livello di tassazione. La mia è una proposta di mercato. Per finanziare la bonifica della terra dei fuochi si potrebbero emettere dei bond ventennali garantiti dallo Stato italiano da collocare sui mercati internazionali ad un tasso interessante per gli investitori, magari di due punti superiore al BTP di pari durata. In questo modo si riuscirebbe a dilazionare nel tempo il costo di bonifica e gli interessi da pagare agli investitori potrebbero essere coperti dalla valorizzazione economica del territorio.  Le terre, una volta bonificate, non devono per forza essere riconvertite a colture agricole, notoriamente a bassa redditività, ma potrebbero diventare dei siti industriali, dei musei, degli alberghi o qualsiasi altra attività economica che produca reddito in grado di pagare gli interessi agli investitori. I bond potrebbero essere emessi dalla Cassa Depositi e Prestiti, che sempre più si sta configurando come un veicolo per stimolare investimenti e che gode di un’elevata credibilità sui mercati. Va da se che in parallelo all’emissione dei bond bisognerebbe indire una gara di appalto internazionale con regole ferree e meccanismi trasparenti per evitare che la bonifica venga gestita dalle stesse imprese che hanno inquinato il territorio.

Chi potrebbe sottoscrivere questi bond?
Se i bond vengono emessi dallo Stato o da un ente pubblico, tutti potrebbero sottoscriverli, anche i piccoli risparmiatori. Magari proprio gli abitanti della Terra dei Fuochi, in modo che la redditività dei bond compensi, in parte, il danno ambientale subito. Una specie di “risarcimento” per chi ha vissuto sulla propria pelle questa tragedia. Se i tassi sono interessanti e se l’emittente è pubblico, possono far gola anche a fondi e investitori internazionali, soprattutto in questa fase di rendimenti bassi.

Secondo lei, la politica potrebbe raccogliere la sua proposta e trasformarla in realtà?
Non sta a me deciderlo. Io sono un imprenditore, ho fatto solo una proposta, tocca alle istituzioni valutarne, se ne hanno voglia, la bontà e agli operatori finanziari la fattibilità. Ma, oltre alla mia, ci sono tante altre proposte interessanti per risolvere il problema della bonifica. L’importante è fare presto perchè quei veleni sono ancora li dove erano stati sotterrati e la gente, purtroppo, continua a morire. Mai come in questo caso la velocità è un fattore determinante, qualunque strada si decida di percorrere.

Scricchiola il welfare del Petrolio

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L’inizio del nuovo anno ha assestato l’ennesimo duro colpo ai maggiori paesi produttori di petrolio, con il prezzo del greggio che non ha accennato ad arrestare la sua corsa al ribasso. Complice la rimozione delle sanzioni internazionali all’Iran, sia il WTI che il Brent sono scesi ben sotto la soglia critica dei 30 dollari al barile, toccando i minimi dal 2003.

Welfare Petrolio

Questi sviluppi, ovviamente, non possono che avere forti ripercussioni sugli esportatori di idrocarburi, che spesso dipendono dai proventi delle vendite internazionali per garantire la sostenibilità dei loro bilanci pubblici e la stabilità dei regimi politici.

L’impatto sulle finanze pubbliche

Nella maggioranza di questi paesi, gli introiti delle esportazioni di petrolio (e in parte di gas naturale, il cui prezzo è generalmente collegato a quello del greggio) rappresentano la principale entrata fiscale dei governi. Prima del crollo dei prezzi, ad esempio, le rendite energetiche contribuivano a circa il 50% del prodotto interno lordo e al 75% delle esportazioni dei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar. In Iran rappresentavano l’80% del valore delle esportazioni totali e il 60% delle entrate del governo, mentre in Iraq e Libia contribuivano a circa il 40% del prodotto interno lordo.
A ciò si aggiunge il fatto che negli ultimi anni i bilanci pubblici dei principali produttori sono stati approvati sulla base di proiezioni del prezzo del greggio ben al di sopra degli attuali 30 dollari al barile. Per il 2015, le stime più credibili parlano di un fiscal breakeven poco oltre i 100 dollari per l’Arabia Saudita, attorno ai 120 dollari per l’Iran, 130 dollari per l’Algeria, e addirittura oltre i 180 dollari per la Libia. Più virtuosi, ma pur sempre ben oltre l’attuale soglia, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar, con prezzi di equilibrio attorno ai 70 dollari al barile.

Nell’ultimo anno e mezzo la forbice tra proiezioni dei governi e prezzi reali ha creato ovunque forti deficit di bilancio, che sono stati assorbiti grazie alle ingenti riserve finanziarie accumulate nel periodo in cui il barile viaggiava abbondantemente sopra i 100 dollari. Si pensi, ad esempio, al fondo sovrano saudita, che ha raggiunto i 733 miliardi di dollari, o quello del Kuwait (la Kuwait Investment Authority, KIA) che detiene riserve finanziarie pari a circa 600 miliardi di dollari. Tuttavia, poiché le casse di questi fondi – non tutti robusti come quello saudita o quello kuwaitiano – si stanno progressivamente svuotando, i governi devono necessariamente trovare il modo per affrontare in modo strutturale questa situazione, che rischia di diventare insostenibile.

Primi tagli al via

Il crollo dei prezzi del greggio, pertanto, rende necessaria una sostanziale riforma del modello di welfare state – anche energetico – che finora ha garantito servizi e sussidi alla popolazione in cambio dell’esclusione dai processi politici nazionali. Le prime contromosse da parte dei paesi esportatori, infatti, non hanno tardato ad arrivare. I nuovi vertici della casa reale saudita, ad esempio, hanno approvato un taglio del 14% della spesa pubblica, mettendo un freno agli stipendi del settore pubblico – costati, solo in bonus, 24 miliardi di dollari nel 2015 – e riducendo i sussidi energetici, misura che ha determinato l’aumento dei prezzi della benzina alla pompa del 40%.
Anche in Kuwait, per far fronte al significativo deficit di bilancio previsto per il 2016, l’Emiro Sheikh Sabah Al Ahmad Al Jaber Al Sabah ha annunciato l’introduzione di ingenti misure di riduzione della spesa (che andranno a impattare in particolar modo sui prezzi dei combustibili) nonché la possibile introduzione di imposte sui redditi d’impresa per le compagnie locali. Misure simili sono state proposte dal governo algerino, che ha presentato al parlamento una serie di tagli pari al 9% del budget, accompagnati dall’aumento della tassazione, l’introduzione di dazi sulle importazioni e soprattutto una riforma dei sussidi benzina, gasolio ed elettricità. In Iraq, invece, sono previsti tagli significativi al sistema sanitario nazionale, creato negli anni ’70 e ancora oggi tra i (pochi) fiori all’occhiello della politica irachena, in grado di fornire trattamenti sanitari gratuiti al 97% della popolazione urbana e al 71% di quella agricola del Paese.
L’assottigliarsi delle riserve finanziarie e il perdurare di prezzi bassi, in effetti, rischia di mettere in crisi il modello di rentier state messo in piedi dai governi a partire dagli anni ’70. Alcuni benefici garantiti per decenni, ad esempio l’accesso a prezzi irrisori ai servizi energetici e ad altri beni di prima necessità, potrebbero venire drasticamente ridimensionati. In questo contesto, il cambio rapido e radicale di modello socio-economico – soprattutto se non accompagnato da aperture simili in ambito politico, giustificate dalla possibile introduzione di meccanismi di tassazione – potrebbe accrescere l’instabilità interna di alcuni di questi paesi.

Stabilità e interessi europei

Se sommati alle divisioni settarie interne e alle tensioni geopolitiche regionali, i cambiamenti in atto in alcuni di paesi produttori potrebbero effettivamente avere un impatto destabilizzante in una area geografica ad oggi alquanto turbolenta. Il discontento popolare provocato dalle riforme potrebbe trasformarsi in forme violente di protesta, come nel caso dei primi moti della Primavera Araba nel 2011, o in processi di radicalizzazione islamica, con attacchi diretti ai centri di potere nazionali che in questi decenni – tra alti e bassi – hanno comunque garantito una cooperazione energetica stabile ai paesi occidentali.
Ma i tagli ai bilanci pubblici e la minore capacità di spesa potrebbero anche limitare la capacità di alcuni governi di intervenire a livello locale e regionale per garantire la stabilizzazione delle principali – attuali e potenziali – aree di crisi. Questo, ad esempio, è un rischio potenziale in Iraq, dove l’emergere dello Stato Islamico impone a Baghdad ingenti spese militari e umanitarie, insieme al rafforzamento delle misure di sicurezza per proteggere gli asset energetici, alle quali il governo non può non permettersi di fare fronte per tutelare la propria sopravvivenza. Anche in Egitto, dove parte della stabilità del regime del Generale Al-Sisi è stata assicurata dai fondi provenienti dai petro-regimi del Golfo, il paventato giro di vite sulle generose politiche di cooperazione di quest’ultimi metterebbe in serio dubbio la sostenibilità dei conti pubblici del Cairo, esponendo il governo a possibili nuove ondate di tumulti sulla scia di quelli sperimentati negli ultimi anni.

Tutta questa incertezza nel suo vicinato, ovviamente, non può che avere ripercussioni sulla sicurezza dell’Unione europea, nonché sulla sostenibilità dei suoi approvvigionamenti petroliferi, che provengono per il 40% dall’aera africana e mediorientale. Ad oggi, le misure a disposizione di Bruxelles e degli Stati membri per far fronte a questa rapida evoluzione appaiono ancora limitate: tuttavia, grazie al rafforzamento della Diplomazia Energetica europea prevista dall’Energy Union, l’UE potrebbe finalmente dotarsi di strumenti adeguati per cooperare con i partner mediorientali verso una transizione energetica sostenibile (Fonte: ABO).


Il gas USA alla conquista del mondo

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Il 2016 sarà l’anno del gas americano. A marzo, infatti, la compagnia energetica statunitense Cheniere Energy consegnerà in Europa – precisamente in Spagna – i primi carichi di gas naturale liquefatto (LNG) provenienti dal terminal Sabine Pass, in Louisiana.

Gas Usa

Grazie alla “rivoluzione” shale, nel giro di pochissimi anni gli Stati Uniti si stanno trasformando in un paese esportatore di gas naturale, e aspirano a diventare un attore globale del mercato LNG. Infatti, nonostante le rigide procedure di autorizzazione previste dal Dipartimento per l’Energia (DoE) e dalla Guardia Costiera federale, dal 2011 sono stati avviati oltre venti progetti per l’esportazione di LNG dalle coste americane, cinque dei quali sono già in fase pre-operativa. In ottica europea, il gas americano potrà rafforzare le strategie di diversificazione energetica promosse della Commissione e dagli stati membri, contribuendo a ridurre la dipendenza dagli attuali fornitori, Russia in primis. Tuttavia, il successo della cooperazione transatlantica appare oggi tutt’altro che assicurato: nonostante i primi carichi di LNG in arrivo in Europa, l’eccesso di offerta a livello globale, i livelli dei prezzi nei principali hub europei e lo stallo dei negoziati sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (T-TIP) potrebbero infatti frenare l’attuale entusiasmo per il gas “a stelle e strisce”.

Una scalata dai numeri straordinari

La traiettoria in atto nel settore del gas naturale negli Stati Uniti ha dell’incredibile. Il paese, fino alla metà dello scorso decennio si preparava a diventare il più grande importatore di gas del pianeta. Oggi, la “rivoluzione” non-convenzionale lo ha reso praticamente autosufficiente e pronto a inserirsi nel mercato globale dell’LNG. Nel giro di pochi anni, infatti, la produzione di shale gas – concentrata principalmente nei giacimenti di Bakken in North Dakota, Marcellus in Pennsilvanya e Eagle Ford in Texas – è passata dai 20 miliardi di metri cubi annui (Bcm) del 2008 ai 430 Bcm del 2015. Oltre al terminal Sabine Pass di Cheniere Energy – approvato dalle autorità americane nel 2012 e pronto ad avviare le operazioni nei prossimi mesi – negli ultimi tre anni sono stati avviati oltre venti progetti per l’esportazione di gas naturale dalle coste americane. Attualmente, cinque di questi hanno ottenuto tutte le licenze necessarie e quattro sono già in fase di realizzazione, per una capacità totale di esportazione pari a 105 Bcm, quasi tutta concentrata nel Golfo del Messico tra Louisiana e Texas. Una volta completamente operativa, l’intera infrastruttura di liquefazione americana potrebbe essere in grado di commercializzare sui mercati globali oltre 400 Bmc di LNG, ben oltre l’intera domanda europea di gas (nel 2014 ferma a 387 Bcm) e oltre sette volte quella italiana (56 Bcm). Nonostante la rapidità con la quale le compagnie energetiche, americane e non, si sono inserite nel settore, la sostenibilità di alcuni questi progetti – per la realizzazione dei quali sono necessari investimenti attorno ai 100 miliardi di dollari – è resa incerta da problematiche di natura amministrativa. Le esportazioni di LNG, infatti, sono al momento sottoposte alla valutazione del Dipartimento dell’Energia, che – nel caso di paesi non firmatari di Free Trade Agreements (FTAs) – ne stabilisce di volta in volta l’ammissibilità, rallentando le decisioni di investimento degli operatori.

Alla ricerca di mercati di esportazione

La questione delle autorizzazioni è resa particolarmente spinosa dal fatto che tra i venti firmatari di FTA con gli Stati Uniti – eccezion fatta per la Corea del Sud – non vi sono grandi consumatori di gas naturale. Del gruppo, ad esempio, non fa parte l’Unione europea – il maggiore importatore a livello globale – che dipende dall’estero per il 65% dei suoi consumi.
All’apice della crisi in Ucraina e alla luce delle potenziali ripercussioni sulle forniture di gas dalla Russia, l’opzione europea per l’LNG americano è stata sponsorizzata sia dal Presidente Obama che dalla Commissione europea e da alcuni stati membri. Attualmente, la capacità di rigassificazione europea è utilizzata soltanto al 20%, con ampi margini per le importazioni soprattutto in Spagna, Francia, Regno Unito e Italia. Al fine di ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture disponibili e di assicurare l’accesso al mercato ai paesi dell’Europa centro-orientale, la Commissione presenterà a gennaio – nell’ambito dell’Energy Union – la sua primaEuropean LNG Strategy, all’interno della quale il gas americano giocherà molto probabilmente un ruolo rilevante. Al contempo, la progressiva diminuzione dei prezzi del gas in Asia orientale e il sostanziale allineamento a quelli europei, ha reso il vecchio continente un mercato più appetibile rispetto al passato, quando gli alti differenziali di prezzo rendevano i mercati asiatici la destinazione preferita dagli esportatori di LNG. In questa situazione, alla luce della localizzazione dei principali terminal di esportazione americani e della vicinanza geografica, l’UE potrebbe rappresentare un’opzione appetibile per il gas statunitense.

Ci sarà anche un futuro europeo?

Nonostante queste rosee prospettive, tuttavia, il destino del gas americano è tutto fuorchè certo. Washington e Bruxelles sono impegnate nei negoziati sul TTIP, che renderebbe possibili le esportazioni di gas americano in Europa senza dover affrontare le procedure autorizzative del Dipartimento per l’Energia, velocizzando i tempi commerciali e rafforzando la cooperazione energetica a livello transatlantico. La finalizzazione dell’accordo, però, appare oggi abbastanza incerta, e con essa la possibilità di creare un mercato del gas transatlantico privo degli stretti vincoli dell’amministrazione americana. A ciò va aggiunto il fatto che, a causa di una domanda di gas che stenta a riprendersi dopo la crisi economica, e di politiche energetiche orientate all’utilizzo delle rinnovabili, il mercato europeo è oggi caratterizzato da un eccesso di domanda e da prezzi particolarmente depressi. Ai prezzi attuali nei maggiorihub europei, al netto dei costi di liquefazione/rigassificazione e di trasporto, i profitti per i produttori americani di LNG potrebbero non giustificare politiche di export verso l’Europa. Alla luce di queste considerazioni, il futuro dell’asse transatlantico nel settore del gas naturale appare oggi meno promettente di quanto previsto sulla scia della crisi ucraina. Se è ipotizzabile, infatti, che volumi di LNG americano raggiungeranno il mercato europeo nei prossimi mesi, risulta ancora difficile pensare agli Stati Uniti come un’alternativa agli attuali fornitori del vecchio continente. Di sicuro, comunque, il gas “a stelle e strisce” contribuirà ad aggiungere un’opzioni affidabile al portfolio degli approvvigionamenti europei – con effetti positivi in particolare su alcuni paesi pronti ad investire nel settore LNG come la Lituania e la Polonia, e più in generale sulla sicurezza energetica dell’UE (Fonte: ABO).

La rincorsa energetica dell’Azerbaijan e quel tesoro da 7 miliardi di barili

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Dopo l’avvio della produzione di gas nel giacimento di Shah Deniz a metà degli anni 2000, l’Azerbaijan è rapidamente diventato uno dei partner più appetibili per la nascente politica di sicurezza energetica europea.

Baku Energy

Quasi in contemporanea, l’inaugurazione dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Cehyan ha finalmente spalancato le porte dei mercati globali alle risorse petrolifere del Paese caucasico – racchiuso territorialmente tra Mar Caspio, Russia e Iran. I dati più recenti relativi al settore degli idrocarburi dell’Azerbaijan parlano di riserve di petrolio, pari a 7 miliardi di barili, e di gas naturale, che si attestano attorno al trilione di metri cubi, (i dati oscillano leggermente in base alle diverse fonti.) Queste risorse posizionano globalmente l’Azerbaijan al ventesimo posto per quanto riguarda le riserve provate di greggio (0.4% delle riserve globali), e al ventitreesimo per quelle di gas naturale (0.6%).

Dopo il picco di un milione di barili al giorno di produzione raggiunto nel 2010, le performance del settore petrolifero hanno subito un importante rallentamento, brevemente interrotto solo nel 2013 da una minima risalita dell’output nazionale (877.000 barili al giorno). In base agli ultimi dati disponibili, la produzione nel 2015 sarebbe ulteriormente discesa raggiungendo il minimo dell’ultimo decennio, a 835.000 barili al giorno.

Una produzione altalenante

La compagnia energetica nazionale dell’Azerbaijan, la Socar, produce circa il 20% dell’output totale di greggio, attestatosi nel 2015 a 163.870 barili giorno, in leggero declino rispetto agli anni precedenti (167.083 b/g nel 2014). La produzione si concentra nei giacimenti di Mishovdagh (27.000 b/g), Neftchala (14.000 barili al giorno), Khilli (14.000 barili al giorno), Pirsahhat (10.000 barili al giorno), Gum Deniz (condensato, 10.000 barili al giorno) e in una serie di altri prospetti minori. Circa l’80% dell’output petrolifero del Paese, tuttavia, proviene dal complesso offshore Azeri, Chirag e Guneshli (ACG), operato da BP, il cui production-sharing agreement è stato siglato nel 1994 nell’ambito del famoso Contract of the Century. Anch’esso ha subito un calo significativo dal 2010, anno in cui la produzione si è attestata su 823.100 barili/giorno, per raggiungere i 634.000 barili al giorno del 2015. Per far fronte al rallentamento dello sfruttamento dei giacimenti ACG, da un lato BP prevede di aumentare le re-iniezioni di gas associato, che dovrebbero quantomeno stabilizzare la produzione; dall’altro, si scommette sullo sviluppo di una nuova sezione del giacimento Chirag, autorizzata dal governo nel 2010, entrata in produzione con l’installazione della nuova piattaforma West Chirag.

Nel 2014 il nuovo prospetto ha raggiunto una produzione di 66.000 barili al giorno, al fronte di una capacità massima di produzione della piattaforma prevista a 183.000 barili. BP attualmente opera anche nel giacimento di Shah Deniz, che pur essendo principalmente un bacino a gas naturale, produce all’incirca 55.000 barili al giorno che vanno a integrare la produzione di greggio della major inglese nel Paese.

Il viaggio dell’oro nero azerbaijano

Con consumi domestici che si aggirano attorno agli 80.000 barili/giorno, gran parte del petrolio azero (circa 760.000 barili al giorno) viene esportato sui mercati internazionali. Il già citato oleodotto Baku-Tiblisi-Cehyan, che corre dal terminal di Sangachal sul Caspio per 1770 chilometri fino ad arrivare al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, è il principale canale di esportazione del greggio azerbaijano. La pipeline ha una capacità totale di un milione di barili al giorno, utilizzata nel 2015 anche per trasportare volumi di greggio kazako e turkmeno. Le altre 2 rotte per l’esportazione sono l’oleodotto Baku-Novorossiysk (on Northern Route Export Pipeline, NREP) in grado di trasferire un massimo di 100.000 barili al giorno verso la Russia (attraverso il quale nel 2015 sono stati esportati 25.500 barili al giorno di greggio), e la pipeline Baku-Supsa che possiede una capacità di trasporto di 145.000 barili al giorno sul mar Nero (attraverso la quale sono stati esportati 56.000 barili al giorno di greggio).

L’avanzata delle risorse di gas

Nel settore del gas naturale, nonostante gli ambiziosi proclami di Baku debbano essere rivisti al ribasso, la situazione appare comunque meno critica. Sulla base dei dati forniti da Socar, nell’ultimo decennio la produzione di gas naturale è più che triplicata, passando dai 9 miliardi di metri cubi  del 2006 ai 29 miliardi di metri cubi del 2015, anno che tuttavia ha fatto segnare una leggerissima flessione rispetto al picco raggiunto nel 2014 (29.6 miliardi di metri cubi). Una quota significativa di questo gas, tuttavia, viene re-iniettata per mantenere la pressione nei giacimenti di greggio, riducendo di fatto la produzione commercialmente utilizzabile del 2015 a 18.9 miliardi di metri cubi. Contrariamente al petrolio, buona parte del gas prodotto viene consumato in ambito nazionale; circa 11.5 miliardi di metri cubi vengono destinati all’utilizzo domestico, lasciando oltre 6 miliardi di metri cubi disponibili per l’esportazione in Georgia e Turchia attraverso la South Caucasus pipeline (conosciuta anche come Baku-Tiblisi-Erzurum, BTE) che collega le coste del Caspio al cuore della Turchia, con una capacità totale di 8.8 miliardi di metri cubi. La maggior parte della produzione di gas naturale è concentrata nei giacimenti offshore di Azeri-Chirag-Guneshli (gas associato) e di Shah Deniz; quest’ultimo ha raggiunto un output di 9.9 miliardi di metri cubi, di cui 2/3 sono destinati all’export. Giacimenti minori sviluppati da Socar includono Gum Deniz-Bahar (2 miliardi di metri cubi di produzione annua) Bulla Deniz (0.3 miliardi di metri cubi). Per quanto riguarda lo sviluppo di ulteriori risorse, necessarie a garantire le esportazioni verso i mercati europei attraverso i gasdotti TANAP e TAP, l’Azerbaijan ha avviato lo sviluppo della seconda fase del giacimento di Shah Deniz (con investimenti annunciati di oltre 120 miliardi di dollari), ma anche le attività di sfruttamento dei giacimenti offshore di Absheron, Umid and Babek, nonché lo sviluppo di gas non-associato localizzato nel complesso ACG. Al momento sono disponibili soltanto dati relativi alle stime delle riserve di questi giacimenti: per quanto riguarda Absheron, la forbice è particolarmente ampia e va dagli 80 ai 350 miliardi di metri cubi; Umid 200 miliardi di metri cubi; Babek 400 miliardi di metri cubi e ACG 280 miliardi di metri cubi.

Sebbene queste risorse siano potenzialmente sviluppabili, attualmente il loro sfruttamento è fortemente rallentato anche a causa del crollo dei prezzi del greggio (e con essi del prezzo del gas), dal sostanziale appiattimento della domanda europea di gas, ma anche da una serie di difficoltà di natura operativa da parte dell’industria petrolifera azera.

La guerra (silenziosa) per controllare il petrolio dell’Artico

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E’ in corso una guerra (non dichiarata) per il controllo delle estrazioni di petrolio nell’Artico. Una guerra combattuta silenziosamente da Russia, USA, Norvegia, Danimarca e Canada. Un giro di affari da 90 miliardi di barili di petrolio e un tesoretto che, secondo le stime dell’Onu, vale il 30% delle riserve mondiali di gas.

petrolio artico

La storia energetica dell’Artico inizia in Russia. Ad aprire la grande corsa agli idrocarburi fu la scoperta del campo Tazovskoye13 nel 1962; fu poi la volta proprio dell’Alaska, con il campo Prudhoe Bay venuto alla luce nel 1967. Circa 61 grandi giacimenti di petrolio e gas naturale sono stati scoperti a partire da quella data all’interno del circolo polare artico in Russia, Alaska, Canada e Norvegia. Quindici di questi grandi campi non sono ancora entrati in produzione; 11 si trovano in Canada e nei Territori del Nordest, 2 in Russia, e 2 nell’Alaska artica.

Ed è proprio la Russia di Putin il paese che più sta puntando sull’Artico, anche per acquisire un vantaggio geo-politico nello scacchiere internazionale ed allargare la sua sfera di influenza. Come la Cina rivendica il 90% del isole del Mar Cinese Meridionale costruendo basi militari su strutture artificiali create su barriere coralline appena affioranti, così la Russia rivendica il controllo delle risorse energetiche sotto l’Artico creando una serie di nuove basi militari che circondano il Circolo Polare Artico.

Secondo quanto rivela il Times, le truppe di Mosca stanno portando a termine la costruzione di sei nuove basi militari permanenti per respingere chi minaccia i suoi interessi economici nella zona, a partire da Canada, Norvegia e Danimarca. L’operazione fa parte di un piano più ampio che prevede tredici piste di atterraggio e dieci nuovisistemi radar a lungo raggio. Tra le nuove basi in fase di costruzione c’è anche quella di Trefoil sulla grande isola conosciuta come Terra di Alessandra (Zemlja Aleksandry) nel Mare di Barents dove tra pochi giorni arriveranno 150 soldati. Le altre nuove installazioni si trovano sull’isola di Kotelny nell’arcipelago della Nuova Siberia, sull’isola di Sredny nell’arcipelago Di Nicola II o Severnaya Zemlya, a Rogachevo sull’isola di Novaya Zemlya, a Wrangel e Cape Schmidt sulla penisola della Chukotka, ai confini con l’Alaska.

All’inizio di dicembre 2015 il ministero della Difesa russo ha annunciato di aver schierato in due basi, nell’arcipelago di Novaya Zemlya (la stessa di Rogachevo, isola tra il Mare di Barents e quello di Kara oltre il Circolo Polare Artico) e nel porto di Tiksi in Siberia, due batterie del loro più moderni e potenti sistemi anti-aereo: l’S-400. Si tratta dello stesso sistema d’arma schierato in Siria a protezione delle forze aeree russe dopo l’abbattimento il 24 novembre scorso di un Sukhou 24 da parte di 2 F-16 turchi. L’S-400 è un sistema composto da un mezzo semovente comando, due tipi di radar semoventi, che controllano fino ad un massimo 12 piattaforme di lancio semoventi, ognuna in grado di sparare quattro missili. In questo modo un sistema S-400 può seguire e distruggere fino 80 obiettivi in cielo entro un raggio di 400 chilometri.

Dal canto loro gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra di nervi con gli ambientalisti che contestano qualsiasi opzione di sfruttamento energetico dell’Artico e non possono rispondere “colpo su colpo” alle iniziative russe con un Presidente in scadenza di mandato.

Il presidente Obama ha annunciato il varo di un decalogo di regole per la gestione dell’area artica, la principale delle quali riguarda l’impegno a verificare e garantire che tutte le attività commerciali che si dovessero svolgere nell’Artico rispettino i più alti standard di sicurezza e ambientali, in riferimento soprattutto agli obiettivi nazionali in tema di tutela ambientale e cambiamenti climatici. Per questo il Bureau of Ocean Energy Management, nel processo di pianificazione delle attività petrolifere offshore, collaborerà con il Canada affinché la regolamentazione globale per la gestione della zona artica, fissato dalle 2 nazioni, venga rispettata. Da parte sua, Ottawa ha stimato che sepolti sotto il Mar di Beaufort, nell’Oceano Artico, potrebbe risiedere circa 1,36 miliardi di barili di petrolio. Ma anche sul versante canadese non mancano le difficoltà. Grandi società Oil & Gas come Imperial Oil, Exxon Mobil, BP e Chevron potrebbero vedersi costrette ad abbandonare i propri progetti di ricerca ed estrazione dal momento che non sono state in grado di convincere le autorità federali che possono proseguire nelle attività di perforazione – prima che le loro licenze scadono – senza scongiurare del tutto il rischio ambientale.

La situazione nell’Artico è in rapida evoluzione, bisognerà aspettare l’elezione del nuovo Presidente americano e vedere le contromosse di Putin. Il circolo polare artico è diventato l’ultima frontiera della Guerra Fredda, una Guerra Fredda che punta alle risorse economiche più che al controllo politico. Insomma, una guerra in linea con i tempi.

 

La svolta green delle compagnie petrolifere

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Negli ultimi mesi le principali compagnie petrolifere internazionali hanno lanciato ambiziosi piani industriali e promosso diverse iniziative a favore delle energie sostenibili, che andranno a diversificare e completare il loro portfolio aziendale, tradizionalmente concentrato sulla produzione di idrocarburi.

Green Oil

Un trend globale rafforzatosi soprattutto in preparazione della Cop 21 dello scorso dicembre, e confermato dal riconoscimento dell’inevitabilità del processo di decarbonizzazione sancito dall’Accordo di Parigi. E che ha spinto un nutrito gruppo di compagnie energetiche ad abbracciare una nuova strategia industriale basata sull’integrazione di gas naturale e tecnologie low-carbon.

A tutto gas!

Il dibattito a monte dell’incontro della Cop 21 ha visto i grandi player energetici internazionali particolarmente attivi e attenti al tema della sostenibilità energetica e della tutela degli equilibri climatici globali. Particolarmente significativa l’iniziativa dei membri dell’Oil and Gas Climate initiative (Ogci), che attraverso una lettera congiunta ai governi in procinto di riunirsi a Parigi, hanno incoraggiato un forte accordo globale in grado di facilitare la transizione a un sistema energetico a basso livello di emissioni di CO2. Seppur lodevole, l’enfasi ambientalista della proposta formulata dall’Ogci è stata determinata anche da fattori ben più pragmatici. Primo fra tutti, l’interesse del gruppo nel promuovere il ruolo del gas naturale – a discapito del più inquinante carbone – quale transition fuel da affiancare alle fonti di energia rinnovabile, la cui crescita inarrestabile è ormai considerata un dato acquisito. Una spinta mediatica (e politica) a favore del gas naturale, che sebbene pienamente giustificata dal suo minore impatto inquinante, non ha fatto del tutto i conti con la congiuntura negativa sul mercato del gas, afflitto da una rischiosa situazione di oversupply e da prezzi ai minimi storici.

L’eredità di Parigi

Ed è in questa situazione di incertezza sul mercato del gas che si innesta l’accelerazione di alcune grandi compagnie petrolifere internazionali nei confronti delle energie rinnovabili e delle tecnologie low-carbon. Oltre ad Eni, attori di primissimo livello quali Total – probabilmente la più progressista delle compagnie petrolifere in materia di rinnovabili – Statoil, Engie, Shell e anche la stessa Exxon hanno annunciato e avviato investimenti nel settore delle nuove energie. E se l’attenzione ai biocarburanti e alla conversione green delle raffinerie rappresenta uno dei primi passi nel segmento delle nuove energie, il rapidissimo processo di elettrificazione in atto a livello globale ha stimolato l’ingresso dei giganti energetici nei settori della generazione da rinnovabili e dell’accumulo elettrico. La strategia annunciata da Total, ad esempio, prevede investimenti annui di circa 500 milioni in energia sostenibile, ai quali si aggiungono acquisizioni mirate come nel recente caso del gruppo francese Saft, specializzato nella produzione di batterie al nickel e agli ioni di litio per molteplici applicazioni in ambito industriale e dei trasporti, per una somma di 950 milioni di euro. Il controllo su Saft va a consolidare il posizionamento di Total sulla filiera elettrica, dove la compagnia opera grazie a SunPower, società californiana acquisita per 1.3 miliardi di dollari nel 2011, durante la prima tornata di investimenti dei player petroliferi nel settore delle rinnovabili. Approccio simile quello di Engie, entrata nel solare nel 2015 grazie all’acquisizione di Solairedirect, seguita nel 2016 dall’investimento per il controllo dell’80% di Green Charge Networks, attiva nel settore dello stoccaggio elettrico. All’attivismo francese fa da contraltare la prudenza dei colossi anglosassoni. Se BP e Chevron sono ancora in parte scottate dai ritorni non soddisfacenti degli investimenti effettuati negli anni passati, Exxon e Shell si muovono tuttora con cautela. Dopo i primi passi nei biocarburanti, la major americana ha rafforzato la collaborazione con la compagna FuelCell Energy nel settore della carbon capture and storage (Ccs), mentre il gruppo anglo-olandese ha di fatto creato una divisione dedicata allo sviluppo di nuove energie, con una spesa per capitale annua prevista attorno ai 200 milioni di dollari.

Pragmatismo e cautela

È evidente che si tratta ancora di cifre risibili, se paragonate al giro di affari (e di investimenti) di queste compagnie nel loro core business, la produzione di idrocarburi. Un settore attualmente sofferente a causa dei prezzi bassi di gas e petrolio, che se da un lato dovrebbero incoraggiare le compagnie a diversificare il loro portfolio per intercettare le nuove fette di un mercato in rapida espansione, dall’altro ne limitano drammaticamente la capacità di azione a livello finanziario. Una situazione che impone un processo di profonda riflessione, all’interno di ciascuna compagnia, nonché per il comparto nel suo intero. I fallimenti del primo ciclo di investimenti nel settore delle rinnovabili e delle tecnologie low-carbon ha, infatti, lasciato un chiaro segno su alcuni degli attori coinvolti, ovviamente riluttanti a stravolgere la loro natura e struttura industriale. Ciò è emerso chiaramente durante l’assemblea degli azionisti di Shell, che hanno rigettato a stragrande maggioranze (97%) una mozione mirante a re-investire i profitti del settore petrolifero per rafforzare il lato green della compagnia. Lo stesso Amministratore Delegato Ben van Beurden ha lanciato un forte monito sulle modalità e le tempistiche attraverso le quali il gigante anglo-olandese dovrà procedere ad una ridefinizione del suo perimetro d’azione, sottolineando come mosse avventate e cambiamenti troppo rapidi, potrebbero infatti mettere a rischio l’esistenza stessa della compagnia. Sebbene non ci sia una ricetta infallibile per garantire una progressiva (e sostenibile) transizione da un modello industriale basato esclusivamente sullo sfruttamento degli idrocarburi ad uno in grado di abbracciare sempre più la componente low-carbon, appare evidente che nei prossimi mesi il settore si troverà ad affrontare un numero significativo di sfide ed opportunità. Chi riuscirà a sfruttare le seconde, senza inciampare nelle prime, sarà probabilmente pronto per entrare in una nuova era energetica.

La geopolitica dell’innovazione energetica: quali sono i paesi che guidano il cambiamento

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I processi d’innovazione tecnologica in ambito energetico stanno stravolgendo il tradizionale approccio di governi, industria e cittadini nei confronti del mondo dell’energia. Nel settore degli idrocarburi, ad esempio, la rivoluzione non convenzionale in atto negli Stati Uniti, l’espansione del mercato LNG e la progressiva globalizzazione e commoditizzazione del gas naturale hanno profonde implicazioni per i produttori tradizionali – OPEC in primis – e per le loro relazioni con i paesi consumatori.

energia alternativa

Il grosso, tuttavia, deve ancora arrivare, e sarà determinato dalla rapida e dirompente diffusione di energie rinnovabili e tecnologie low-carbon su scala globale. L’accelerazione nella lotta al cambiamento climatico determinata dall’Accordo di Parigi, infatti, è accompagnata da ambiziose strategie e processi di innovazione tecnologica introdotti dai grandi player internazionali (pubblici e privati), in grado di sconvolgere il modo in cui l’energia viene prodotta, gestita e consumata tanto su scala globale quanto a livello locale.

Gli Stati Uniti e la rivoluzione non convenzionale

Nel giro di un anno e mezzo, il prezzo del greggio è crollato dai 114 dollari al barile del giugno 2014 ai 27 dollari del febbraio 2016. Le ragioni di questa caduta sono da attribuire principalmente alle scelte della casa reale saudita di sfidare i produttori shale americani, che grazie all’introduzione e al progressivo miglioramento di tecnologie quali l’hydraulic fracking e l’horizontal drilling sono riusciti a riportare la produzione a stelle e strisce oltre i 9 milioni di barili al giorno nel 2015, quasi il doppio rispetto al 2010. Anche nel settore del gas naturale, il boom della produzione americana, accompagnato dall’espansione della capacità di liquefazione mondiale e dalla riduzione dei costi di trasporto dell’LNG, ha forti implicazioni sulle dinamiche di mercato a livello regionale e globale. Ne sono un esempio il crollo dei prezzi del gas e la progressiva convergenza tra i valori sul mercato asiatico e nei principali hub europei, e il loro impatto destabilizzante sulle strategie di attori meno solidi e sui progetti meno competitivi.

La Cina guida il boom delle rinnovabili

Nonostante il crollo del prezzo del greggio, il 2015 è stato un anno record per lo sviluppo delle energie rinnovabili. Gli investimenti globali nel settore hanno raggiunto i 286 miliardi di dollari, con una crescita del 5% sul 2014 e 6 volte tanto rispetto al 2004. Inoltre, per la prima volta in assoluto, le rinnovabili hanno contribuito a oltre metà della nuova capacità di generazione elettrica installata a livello mondiale (53%), per un totale di 118GW contro i 94GW dell’anno precedente. Le economie emergenti sono al centro di questa crescita sensazionale, con investimenti totali pari a 156 miliardi di dollari (+19% rispetto al 2014) contro i 130 miliardi di dollari investiti dai paesi industrializzati (-8% rispetto all’anno precedente). La sola Cina, in questa speciale classifica, contribuisce a oltre un terzo (103 miliardi, 36%) degli investimenti globali, facendo registrare un incremento nazionale annuale del 17%, davanti a India, Brasile, Sud Africa e Cile, i cui investimenti in aggregato hanno sfiorato i 30 miliardi di dollari. Alla luce del crollo dei prezzi del petrolio e del gas, e delle relative entrate finanziarie internazionali, anche i principali produttori di idrocarburi dell’area mediorientale hanno avviato un significativo processo di riforma dei loro settori energetici. Nonostante in termini assoluti i numeri siano ancora modesti rispetto a quelli delle grandi economie emergenti, nella regione Medioriente/Africa la crescita annua degli investimenti in rinnovabili ha fatto registrare un +58, miglior dato in assoluto a livello globale. Particolarmente attivi sono i governi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), che pressati dall’esigenza di prendere le distanze dall’attuale modello economico basato sulle rendite da idrocarburi, stanno promuovendo ambiziose politiche per la riduzione dei sussidi energetici e lo sviluppo delle rinnovabili.

Stravolgimenti globali

Questi trend potranno avere una serie di conseguenze non trascurabili, tanto a livello internazionale quanto sul piano locale. Nel settore degli idrocarburi, la ridefinizione dei fondamentali di mercato, l’affrancamento americano dal petrolio del Golfo Persico, lo stato di confusione all’interno dell’OPEC, le difficoltà finanziarie della Russia, ma anche la crescente sicurezza energetica europea grazie alla flessibilità introdotta dai prezzi bassi del gas e dall’espansione del mercato LNG, sono alcuni degli effetti più evidenti. Ancor più significative potrebbero essere le implicazioni della diffusione di tecnologie low-carbon a livello intra-statale, in particolare nei paesi produttori di idrocarburi di Medioriente e Nord Africa e nei paesi in via di sviluppo dell’Africa sub-Sahariana. Il progresso tecnologico in ambito energetico, infatti, non soltanto potrà rappresentare un volano fondamentale per favorire processi di sviluppo economico equo e sostenibile in ampie aree del globo, ma ha il potenziale per alterare irreversibilmente rapporti di potere e dinamiche socio-politiche consolidatesi negli ultimi decenni. Basti pensare a come la massiccia penetrazione di tecnologie per la produzione, la distribuzione e il consumo decentralizzato di energia possano rendere definitivamente obsoleto il modello verticistico basato su forniture energetiche garantite dall’autorità pubblica in cambio della sostanziale non ingerenza della popolazione nella vita politica. L’effetto democratizzante della diffusione di nuove tecnologie nel settore energetico, nonché il crescente attivismo di attori privati in un settore in passato fortemente imbrigliato da meccanismi di controllo pubblico, può pertanto portare a stravolgimenti straordinari in ambito economico, politico e sociale, forse non del tutto previsti nemmeno dalle parti in gioco.

La rivoluzione del gas nel Mediterraneo orientale: il quadrilatero Cipro-Israele-Egitto-Turchia

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Le scoperte di gas nel Mediterraneo orientale hanno generato un impeto di entusiasmo, promuovendo un’immagine della regione come futuro produttore di gas a livello mondiale. Le potenziali rotte di esportazione delle risorse del Mediterraneo orientale comprendono una vasta gamma di opzioni, dal commercio di gas interregionale con la Turchia e l’Egitto all’esportazione di gas nell’UE, la cui attuale priorità è quella di diversificare i propri fornitori.

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Tuttavia, incoraggiare la stabilità e la cooperazione politica tra i paesi del Mediterraneo orientale è un obiettivo primario per gli attori regionali (UE inclusa), vista la tensione dei rapporti tra i potenziali futuri produttori di gas e i paesi di transito della zona.

Dagli inizi del 2000, abbondanti risorse di gas hanno permesso all’Egitto di emergere come esportatore di gas regionale. Tuttavia, la riduzione della produzione e la crescente domanda interna (in parte innescata dalle generose sovvenzioni al settore energetico) hanno portato l’Egitto a sospendere, nel 2015, le proprie esportazioni di gas in Giordania e in Israele, oltre al commercio globale di GNL, e a iniziare a importare forniture di gas dall’estero ai prezzi vigenti a livello globale.

La scoperta dell’enorme giacimento di Zohr (che si stima possa raggiungere gli 850 mmc), a largo dell’Egitto, regala al settore nazionale del gas una fondata ragione di gioire poiché, da solo, questo giacimento potrebbe fornire il 40% della produzione di gas naturale del 2015 e produrre circa 20-30 mmc/a di gas per due decenni. Non c’è dubbio che grandi scoperte richiedano grandi responsabilità e un’attenta pianificazione: il successo dell’estrazione di gas dal giacimento di Zohr e della sua esportazione dipende in gran parte dalla capacità del governo egiziano di tenere a bada la dilagante domanda interna di gas.

Per poter raggiungere questo obiettivo di vitale importanza, il governo egiziano deve impedire che la scoperta di Zohr annulli gli sforzi compiuti per riformare il settore energetico e frenare la domanda di gas e che l’abbondanza appena scoperta delle risorse di gas infonda un illusorio senso di sicurezza riguardo al settore economico ed energetico dell’Egitto. La cooperazione europea, in questo contesto, può avere un ruolo fondamentale.

L’industria emergente del gas a Cipro e in Israele: alla ricerca dell’indipendenza energetica

A differenza di quanto accade in Egitto, le ambizioni di Cipro di diventare un hub del gas regionale dipendono interamente da quanto lo sfruttamento del giacimento di gas Afrodite, scoperto di recente, si rivelerà soddisfacente. Sebbene le dimensioni del giacimento siano relativamente modeste se comparate con quelle di Zohr in Egitto (dai 130 mmc ai 220 mmc), sarebbero sufficienti a soddisfare la futura necessità interna del paese (circa 0,7-0,95 mmc/a), nonché a permettere alcune esportazioni.

Tra i numerosi problemi che ostacolano lo sviluppo dell’industria del gas a Cipro, il primo e il più importante è legato alla Turchia: i confini indefiniti della Zona economica esclusiva (ZEE), così come il conflitto in atto da decenni tra il lato greco e quello turco dell’isola cipriota, impediscono al paese di delineare una strategia di esportazione realistica. La sicurezza dimostrata dalla Turchia nel corso del conflitto cipriota e il suo atteggiamento belligerante nei confronti dell’espansione dell’industria del gas di Cipro rendono difficilmente prevedibili i calcoli di Ankara per la futura direzione politica. Sebbene, in fin dei conti, la sete di gas della Turchia trarrebbe beneficio da una soluzione pacifica del conflitto e dal pieno sfruttamento delle risorse locali.
La scoperta dei giacimenti israeliani di Tamar e Leviathan è resa ancor più importante dalla brama del paese di raggiungere una certa sicurezza energetica. Una riserva di gas stimata di 200 mmc non soltanto garantirebbe a Israele l’autosufficienza negli anni a venire, ma gli darebbe anche la possibilità di diventare un esportatore di gas. Tuttavia, i principali ostacoli all’estrazione del gas in Israele non sono di natura esterna ma interna: le aziende in possesso delle concessioni per lo sviluppo del giacimento di Leviathan sono attualmente sottoposte all’esame delle autorità di regolamentazione del paese a causa dei timori di monopolizzazione del mercato. Tale situazione sta rallentando l’inizio dello sfruttamento del giacimento, previsto attualmente per il 2019.

Opportunità di esportazione: una promessa di cooperazione o il rischio di crescenti tensioni nella regione?

La rivoluzione del gas nel Mediterraneo orientale fornisce a questa regione un’opportunità senza precedenti di promuovere la cooperazione nell’ambito dell’energia e della sua esportazione, nonché di gestire i conflitti presenti sul territorio in modo diplomatico. L’enorme domanda di gas dell’Egitto consumerà probabilmente gran parte della produzione del giacimento di Zohr, limitando al contempo il potenziale di esportazione. D’altra parte, le risorse di gas di Cipro e Israele non sono sufficienti a permettere a questi paesi di costruire impianti di esportazione in modo autonomo.

Per questa ragione la cooperazione simbiotica tra l’Egitto, già in possesso degli impianti di esportazione necessari nei terminali GNL di Idku e Damietta, Cipro e Israele, che prevedono di esportare la fornitura in eccesso di gas, è una delle strade più realistiche affinché il potenziale delle scoperte di gas nel Mediterraneo orientale possa materializzarsi. Come prova del comune intento di cooperare, nel 2016 Cipro ed Egitto hanno firmato un accordo che getta le basi di una futura collaborazione per la produzione ed esportazione di gas.
Tra le destinazioni più convenienti per il gas del Mediterraneo orientale emerge la Turchia, per la sua vicinanza geografica, la sua domanda di gas interna e le vie di transito per il gas verso l’Europa. Ciò nonostante, si tratta anche di uno dei partner più difficili nel panorama dello sviluppo del settore del gas nel Mediterraneo orientale, a causa della sua feroce opposizione all’indipendenza energetica cipriota. Infine, sia Cipro che Israele guardano all’UE come potenziale cliente delle loro riserve di gas, attraverso il gasdotto del Mediterraneo orientale, poiché ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas dalla Russia è una delle attuali priorità dell’agenda europea. Nonostante la convergenza politica, il destino di tale iniziativa dipenderà soprattutto dalla fattibilità commerciale e tecnica.
In conclusione, per il Mediterraneo orientale l’età dell’oro del gas potrebbe essere proprio dietro l’angolo. Tuttavia, nel contesto di un ambiente turbolento per gli investimenti sulle infrastrutture per i combustibili fossili su larga scala, i futuri produttori di gas della regione devono impegnarsi duramente su un doppio fronte: garantire decisioni razionali dal punto di vista tecnico ed economico e, allo stesso tempo, continuare a lavorare per creare meccanismi di cooperazione politica più ad ampio raggio.

Diamanti e petrolio, l’Angola all’inseguimento della ripresa

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Dopo il decennio d’oro, dal 2002 al 2013, in cui il PIL ha raggiunto una crescita del 12%, l’economia dell’Angola ha subito una battuta d’arresto soprattutto negli ultimi anni a causa del crollo del prezzo del petrolio. Nello specifico, nel 2015 il PIL è cresciuto del 2,8%, valore nettamente inferiore rispetto al 4,8% attribuito dalla Banca Mondiale al Paese nel 2014.

angola

Il debito è cresciuto, lo sviluppo si è bloccato e l’economia ha subito una sensibile battuta d’arresto. Secondo le previsioni, infatti il PIL non supererà il 4% fino al 2019. L’anno scorso il tasso d’inflazione ha sfiorato il 14%, riportando indietro di un’epoca le lancette della storia. La doppia cifra nella crescita generale dei prezzi è stato un ricordo sfumato. Anche la moneta, similmente al paese, sta languendo. Il kwanza ha perso in un solo anno il 30% del suo valore rispetto al dollaro. Tanto che i 5 miliardi del Fundo Soberano de Angola sono evaporati in gran fretta e il paese si è visto costretto a bussare alle porte del Fondo monetario internazionale, confermando di essere finito in pieno nella trappola del binomio materie prime-economia e di essere totalmente dipendente dal petrolio.

Dopo la crescita, lo stop dello sviluppo

Se prima della crisi del prezzo del barile si parlava di un Paese in ascesa e della capitale, Luanda, come della futura Dubai, oggi l’impatto di quella crisi si sta facendo sentire a livello economico anche nel settore sanitario. L’Angola è forse il Paese dell’Africa sub-sahariana che paga più di tutti la sua dipendenza dalle esportazioni di materie prime, inoltre secondo l’Opec, il 45% del prodotto interno lordo proviene dal settore del petrolio e del gas.
Il crollo del prezzo del petrolio ha portato a un rapido calo dei flussi di dollari americani verso l’Angola e alla diminuzione del valore della moneta locale, il kwanza. In un paese in cui molti beni essenziali sono importati, questo ha comportato un aumento vertiginoso dei prezzi anche dei beni di prima necessità.
Secondo la Banca africana dello Sviluppo, nel 2017 la crescita economica si prevede possa subire un lieve aumento, sempre se il governo angolano riuscirà a rafforzare la crescita equa e la diversificazione industriale come misure “necessarie per ridurre la vulnerabilità agli shock esterni”. Tra i settori da sviluppare la Banca indica l’agricoltura, che potrà svolgere un ruolo cruciale nell’accelerare le esportazioni.

I diamanti trascinano la ripresa

Dopo il petrolio i diamanti sono il secondo bene più esportato dall’Angola. La produzione è cresciuta rapidamente fino al 2006, quando ha raggiunto il volume di 9,2 milioni di carati. Da allora, la produzione si è assestata tra gli 8,2 e i 9,2 milioni di carati, mentre nel 2015 è aumentata del 4% e ha raggiunto la quota fissa di 9 milioni di carati. Ma questo settore è potenzialmente in forte espansione, in quanto fino ad oggi sono state scoperte solo il 40% delle risorse minerarie in diamanti.
Insieme alle preziose pietre tutto il settore non oil ha evitato il tracollo economico. Secondo la Banca Mondiale i ricavi, nel Paese, hanno subito un calo di circa 11 punti percentuali del PIL, nel 2015. I proventi del petrolio globale sono scesi da 23,8 punti percentuali a 12,6 punti percentuali, mentre quelli non-oil hanno registrato un piccolo aumento, anche se sono, a tutt’oggi, ancora molto lontani dal riuscire a compensare la riduzione dei ricavi del petrolio. Infine, sempre per contrastare l’oscillazione del prezzo dell’oro nero, il governo ha aumentato l’accisa sui prodotti, in particolare, sui beni di lusso e ha anche introdotto, nel 2016, la stessa tassa sui carburanti.


Trump, petrolio e clima. A decidere sarà il mercato

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Quando Donald Trump, il primo presidente a essere stato eletto senza aver maturato alcuna esperienza politica o militare, farà il suo ingresso alla Casa Bianca il 20 gennaio, erediterà una serie di opzioni di politica energetica che George W. Bush non avrebbe neanche potuto immaginare.

wall street oil

L’innovazione ha portato con sé grandi novità nei mercati energetici, ma la gestione di questi cambiamenti richiederà decisioni difficili, specialmente per una persona priva di conoscenze in materia di politica energetica.

Il presidente neo eletto imparerà molto presto che sono il mercato e le pressioni politiche interne, e non le regolamentazioni governative, a continuare a definire cosa sia più o meno possibile fare. Il totale controllo del Congresso nelle mani dei Repubblicani farà una grande differenza, ma non può certo prevalere su fattori così determinanti.

La nuova linea sul fronte dei cambiamenti climatici

Il primo aspetto che differenzia le scelte di Trump dall’amministrazione Obama riguarda il raggiungimento di compromessi tra le politiche energetiche più aggressive e quelle di salvaguardia ambientale. Il 2016 ha visto una notevole evoluzione nel coordinamento multinazionale delle politiche in materia di cambiamento climatico e Obama è stato una delle personalità che maggiormente hanno contribuito al percorso per la firma e la ratifica dell’Accordo di Parigi. È probabile che il neo eletto presidente Trump dia inizio al processo quadriennale di ritiro dall’accordo e che si sleghi dagli obiettivi relativi alle emissioni nazionali per gli Stati Uniti concordati al suo interno. Gli effetti sugli altri dibattiti sul clima saranno immediati. Sebbene sia improbabile che altri governi, in particolare quelli europei, si sleghino completamente dagli impegni presi a Parigi, non vi è motivo di ritenere che tagli alle emissioni che non coinvolgano gli Stati Uniti possano rivelarsi utili per contenere il riscaldamento globale che ha reso politicamente possibili le concessioni per la maggior parte dei paesi industrializzati. Le elevate aspettative condivise dai difensori del clima riguardo ai futuri colloqui perderanno credibilità.

Inoltre, grazie al controllo di entrambe le camere del Congresso da parte dei Repubblicani, per i promotori dell’industria sarà più semplice limitare l’autorità dell’Environmental Protection Agency (EPA), l’Agenzia statunitense per la tutela ambientale, nella regolazione delle emissioni di gas a effetto serra (GES). L’amministrazione Trump si occuperà in breve tempo del Clean Power Plan del Presidente Obama, che stabilisce obiettivi statali per la riduzione delle emissioni di GES e un obiettivo nazionale di taglio delle emissioni del settore energetico pari al 30 percento entro il 2030.

L’entrata in vigore del piano non era prevista prima del 2022, ma nel breve termine avrebbe comunque imposto una transizione dal carbone al gas naturale e alle energie rinnovabili. Il piano si trova già a dover affrontare problemi di ordine giuridico e certamente l’amministrazione Trump non si adopererà per difenderlo. In generale, il Congresso nelle mani dei Repubblicani permetterà al nuovo governo di tenere a freno l’autorità dell’EPA sulle riduzioni del GES. Sotto altri aspetti, la spaccatura tra le due amministrazioni sarà meno evidente. Il quadro relativo alle energie rinnovabili è invece contrastante. Senza dubbio lo smantellamento del Clean Power Plan ridurrà gli investimenti a lungo termine in questo settore, ma è improbabile che l’amministrazione Trump e i legislatori del partito repubblicano vadano a toccare le estensioni pluriennali dei crediti d’imposta per l’energia eolica e solare istituite nel 2015, mentre diversi stati continueranno a fare pressioni per un passaggio decisamente più rapido alle energie rinnovabili nel panorama dei combustibili. Con l’abbassamento dei costi di produzione trainato dal progresso tecnologico, anche i mercati proseguiranno a favorire lo sviluppo delle rinnovabili.

In aumento le esportazioni di petrolio e GNL

Inoltre, i benefici della vittoria del tycoon per il settore del petrolio e del gas statunitense potrebbero essere più limitati di quanto si possa ipotizzare. Trump non esiterà a moderare la severità delle normative federali in materia di fratturazione idraulica e, sebbene il nuovo presidente abbia palesato la sua opposizione agli accordi di scambio esistenti, insieme ai suoi colleghi repubblicani, si è impegnato per dare man forte ai produttori di petrolio e di gas statunitensi. Le esportazioni di greggio e GNL statunitense continueranno ad aumentare con Trump alla Casa Bianca. Ma in altri ambiti il neo presidente si troverà alle prese con problemi politici ben più complessi. La sua amministrazione e la leadership repubblicana al Congresso potrebbero giovare al settore petrolifero grazie alla riforma dello standard per i combustibili rinnovabili con il taglio sui mandati relativi all’etanolo. Considerata l’importanza degli stati del Midwest per la vittoria di Trump e di questi mandati per gli stati della Corn Belt, ciò potrebbe non rivelarsi la più astuta delle mosse politiche da intraprendere. È per questo motivo che probabilmente la nuova amministrazione non farà niente del genere.  Il Presidente Trump concederà molti più territori federali, onshore e offshore, per le attività di esplorazione e produzione dei settori del petrolio e del gas. Ma il suo progetto di accantonare molte normative ambientali sul settore energetico potrebbe mettere a repentaglio la domanda di gas naturale. Per di più, non dobbiamo aspettarci un improvviso incremento delle attività di fratturazione (fondamentale per la rivoluzione energetica statunitense), perché a rallentare le trivellazioni e la produzione è stato più il crollo dei prezzi del petrolio a livello globale che le gravose normative federali.

È improbabile che tali previsioni subiscano modifiche sostanziali nei prossimi mesi, poiché i dirigenti dei paesi esportatori OPEC e non OPEC sanno bene che la produzione statunitense può rispondere in modo relativamente rapido a eventuali aumenti significativi dei prezzi, mettendo così a rischio la loro preziosa quota di mercato.

Lunga vita a oledodotti e impianti a carbone

Per quanto riguarda la politica in materia di oleodotti, i gruppi ambientalisti locali fomenteranno le proteste, ma la perdita di un alleato fondamentale alla Casa Bianca frenerà di certo lo slancio alla base del movimento “off-oil” statunitense e la costruzione degli oleodotti continuerà ad affrontare le sfide a livello statale. Nel breve periodo, potrebbe essere il settore petrolifero canadese, in particolare quello upstream delle sabbie bituminose, a giovare dei primi effetti positivi dell’era Trump. Il neo eletto presidente ha ribadito la sua approvazione al bistrattato oleodotto Keystone XL laddove TransCanada decidesse di ripresentare la domanda, dando così spazio all’opzione preferenziale di accesso al mercato ai produttori di sabbie bituminose. Per quanto riguarda il carbone, il settore non beneficerà dell’assalto al Clean Power Plan di Obama come ci si potrebbe aspettare. Quasi sicuramente Trump manterrà le promesse di agevolazione degli impianti a carbone esistenti che, con la vittoria della Clinton, sarebbero stati esclusi dal mercato e l’eliminazione delle normative ambientali per la promozione del passaggio ai combustibili alternativi nel settore energetico gioverà sicuramente a quello del carbone. Eppure, anche in questo caso, è il mercato, e non i piani governativi, che sta trainando le varie previsioni. Più che il Clean Power Plan, saranno i costi ridotti del gas naturale a incoraggiare le utility a proteggere le loro scommesse d’investimento sul rilancio del carbone.  In sintesi, la vittoria di Trump porterà effettivi cambiamenti alle politiche energetiche e climatiche, ma i mercati e le realtà politiche limiteranno la portata degli interventi del nuovo presidente.

La politica energetica di Trump: rivoluzione o involuzione?

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L’elezione di Trump a nuovo presidente degli Stati Uniti ha sorpreso molti e preoccupa tanti. Le sue posizioni in campagna elettorale in materia energetica fanno infatti temere un deciso balzo indietro di Washington sulla lotta internazionale al cambiamento climatico e un prepotente ritorno del carbone (americano) nel mix energetico nazionale.

donald trump

Per quanto riguarda il settore dello shale gas, l’impatto del ”ciclone Trump” potrebbe incoraggiare un’ulteriore espansione dell’industria non convenzionale americana. Più incerto, ma con prospettive interessanti, l’impatto a livello internazionale, dove le scelte di politica estera del tycoon potrebbero ridisegnare alcuni trend in aree chiave per la produzione dell’oro blu.

America a tutto gas!

Durante la sua corsa alla Casa Bianca, Donald Trump ha ripetutamente dichiarato guerra all’Accordo di Parigi e alla lotta al cambiamento climatico. Il futuro Presidente, infatti, ha aspramente criticato gli sforzi multilaterali in materia di decarbonizzazione, lasciando presagire un disengagement degli Stati Uniti (non necessariamente un’uscita formale dall’Accordo, che potrebbe richiedere parecchio tempo) sul piano internazionale, accompagnato da un dietrofront sul Clean Power Plan a livello domestico. Sebbene questo potrebbe non necessariamente portare ad un drammatico crollo delle rinnovabili nel Paese, certamente la linea Trump andrebbe a vantaggio di un ritorno in auge del carbone, ma soprattutto di una potenziale accelerata nel settore del gas naturale. Trump, infatti, potrebbe ulteriormente aprire all’esplorazione e produzione non convenzionale per soddisfare le richieste dell’industria degli idrocarburi e, soprattutto, per incoraggiare la crescita economica interna. Ma l’approccio di Trump potrebbe spingersi oltre, con possibili implicazioni anche a livello internazionale. Il Presidente, con l’appoggio del partito Repubblicano, potrebbe infatti allentare in modo significativo i vincoli ”strategici” alle esportazioni di LNG, rendendo la produzione americana più appetibile anche su mercati non soggetti ad accordi di libero scambio.

La via del cambiamento è tracciata

Sullo scenario energetico internazionale, l’avvento di Trump potrebbe avere un impatto circoscritto. Nonostante il ruolo chiave degli Stati Uniti (in partnership con la Cina) nel contesto della COP21, una defezione da parte di Washington non necessariamente andrebbe a bloccare una serie di processi globali che sembrano attualmente ineludibili. Pechino, attore cardine per il raggiungimento dell’Accordo di Parigi, appare chiaramente intenzionata a proseguire il proprio processo di decarbonizzazione, a prescindere dalle decisioni prese sull’altra sponda del Pacifico. Elementi di natura interna, primo fra tutti l’impellente necessità di salvaguardare l’ambiente e la salute dei cinesi da tassi di inquinamento insostenibili, impongono al governo di procedere in modo spedito verso un modello energetico più sostenibile. È quindi difficile immaginare che gli impressionanti investimenti in rinnovabili in atto nel paese potranno rallentare soltanto in virtù di un approccio meno cooperativo degli Stati Uniti. Più in generale, il settore low-carbon potrebbe non risentire in modo significativo della (contro) rivoluzione introdotta da Trump. I progressivi miglioramenti in ambito tecnologico, la continua riduzione dei costi di generazione attraverso rinnovabili, l’innovazione in settori chiave come quello dello stoccaggio elettrico e dell’efficienza energetica continueranno a caratterizzare lo scenario globale, dettando tendenze che la nuova presidenza americana potrà difficilmente limitare, persino sul piano interno. Probabilmente, l’effetto più significativo del nuovo corso americano si rileverà con riferimento alla cooperazione finanziaria, prevista dall’Accordo di Parigi per favorire investimenti finalizzati alla decarbonizzazione nei paesi in via di sviluppo. Il contributo americano ai 100 miliardi di dollari annui previsti dalla COP21 per il Green Climate Fund, nello scenario trumpiano, potrebbe in effetti vacillare, e con esso i tentativi di velocizzare il processo di transizione nelle aree più povere del mondo.

Quale futuro per l’oro blu?

Seppur minacciato da un revival del carbone, che ancora contribuisce per il 30 percento dei consumi energetici globali, anche nell’era Trump il gas continuerà a rappresentare il transition fuel nel percorso di decarbonizzazione avviato a Parigi. Infatti, non solo le politiche interne del nuovo Presidente potrebbero in qualche modo rafforzare l’offerta globale di gas, velocizzando le procedure per l’esportazione e ampliando i possibili mercati di destinazione, ma anche le linee del Presidente in politica estera potrebbero impattare sulle dinamiche energetiche di alcuni attori globali. A beneficiarne potrebbe essere innanzitutto la Russia, che grazie a una maggiore intesa tra la Casa Bianca e il Cremlino, potrebbe vedere progressivamente rimosse le sanzioni internazionali che – seppur non direttamente indirizzate al settore del gas naturale – hanno di fatto messo in ginocchio l’economia russa e limitato la capacità di investimento anche nel settore energetico. Lo sviluppo della penisola di Yamal e della Siberia orientale, nonché il potenziamento della capacità di LNG, potrebbero materializzarsi in questo contesto. Un capitolo tutto da scrivere rimane quello iraniano, poiché la posizione del tycoon sul tema, e sul Medio Oriente in generale, appare quanto mai indefinita. Nella regione, infatti, si incrociano la possibile intesa con la Russia sul destino della Siria di Assad e l’annunciato rafforzamento della lotta al fanatismo sunnita dell’Isis, temi sui quali la convergenza tra Washington e Tehran potrebbe diventare significativa. Un approccio relativamente morbido nei confronti della Repubblica Islamica, e il non rigetto dell’accordo sul nucleare, potrebbero infatti aprire finalmente le porte agli investimenti occidentali nel settore energetico iraniano, con un impatto potenzialmente eccezionale (nel medio periodo) sull’offerta globale di gas.

UE-Russia, una relazione necessaria. Tu chiamalo se vuoi gas

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La collaborazione tra Unione europea e Russia nel settore del gas non è una possibilità, ma una necessità imposta dalla geografia e dalla geopolitica. È quanto sostiene Konstantin Simonov, direttore generale della Fondazione Russa per la Sicurezza Energetica, nell’intervista che ci ha rilasciato.

Russia e Unione Europea sembrano avere raggiunto un accordo per la chiusura della procedura contro Gazprom. Il colosso russo del gas dovrebbe impegnarsi a non sfruttare la propria posizione dominante e ottenere in cambio la possibilità di espandere le proprie attività all’interno dell’Unione. Quali saranno, secondo lei, gli effetti industriali e quali quelli geopolitici?

Effettivamente si parla spesso del compromesso. Io direi che non c’è nulla di straordinario in quanto sta accadendo, tranne il momento storico in cui tutto ciò avviene. Perché sembra che la situazione politica sia eccezionalmente drammatica ed era imprevedibile che la Commissione europea potesse prendere una decisione apparentemente d’intesa con la Russia. La situazione economica e quella politica hanno effettivamente imposto questo passo che è logico e razionale. I dati attuali, d’altronde, dimostrano che le accuse nei confronti di Gazprom risultano estremamente contestabili. Nell’ultimo periodo abbiamo osservato prezzi decisamente bassi, che non si verificavano da anni sul mercato europeo. Ma ciò è accaduto non perché l’Europa ha riformato il mercato energetico secondo i propri principi. Al contrario, i prezzi sono caduti grazie ai contratti sul gas e il petrolio. A inizio anno i prezzi del petrolio non erano tanto bassi. Poi dopo nove mesi, fra settembre e ottobre, si sono molto ridotti. Questo è stato il primo momento. Il secondo è stato lo scorso ottobre, quando i prezzi su base europea risultavano più elevati di quelli proposti da Gazprom, orientativamente intorno ai 50 dollari. Anche se ufficialmente non sono interamente contabilizzate dalla Commissione europea, queste cifre rappresentano la realtà. In terzo luogo, l’Europa non ha alternative al gas. I terminali per il gas naturale liquefatto (Gnl) sono per due terzi vuoti e tutto ciò in un contesto in cui Gazprom ha segnato il record storico giornaliero di forniture all’estero. Solo lo scorso ottobre, in tutta l’Unione europea sono stati consegnati 15 miliardi di metri cubi. I clienti europei hanno acquistato ben più dei volumi previsti nel contratto con Gazprom. Sono condizioni assolutamente senza precedenti e con una situazione del genere per la Commissione europea proseguire sulla strada dell’alternativa al gas russo sarebbe assolutamente folle. Il dato sull’importazione risulta assolutamente senza precedenti. Credo inoltre che in Europa stia emergendo la sensazione che l’Ucraina possa avviarsi alla stagione invernale con una quantità molto ridotta di gas. E la brutta stagione è iniziata in anticipo, rispetto ai due anni precedenti. La difficoltà, dal punto di vista economico, consiste nel fatto che contrastare Gazprom nel periodo invernale è particolarmente difficile. Ed è importante non perdere il contatto con la realtà. Ciò che conta è che quest’anno in Europa sono state prese decisioni davvero inattese. Se ricorda, a giugno la Corte arbitrale ha emesso una sentenza a favore di Gazprom nel contenzioso con la Lituania. Le autorità di Vilnius avevano citato in giudizio Gazprom nel 2012 per aver fornito gas a prezzi rialzati, utilizzando la propria posizione dominante sul mercato. (Secondo la Lituania la cifra contestata sarebbe pari ad 1,6 miliardi di dollari, accumulati fra il 2004 e il 2012, ndr). Come ammesso anche da alcuni esponenti lituani, l’esito del processo arbitrale è stato uno shock ma esso non aveva prospettive di successo, e bisognerebbe capire se i lituani siano riusciti ad ottenere qualcosa grazie a questo contenzioso: forse la promessa di un più rapido accesso al progetto dell’hub europeo. Si è trattato comunque di un successo di minima entità. Dal punto di vista economico, quindi, non ci sono tendenze positive. Dal punto di vista politico, non si può ovviamente cambiare tutto in un colpo, ma è importante aver stabilito il precedente. Persino nelle condizioni attuali a Bruxelles è stato possibile prendere delle decisioni apparentemente favorevoli a Gazprom. È positivo riconoscere che si possono raggiungere questo tipo di compromessi.

Il progetto per il raddoppio del Nord Stream ha suscitato vivaci polemiche, in particolare da parte di Stati Uniti, Polonia, Repubbliche baltiche, ma anche in Italia. Il raddoppio legherebbe ancora più saldamente Berlino e Mosca, ma accrescerebbe il peso specifico della Germania in Europa, soprattutto rispetto ai paesi ex comunisti. È così? E crede che per il governo russo questo sia uno sviluppo auspicabile?

La storia delle relazioni fra Russia e Germania per quanto riguarda le forniture di gas è iniziata più di 40 anni fa. Le prime forniture di gas in Germania sono state fatte nel 1973, e il paese rappresenta il principale mercato di sbocco per il gas russo. Gazprom non è solo un partner nelle vendite. Possiede anche la società Wingas (una joint venture tra Gazprom e Wintershall), che è co-proprietaria delle infrastrutture del gasdotto Opal presenti sul territorio della Germania. Opal prosegue nella Repubblica Ceca attraversando il territorio tedesco. Questo rapporto speciale è il motivo per cui l’imprenditoria tedesca e Gazprom hanno dei punti di contatto. Inoltre, le aziende tedesche, un caso piuttosto raro, stanno lavorando attivamente sul mercato russo estraendo gas in Russia. Lo stesso progetto Nord Stream è stato implementato come un asset swap ed è costruito congiuntamente. Di fatto il legame è irrobustito dal fatto che i tedeschi sono presenti in Russia nell’upstream, e che Gazprom è presente in Germania nel downstream. Sul piano delle relazioni reciproche, quindi, il livello è estremamente elevato e questo permette di guardare con tranquillità alla particolare congiuntura politica. Perché tutti, come ad esempio il Cancelliere tedesco Angela Merkel, sulla quale hanno un pesante influsso gli Stati Uniti, devono tener conto degli aspetti economici. Ma ciò non ferma le regole del mercato e il concetto di base è che sul piano commerciale Gazprom ha proseguito le collaborazioni esistenti. Ci tengo a mettere in risalto il fatto che proprio il gas non è stato sottoposto alle sanzioni anti-russe. Ci sono delle sanzioni ma non per Gazprom, le cui attività sono tutte compatibili con la legislazione Europea. In Germania, inoltre, l’anno prossimo si terranno le elezioni politiche, e in Russia certamente non saremo ingenui. La congiuntura non è positiva per la Merkel e probabilmente ci saranno dei cambiamenti nella struttura del potere. Forse la Germania sarà più cauta in merito alle sanzioni. In questo contesto è significativo che in Italia il progetto Nord Stream 2 abbia sollevato preoccupazioni da parte di alcuni esponenti politici, sebbene il gasdotto sia stato concepito proprio per rifornire il mercato italiano. Questa infrastruttura, per Bruxelles, consentirebbe di unire l’Italia con il Baltico, fornendo gas al Nord Italia aggirando l’Ucraina. Secondo noi si tratta di un progetto di aggiramento della ”tratta pericolosa” che attraversa l’Ucraina, dato che i clienti europei non vogliono essere sottoposti a questi rischi. È questa la lezione della ”crisi del gas” del 2009 (la crisi iniziò il 7 gennaio 2009, quando la Russia interruppe le forniture di gas destinate all’Europa attraverso l’Ucraina. Mosca accusò Kiev di avere violato gli obblighi di transito, trattenendo illegalmente le forniture di passaggio destinate ai clienti europei. Dopo una serie di negoziati e trattative trilaterali – Unione europea, Russia e Ucraina – si arrivò ad un accordo, ndr). Io capisco il motivo per cui l’Italia ha delle perplessità nei confronti del progetto dato che, se sarà realizzato, l’Italia riceverà il gas attraverso la Germania e l’Austria. Il presidente della compagnia austriaca Omv, Rainer Seele, è stato alla guida della tedesca Wintershall ed è tedesco, il che mostra la forte integrazione tra le compagnie gassifere tedesche e austriache. La questione ha una valenza politica, perché per Roma il progetto comporta una dipendenza dalle società che gestiranno il transito di Germania e Austria. Se i rappresentanti politici italiani temono che Germania ed Austria possano rafforzare il proprio peso, allora sarebbe stato necessario sostenere a suo tempo la realizzazione del South Stream. Grazie a quella infrastruttura l’Italia avrebbe ricevuto il gas attraverso la Grecia, un percorso più sicuro. Ma a suo tempo l’Italia non lo sostenne ed anzi se ne distaccò. La Russia dunque non aveva altra scelta che perseguire il raddoppio del Nord Stream.

Il raddoppio del Nord Stream, secondo lei, rappresenta la pietra tombale per il vecchio progetto del South Stream?

La situazione è tale che il South Stream, nella sua prima versione, e poi il Turkish Stream sono stati concepiti con quattro condotte. Per volontà della Turchia, data l’opposizione dell’Ue, le due rotte meridionali sono state trasferite al Nord Stream. In precedenza in Italia si prevedeva che il gas sarebbe arrivato nel Mezzogiorno attraverso Bulgaria e Grecia. Per questo resta in piedi la questione delle due rotte provenienti dal sud Europa. Una delle due andrà di sicuro verso la Turchia, a Istanbul, senza dubbio. La seconda rotta resta una questione aperta, perché la Turchia vorrebbe costituire un hub al confine con la Grecia e diventare il fornitore del gas russo verso l’Europa. Dal punto di vista geopolitico, tuttavia, non sembra esserci condivisione a livello europeo sul fatto che questa sia la soluzione migliore. Per questo motivo l’Europa propone ora alla Russia di realizzare un hub alla frontiera bulgaro-greca. Stiamo anche analizzando lo scenario di un’eventuale costruzione di una rotta meridionale attraverso la Bulgaria, ma vogliamo garanzie sul fatto che Sofia non blocchi il progetto anche stavolta, come avvenuto nel caso del South Stream. Il fatto è che ora non possiamo rimandare la decisione: abbiamo una data precisa, che è il primo gennaio del 2020, quando terminerà il contratto di transito del gas attualmente in vigore con l’Ucraina. Bisogna capire entro questa data come fornire il gas, senza transitare necessariamente attraverso il territorio ucraino.

Dopo il fallito colpo di stato in Turchia, le relazioni fra Ankara e Mosca sono nettamente migliorate: pensa che si tratti di un effetto stabile o le cose potrebbero nuovamente mutare in un prossimo futuro? E in questo caso, potrebbero esserci effetti negativi per il progetto del gasdotto Turkish Stream?

Per quanto riguarda la prima delle due condotte del Turkish Stream, credo che non cambierà nulla. L’opera sarà realizzata anche se la situazione politica dovesse prendere nuovamente dei risvolti negativi. Per quanto riguarda la seconda tratta dipende dalla posizione dell’Ue, se accetterà la Turchia come ”controllore” del gas diretto verso i Paesi europei. Per quanto concerne l’accordo firmato durante la visita di Putin ad Istanbul, esso riguarda solo una delle due condotte meridionali. Per la seconda non abbiamo preso alcun impegno con la parte turca ed è ancora una questione giuridica aperta.

Tutte le ipotesi di un gasdotto trans-caspico si sono sinora scontrate con lo status giuridico di quel mare che consente alla Russia d’impedire la realizzazione di un’infrastruttura di trasporto. Crede che in futuro questa situazione possa mutare?

Il Mar Caspio, come sapete, si distingue dagli altri mari perché è di fatto un lago sul quale si affacciano cinque paesi: Azerbaigian, Iran, Kazakhstan, Russia e Turkmenistan. La posizione della Russia è sempre stata una: la questione riguarda esclusivamente questi cinque paesi. Il problema giuridico del Caspio è irrisolto ormai da 25 anni. Un compromesso ancora non è stato trovato. Non è solo un problema della Russia; anche il Turkmenistan e l’Azerbaigian, ad esempio, hanno contrasti fra loro. Nell’ultimo periodo, inoltre, si è molto rafforzata la posizione dell’Iran, che ha una propria idea su come dividere il Caspio. Non credo che questo problema sarà risolto in fretta, dal momento che nessuno dei paesi della regione del Caspio è interessato a una stabilizzazione. Alla Russia non serve un mare aperto: lo stesso progetto del gasdotto Transcaspico è una variante alternativa di fornitura di gas all’Europa, e alla Russia, è chiaro, non è utile la costruzione d’infrastrutture alternative per portare il gas in Europa. Per l’Iran è lo stesso, visto che Teheran spera di vendere il proprio gas all’Europa. L’Azerbaigian, invece, ha già firmato i contratti per le forniture dal giacimento di Shah Deniz. Neanche il Turkmenistan ha interessi particolari, soprattutto perché il gas turkmeno è diretto principalmente in Cina. Si tratta di quote enormi. La Cina non ha interesse a che il Turkmenistan continui a vendere in Europa e il Paese non può opporsi alla posizione di Pechino, tenuto conto anche di una situazione economica nazionale non semplice.

Qual è l’attuale situazione delle forniture di gas dalla Russia alla Cina? E dall’Asia Centrale alla Cina?

Le relazioni tra la Cina e l’Asia centrale sono ottime. La Cina è un grande acquirente del gas centroasiatico. È una situazione che gioca contro gli interessi della Russia nelle trattative con Pechino. Con la Cina abbiamo firmato nel maggio 2014 un accordo per la costruzione del ”Sila Sibiri”, noto anche come ”Power of Siberia”: il gasdotto Jakutia-Khabarovsk-Vladivostok, in fase di costruzione nell’area orientale della Siberia, per trasportare il gas prodotto in Jakutia verso la Cina e i paesi dell’Estremo Oriente. Vi è una serie di difficoltà tecniche, per esempio nella separazione del metano dall’elio, ma di fatto il progetto procede. Dal punto di vista delle infrastrutture si prevede di separare il GNL dal metano e di costruire un grande impianto per il trattamento del gas nella regione russa dell’Amur. Il contratto prevede che le consegne inizino nel periodo tra il 2016 e il 2021. Ci sono quattro anni per portare a termine il progetto e non c’è motivo di cedere al panico. In Jakutia le infrastrutture sono operative già da un anno. Contemporaneamente abbiamo in fase di progettazione la costruzione di una seconda condotta, il cosiddetto ”Zapad” (Occidente), attraverso i Monti Altaj, complesso montuoso dell’Asia che si estende attraverso Cina, Mongolia, Russia e Kazakhstan. In questo caso sorgono dei problemi, perché nella Cina occidentale arriva già il gas dell’Asia centrale e Pechino può giocare duro nei negoziati per i prezzi. Per questo motivo i negoziati proseguono, ma sono decisamente complicati. Gazprom non ha spinto particolarmente, ma anche la Cina ha portato avanti la sua linea in vista di un prezzo favorevole. Tanto più che per il transito di queste forniture sarebbe necessario avvicinarsi alla frontiera orientale della Cina, e si solleva la questione di chi pagherà i costi di trasporto. Nella Cina occidentale di questo gas non c’è bisogno come in Europa. Pertanto la Russia, attraverso il ”Sila Sibiri”, vorrebbe aumentare il volume delle consegne di gas destinate alla Cina, basandosi sulla certezza che Pechino chiederà un aumento. Ciò è prevedibile non solo per via dell’andamento dell’economia cinese, ma anche per la questione ambientale. La Cina ha firmato l’accordo di Parigi COP21 per una costante riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Ciò significa che ridurrà lo sfruttamento di alcune risorse, come il carbone, a favore del gas. E noi contiamo sul fatto che ne chiederà di più. La Cina è però un negoziatore difficile, può già contare sul gas dal Turkmenistan e lo usa come elemento di pressione nei confronti della Russia.

L’occhio di Mosca sul petrolio libico

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La Russia rientra con decisione nel settore petrolifero libico, e lo fa attraverso la compagnia nazionale Rosneft, sempre più il ”braccio energetico” del Cremlino nel quadrante mediterraneo e medio-orientale. Una regione in cui il vuoto geo-strategico generato dall’incertezza sulle priorità degli Stati Uniti di Trump e dalle difficoltà dell’UE nell’elaborare un approccio coerente e condiviso, sembra spalancare le porte all’azione di Mosca che potrebbe mettere a segno l’ennesimo successo di politica estera (ed energetica) ai confini dell’Europa.

La cooperazione energetica nel Mediterraneo

Quello di Mosca in Libia rappresenta un ritorno, poiché il Cremlino era già presente nel settore energetico del paese nel 2011 – prima della caduta del regime di Gheddafi – attraverso le compagnie Gazpromneft e Tatneft. Durante il conflitto civile, le attività si sono sostanzialmente bloccate, nell’attesa che la situazione sul terreno rendesse praticabile un ripristino sicuro e sostenibile delle operazioni.

Oggi, il ruolo di principale interlocutore russo per la compagnia nazionale libica (NOC) viene affidato principalmente a Rosneft, che negli ultimi mesi ha acquisito grande visibilità e capacità operativa nell’area mediorientale, grazie all’avvio di attività di E&P in Iraq, ma soprattutto all’acquisto del 30% delle quote del giacimento Zohr, nelle acque egiziane. L’accordo di febbraio tra Rosneft e NOC, in realtà, non entra nei dettagli della collaborazione bilaterale, ma prevede semplicemente la creazione di un gruppo di lavoro congiunto tra le sue aziende per esplorare le opportunità di partnership, in particolare nel settore dell’E&P. Nonostante la vaghezza della sua formula, la tempistica dell’accordo è particolarmente rilevante, perché coincide con una significativa ripresa della produzione libica (che a fine 2016 ha raggiunto i 700mila barili giorno), e di un più generalizzato tentativo delle istituzioni locali di rilanciare il settore petrolifero nazionale nei confronti di investitori stranieri.

Il rilancio delle attività di produzione e di esportazione di greggio, a Mosca lo sanno bene, non può prescindere da una effettiva stabilizzazione sul terreno (si legga lotta al terrorismo). Ed è in quest’ottica che il Cremlino ha avviato un progressivo avvicinamento a Khalifa Haftar – uomo forte in Cirenaica e leader delle forza armate che sostengono il governo di Tobruk – sancito dalla visita dello stesso Haftar a Mosca lo scorso dicembre, e culminato con i colloqui a bordo della portaerei russa Kuznetsov di passaggio al largo delle coste libiche a gennaio. Il sostegno e la copertura delle truppe di Haftar, chiamato direttamente in causa dal portavoce del Cremlino Dmitrij Pesko, sono un elemento chiave per qualsiasi tipo di iniziativa russa nel settore energetico libico. Gli uomini del generale, infatti, hanno in passato dimostrato la capacità di proteggere le installazioni petrolifere e di controllare i terminal per le esportazioni, e diventano oggi un attore chiave per arginare e respingere le iniziative delle milizie islamiste all’interno dell’Oil Crescent, quella porzione di territorio di Cirenaica dove sono localizzate buona parte delle risorse e delle infrastrutture sensibili. Ma, nel caso in cui le forze locali non dovessero riuscire a garantire la tutela degli interessi energetici russi, il ruolo di Mosca sul campo potrebbe farsi decisamente più attivo. Se già da settimane si specula sulla presenza di forze speciali russe presenti nella zona di Bengasi, non è da escludere che la luna di miele tra Haftar e Putin sancisca lo stanziamento di una base militare russa sulle coste libiche.

Incertezza startegica e implicazioni per l’Europa

Cosa implica questo susseguirsi di avvenimenti per gli equilibri strategici nella regione, e per la sicurezza europea? Il fatto certo è che la Russia si trova di fronte ad un allineamento astrale pressoché perfetto nel bacino Mediterraneo: dalla Turchia alla Libia, passando per Siria ed Egitto (ed includendo anche gli ”occidentali” Cipro, Grecia ed Israele), la serie di alleanze allacciate da Mosca garantisce al Cremlino un proiezione strategica eccezionale nell’area. Impugnando il vessillo della lotta al terrorismo – oggi particolarmente spendibile di fronte al rivale storico nell’area mediterranea, gli Stati Uniti di Donald Trump – di fatto Putin ritorna in scena in uno dei paesi chiave per gli equilibri della regione (nonché della sicurezza in Europa). E prova a riprendersi ciò che la caduta di Gheddafi aveva in parte sottratto alla Russia: investimenti nel settore energetico, cooperazione in ambito militare e soprattutto influenza sulle dinamiche interne (in collaborazione col ”nuovo alleato” al-Sisi). L’Europa, divisa e ancora disorientata dall’avvento di Trump, rimane a guardare in attesa dell’evolversi della situazione. Se è vero che il successo dell’iniziativa di Mosca potrebbe favorire una almeno parziale stabilizzazione del paese – con effetti positivi (in particolare su migranti e produzione energetica) anche per la sicurezza europea – l’esperienza siriana dimostra che alla lunga il modus operandi e gli interessi russi possono esacerbare le divisioni e le posizioni massimaliste tra le diverse fazioni in lotta. Un rischio che gli stati europei, per quanto in balia degli eventi, non possono permettersi di correre.

TAP: come funziona e perchè ci serve il gasdotto trans-adriatico

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Il gasdotto trans-adriatico (Tap) dovrebbe portare in Italia il gas azero passando per Grecia ed Albania: un progetto teso ad accrescere la sicurezza energetica, diversificando le fonti e riducendo la dipendenza dal gas russo e nordafricano. Tralasciando le polemiche e le lungaggini, provocate dalle preoccupazioni ambientaliste in Puglia, regione che sarebbe attraversata da appena 8 chilometri di nuova tubazione, il progetto è tuttavia soggetto ad alcuni rischi geopolitici, in un contesto internazionale ancora caratterizzato da forte incertezza, alleanze mutevoli, focolai di tensione diffusi e conflitti congelati pronti a riesplodere.

Il gas importato dall’Italia proviene principalmente da Russia e Nord Africa

Secondo il ministero dello Sviluppo economico, l’Italia importa attualmente 107 milioni di metri cubi al giorno dalla Russia tramite il gasdotto Trans Austria Gas (Tag), che trasporta gas naturale russo dalla Slovacchia al confine con l’Italia. Nel gasdotto Ttpc (Trans Tunisian Pipeline Company) transitano invece 108 milioni di metri cubi al giorno provenienti dall’Algeria, mentre dalla Libia arrivano 46,7 milioni di metri cubi al giorno attraverso il gasdotto Greenstream. Altri 59 milioni di metri cubi al giorno arrivano dal gasdotto svizzero-italico Transitgas, che trasporta gas naturale prevalentemente di origine olandese e norvegese. Circa il 35% del gas naturale, importato in Italia via gasdotto, proviene dalla Russia, quasi il 50% arriva dal Nord Africa e il restante 15% dal Nord Europa.
L’eventuale acuirsi della crisi libica e la rinegoziazione dei contratti con l’Algeria, in scadenza nel 2019, potrebbero erodere la percentuale di gas proveniente dalla sponda Sud del Mediterraneo, aumentando di fatto la dipendenza di Roma dagli approvvigionamenti di Mosca. Il Tap dovrebbe ovviare a questo problema. Il gasdotto rientra nel più ampio progetto del Corridoio meridionale del gas, espressione coniata dalla Commissione europea per individuare i progetti infrastrutturali destinati a incrementare la diversificazione delle fonti e la sicurezza degli approvvigionamenti, grazie all’arrivo in Europa di nuovo gas, proveniente dall’Azerbaigian e forse, un domani, dall’Iran e dalla sponda orientale del Mar Caspio.

Investimenti complessivi per circa 45 miliardi di dollari

Con un percorso di quasi 4.000 chilometri, l’attraversamento di sette paesi e il coinvolgimento di una decina delle principali società del settore, il Corridoio sud prevede investimenti complessivi per circa 45 miliardi di dollari. La sezione finale della conduttura, il Tap, dovrebbe portare in Italia 24,68 milioni di metri cubi di gas al giorno, pari a circa l’8% degli attuali 320 milioni di metri cubi importati nella penisola ogni 24 ore via metanodotto.

I principali dubbi sul progetto derivano dalla stabilità della regione del Caucaso. Azerbaigian e Armenia, infatti, sono ancora lontane da una soluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, la regione autonoma a maggioranza armena che ha proclamato l’indipendenza nel 1988. La guerra aperta si è conclusa nel 1994, ma scontri sporadici si sono sempre verificati e dall’aprile dello scorso anno vi è stata anzi una recrudescenza dei combattimenti. Congelato è anche il conflitto tra Georgia e Russia per l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, regioni separatiste a maggioranza russofona, ma meno di dieci anni fa, nell’agosto del 2008, le truppe russe arrivarono a soli 9 chilometri dalla capitale georgiana Tiblisi, accanto a cui passa il gasdotto sud-caucasico, la prima infrastruttura del Corridoio meridionale del gas. Poco più a nord, la Cecenia appare oggi “pacificata”, ma resta un bacino di reclutamento per l’estremismo islamico.

Il rapporto Russia Turchia

C’è un’altra incognita che pesa sull’efficacia del Corridoio sud del gas: l’altalenante rapporto tra Russia e Turchia. I due paesi, fieri avversari durante la Guerra fredda, si sono riavvicinati in anni recenti, per poi sfiorare il conflitto nel novembre del 2015, quando l’Aviazione turca abbatté un cacciabombardiere russo in volo sulla Siria. Il colpo di Stato tentato dai militari turchi nel luglio del 2016, ha poi spinto il leader di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, a cercare il sostegno del presidente russo, Vladimir Putin. Ha ripreso quota, così, il progetto del Turkish Stream, gasdotto che dovrebbe collegare la rete metanifera russa al gasdotto transanatolico (Tanap), la seconda infrastruttura del Corridoio meridionale del gas. Uno sviluppo che consentirebbe alla Russia di aumentare le proprie esportazioni di gas verso l’Italia usando, paradossalmente, proprio l’infrastruttura pensata per ridurre il peso delle forniture da Mosca. (Fonte: ABO – About Oil).

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